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L'Araldo della Terza Parte
L'Araldo della Terza Parte
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E-book1.120 pagine13 ore

L'Araldo della Terza Parte

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Info su questo ebook

1244. Arpaïs ha solo tredici anni quando fugge dalle fiamme di Montségur. Con sé porta un antico manoscritto: l’Interrogatio Iohannis, memoria e speranza del suo popolo. Sulle rotte dei pellegrini e dei mercatanti, un lungo viaggio ha inizio; dall’Occitania alla Lombardia, da Cremona a Sirmione, fino al cuore della Tuscia, Fiorenza, dove tra i gigli bianchi si annidano covi di vipere e infuria il morbo dell’eresia. Arpaïs imparerà a vivere tra quelle mura, imparerà a temerle e ad amarle, come imparerà a temere e ad amare gli abitanti di quella città che ha il nome di un fiore, ma che dai suoi stimi secerne odio e rancore. Mentre le lotte tra guelfi e ghibellini imperversano e il papato complotta per annientare l’Anticristo, il canto del lupo si leva sopra il clangore delle spade, affinché la mano di una bambina possa incidere la verità sulle pagine del tempo.
1321. A Villerouge-Termenès, dal rogo dell’ultimo cataro, si leva una profezia: “Tra settecento anni, questo lauro rifiorirà”. 1939. Presso la Biblioteca Nazionale di Firenze il padre domenicano Antoine Dondaine riesce a decifrare un’iscrizione crittografata su un codice pergamenaceo e scopre che si tratta di un antico testo cataro rimasto celato per secoli.
2021. Il conto alla rovescia ha inizio.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2021
ISBN9788833468228
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    Anteprima del libro

    L'Araldo della Terza Parte - Sabrina Ceni

    araldo_fronte.jpg

    L'Araldo della terza parte

    di Sabrina Ceni

    Direttore di Redazione: Jason R. Forbus

    Mappe: grafica di N. Volpini

    ISBN 978-88-3346-821-1

    Pubblicato da Ali Ribelli Edizioni, Gaeta 2021©

    Narrativa – Maree

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È severamente vietato riprodurre, in parte o nella sua interezza, il testo riportato in questo libro senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    L'Araldo della terza parte

    Sabrina Ceni

    AliRibelli

    Qualsiasi riferimento a fatti recenti, a nomi di persone ancora viventi e/o omonimi è da considerarsi del tutto casuale. Storia ispirata a personaggi del XIII secolo e a eventi rivisitati dall’autore.

    "E gli fu tolto lo splendore, il suo volto diventò come ferro rovente,

    in tutto simile a quello dell’uomo

    e Satana trascinò con la sua coda la terza parte degli angeli di Dio."

    Interrogatio Iohannis o La Cena Segreta,

    Redazione di Carcassonne.

    A Fernando,

    che ha lasciato i sassolini lungo la strada,

    affinché io potessi trovare la via di casa.

    Pigliando esempio dal vulgare poeta fiorentino Dante, che quando avea a trattare di virtù e di ode altrui, parlava egli, e quando avea a dire i vizi e biasimare altrui, lo faceva dire alli spiriti.

    Trecento Novelle, Franco Sacchetti, Ist. Ed. Italiano, vol. XLV.

    Quelle storie avevano più di mille anni, ed erano rimaste le stesse, parola per parola, dal tempo dei tempi. Il bardo viveva per ricordarle: cosa poteva fare, se le dimenticava? Raccontarne altre? Inventarne di nuove? Nessuno l’avrebbe mai perdonato.

    La vera storia del pirata Long John Silver, Björn Larsson.

    Indice

    Mappe

    Legenda dei luoghi

    Arme delle famiglie

    Personaggi

    Glossario

    Legenda crittogrammi

    Antefatto

    Il ritrovamento delle chiavi

    Prologo

    PARTE PRIMA

    Il cielo di vetro – I figli del serpente

    Capitolo I

    Combattere l'Anticristo

    Capitolo II

    Il maestro

    Capitolo III

    Mai una perfetta

    Capitolo IV

    Il cammino dei monaci

    Capitolo V

    Mala sorte

    Capitolo VI

    Sulla strada per Poggio alla Volpe

    Capitolo VII

    Gherardo da Villamagna

    Capitolo VIII

    Messaggi cifrati

    Capitolo IX

    La resina e l’allodola

    Capitolo X

    Cattive notizie

    Capitolo XI

    Lenticchia

    Capitolo XII

    Sangue del diavolo

    Capitolo XIII

    Vergogna

    Capitolo XIV

    Terribili presagi

    Capitolo XV

    Catorià. L’Erba della paura

    Capitolo XVI

    Quona Castiglionchio, Quona Volognano

    Capitolo XVII

    Lucciole

    Capitolo XVIII

    L’amore è come l’ellera, dove s’attacca more

    Capitolo XIX

    A la perfin… Fiorenza

    Capitolo XX

    Diotaiuti

    Capitolo XXI

    La bottega dello speziale

    Capitolo XXII

    San Jacopo tra le Vigne. Militiae Templi

    Capitolo XXIII

    Fra’ Alberto

    Capitolo XXIV

    I gatti non sbagliano mai

    Capitolo XXV

    Liber de duobus principiis

    Capitolo XXVI

    Sabato Santo

    Capitolo XXVII

    En giro torte sol ciclos et rotor igne

    Capitolo XXVIII

    L’aquila rossa, l’aquila nera

    Capitolo XXIX

    Beatrice

    Capitolo XXX

    Anna

    Capitolo XXXI

    Il nome del lupo

    Capitolo XXXII

    Nella tana del lupo

    Capitolo XXXIII

    Amici d’infanzia

    Capitolo XXXIV

    Consolamentum.

    Capitolo XXXV

    Nodi al pettine

    Capitolo XXXVI

    Hospitium Sancti Johannes

    Capitolo XXXVII

    La leggenda di Re Guntrammo

    Capitolo XXXVIII

    La Fonte di Bacco

    Capitolo XXXIX

    Il porto di Vada

    Capitolo XL

    Il mercatante di Al-Andalus

    Capitolo XLI

    Pandolfo Fasanella riporta l’ordine in città

    Capitolo XLII

    Occhi tondi e neri come la notte

    Capitolo XLIII

    Cavalieri e poeti

    Capitolo XLIV

    Morto che parla

    Capitolo XLV

    Notizie dalla Cicilia

    Capitolo XLVI

    Venènum

    Capitolo XLVII

    Cani e lupi

    Capitolo XLVIII

    Caccia al lupo

    Capitolo XLIX

    La sacra milizia. Notte di S. Bartolomeo

    PARTE SECONDA

    Cielo del Dio Legittimo – I figli dello Spirito

    Capitolo I

    Fiera di San Martino

    Capitolo II

    Federico d’Antiochia

    Capitolo III

    Fuoco, pietre e cavalieri

    Capitolo IV

    La congiura di Capaccio

    Capitolo V

    Città di eretici e di santi

    Capitolo VI

    Fratelli

    Capitolo VII

    Perfette

    Capitolo VIII

    Gerardo da Ponte a Rignano

    Capitolo IX

    Vallombrosa-Fiorenza

    Capitolo X

    Ospiti inattesi

    Capitolo XI

    Poggibonizzo

    Capitolo XII

    Pozzocce

    Capitolo XIII

    Siena

    Capitolo XIV

    La trappola del lupo

    Capitolo XV

    L’esercito gigliato giunge a Monselvoli

    Capitolo XVI

    Alla morte!

    Capitolo XVII

    Urano in quadratura a Marte

    Capitolo XVIII

    Lo boièr

    Capitolo XIX

    Li abbiamo debellati e vinti

    Capitolo XX

    I discendenti di Adonald, dux ligurae

    Capitolo XXI

    Se mille volte bisognasse morire per questo,

    mille volte sono pronto alla morte!

    Capitolo XXII

    Arnaude

    Capitolo XXIII

    Il letargo del lupo

    Capitolo XXIV

    … Ut domum ubertorum disperdere et eradicare

    digneris, te rogamus, audi nos…

    Capitolo XXV

    Verità

    Capitolo XXVI

    Zefiro

    Capitolo XXVII

    Alto mare

    Capitolo XXVIII

    Cicilia

    Epilogo

    Fiorenza

    Note storiche

    Note al lettore

    Ringraziamenti

    Mappe

    A: Occitania. Presenze templari e catare attestate attorno alla metà del XIII secolo in Occitania e Camì dels bons homes di Fra’ Guillem Duran (templare).

    B: Viabilità attorno al 1245 Bologna – Firenze. Mappa ispirata a R. Stopani, La via teutonica. L’alternativa germanica alla via Francigena, Firenze 2010.

    C: Fiorenza metà XIII sec., mappa antecedente al periodo di Arnolfo di Cambio, liberamente ispirata a R. Davidsohn, Storia di Firenze, le origini, Ed. di Storia e Letteratura, Roma 2009.

    D: Il contado fiorentino attorno alla metà del XIII sec.

    Legenda dei luoghi

    Coni: piana di Cuneo, così chiamata dagli Occitani, tappa dopo i passi alpini nel cammino verso la Lombardia.

    Balarmuh: Palermo.

    Camarti: Bagno a Ripoli.

    Candegghi: Candeli (Bagno a Ripoli).

    Campo di Maldolo: Camaldoli.

    Capocavallo/Cavocavallo: lido presso porto di Vada.

    Carcassona: Carcassonne.

    Cicilia: Sicilia.

    Curte Biboni: Bibbona.

    Curte Bulgari: Bolgheri.

    Lago di Benaco: Lago di Garda.

    Monte Agutis/ Montaguto: Montacuto (Case di San Romolo – Bagno a Ripoli).

    Poggio alla Volpe: Poggio all’Incontro.

    Pagliazza: carcere femminile, odierna torre presso piazza di Sant’Elisabetta (Firenze).

    Poggibonizzo: Poggibonsi.

    Ponte a Rignano: Rignano Sull’Arno.

    Ponte a Sieve

    Porto Pisano: porto di Pisa.

    Rocavion: Roccavione.

    Rovasca (1198): Roaschia (dal 1246).

    San Donato in Podio: San Donato in Poggio.

    Arme delle famiglie

    Alberti (conti di Certaldo): semitroncato partito nel primo scaccato d’azzurro e d’argento, nel secondo di rosso pieno, nel terzo d’oro a tre fasce d’azzurro.

    (Albizo Tribaldi de’) Caponsacchi: di rosso, a tre rami di rosaio di verde, fioriti d’argento.

    Compiobbesi: losangato d’azzurro e d’argento.

    Quona Castiglionchio: d’azzurro nel campo d’argento a quattro catene moventi dai quattro angoli dello scudo, riunite al centro ad un anello.

    Quona Volognano: d’argento, a quattro catene d’azzurro moventi dai quattro angoli dello scudo e riunite in cuore per un anello dello stesso.

    Soldanieri: di vaio d’argento su nero, collo scudo contornato da una scacchiera d’oro e turchina (di vaio alla bordura composta d’oro e d’azzurro).

    Uberti: Partito: nel primo d’oro all’aquila di nero uscente dalla partizione; nel secondo scaccato d’oro e d’azzurro.

    Personaggi

    Adaleita degli Alberti: figlia di Albertino degli Alberti e di monna Marinetta, conti di Certaldo. Moglie di messer Manente degli Uberti.

    Adalina (Adelina): moglie di messer Albizo Tribaldi de’ Caponsacchi, catara.

    *Al-Manṣūr: mercatante musulmano.

    Albizo Tribaldi de’ Caponsacchi: nobile fiorentino con proprietà a Camarti, consorte di monna Adelina.

    Alessandro IV: Rindaldo dei Signori di Jenne, papa dal 1254 al 1261.

    Antonio de’ Compiobbesi: signore del castello di Montacuto, ghibellino.

    Antoine Dondaine: padre domenicano. A lui si deve la scoperta nel 1939 del Libro dei due princìpi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze.

    Arnaud Rouquier de Belpech: padre di Arpaïs, medico personale del conte Pierre Roger de Mirepoix, originario di Prouille.

    Arpaïs Rouquier de Belpech: figlia di Arnaude e Arnaud Rouquier de Belpech.

    Assunta: bibliotecaria Comune Bibbona.

    Azzolino, Nericozzo, Maghinardo, Tolosatto, Lapo, Federigo, Beatrice detta Bice, Conticino: figli di messer Manente degli Uberti e di monna Adaleita.

    *Beatrice: figlia del legnaiuolo Noddo di San Pancrazio.

    *Bernardina, Cesarina, Riccia e Isotta: bonnes femmes presso la casa di Camarti.

    Bernardino Orlando Ugo de’ Rossi, Dominus Bernardinus Rolandi Ugonis Rubei: podestà di Fiorenza nel 1244.

    *Bonaccorso: paliarius di casa Tribaldi de’ Caponsacchi.

    *Brizio: stalliere e tutto fare presso il castello di Montacuto e fidanzato/nubendo di Tessa.

    Buona: eretica mandata al rogo a Prato.

    *Cece: pergamenaio di Borgo Pidiglioso.

    Chiaro Mainetti: braccio destro di Manente degli Uberti, cataro e ghibellino.

    *Cisti: fornaio della zona di Orsanmichele.

    Clemente IV: Guy Le Gros Foulquois, papa dal 1265 al 1268.

    Conte d’Arras: generale al servizio di re Manfredi durante la Battaglia di Montaperti.

    *Curzio, detto il Monaco: responsabile carcere femminile della Pagliazza tra il 1244 e il 1245.

    Diotaiuti: medico, cataro.

    Elissa: consorte di messer Antonio de’ Compiobbesi.

    Esquieu de Mirepoix: figlio di Pierre Roger de Mirepoix, conte di Mirepoix e capo dei cavalieri di Montségur fino alla caduta del 1244, compagno d’infanzia di Arpaïs de Rouquier de Belpech.

    Filippo Quona da Volognano: signore del castello di Volognano, ghibellino.

    Fra’ Alberto: precettore della magione templare presso San Jacopo tra le Vigne (odierna S. Jacopo in Campo Corbolini), procuratore generale e legittimo di Fiorenza, sindaco e nunzio per la Tuscia (Febbraio 1255, computo moderno: 28 gennaio 1256).

    Fra’ Guido: fratello di mestiere della magione templare di Curte Biboni.

    Gerardo da Rignano: perfetto di Rignano Sull’Arno, attestato con il socius Luca a Firenze nei pressi delle case degli Uberti e lungo la valle dell’Arno, fino a Pisa.

    Geri Quona da Volognano: cavaliere, nipote di messer Filippo (zio), ghibellino.

    Gherardo Mencatti (Villamagna 1174-1245): religioso del Terzo ordine francescano, beatificato nel 1833 come San Gherardo da Villamagna.

    * Ghino, Duccio: mercenari al soldo del vescovo Ranieri di Volterra.

    * Ghiozzo: traghettatore.

    Giacomo da Acquapendente: perfetto, massima autorità dei buoni uomini presso la scuola catara di Poggibonizzo e della Tuscia. Vescovo.

    Gianni de’ Soldanieri: signore della Torre dello Scarafaggio, Sestiere di San Pancrazio, Fiorenza, ghibellino.

    Gieppo: taglialegna senese.

    Gilda de’ Soldanieri: madonna fiorentina.

    Giordano Lancia d’Anglano: conte di San Severino, fratello di Bianca Lancia e zio di re Manfredi, vicario imperiale per la Tuscia nel 1260.

    Giovanni Di Lugio: ex monaco cattolico, guida della comunità catara di Sirmione; autore del Liber de Duobus Principiis, cataro.

    Gisla: fantesca al servizio della famiglia de’ Cerchi.

    Guido Novello dei Conti Guidi (1227-1293): condottiero e politico appartenente alla famiglia dei conti Guidi, uno dei maggiori signori feudali della Tuscia.

    Innocenzo IV: Sibibaldo Fieschi dei conti di Lavagna, papa dal 1243 al 1254.

    Jacopo degli Uberti, detto Grifo: cugino di Manente degli Uberti, ghibellino.

    Jacopo degli Uberti, detto Schiattuzzo: primogenito e fratello di Manente e Neri degli Uberti, ghibellino.

    Lamandina: moglie di Rinaldo di Pulci, accusato di eresia. Frequenta la casa di Albizo Tribaldi de’ Caponsacchi, insieme alla cognata Margherita di Pulci.

    Laurent Peytavi: perfetto occitano, fuggito insieme ad Arpaïs dopo la caduta di Montségur (attestato a Pavia attorno al 1250).

    Lorenzo de’ Compiobbesi: figlio di monna Elissa e di messer Antonio de’ Compiobbesi.

    Luca: archeologo, restauro Fonte di Bacco, Bibbona.

    Manente degli Uberti, detto Farinata: figlio di Jacopo, nipote di Schiatta degli Uberti, capitano dei ghibellini fiorentini dal 1239. Sesto di San Piero Scheraggio.

    Mangia degli Infangati: ghibellino fiorentino.

    Marito degli Uberti: figlio di Schiatta e nipote di Farinata degli Uberti. Ramo della famiglia esiliata in Sicilia. Nominato giustiziere della Cicilia nel 1286 dopo la presa dell’isola da parte di Giacomo II.

    Neri degli Uberti: secondogenito e fratello di Manente e di Schiattuzzo degli Uberti, ghibellino.

    *Noddo: legnaiuolo di San Pancrazio.

    Pace e Barone de’ Baroni Giubelli: nobili fiorentini. Ghibellini e protettori di eretici.

    Pace Pesamigola da Bergamo: podestà di Fiorenza nel 1245.

    Pandolfo Fasanella: vicario imperiale per la Tuscia dal 1245 al 1246.

    Pierre Roger: figlio di Esquieu de Mirepoix.

    Pietro da Verona: inquisitore e domenicano veronese, nato da famiglia catara. A Firenze tra il 1244 e il 1245.

    Provenzano Salvani: nobile e condottiero senese.

    Raniero Sacconi: ex cataro della chiesa eretica di Concorezzo, convertito al cattolicesimo prima del 1238 (Jean Duvernoy La religione dei catari. Fede, dottrine, riti), autore nel 1250 del Summa de Catharis.

    Rinaldo Pulci: consorte di Lamandina e fratello di Margherita Pulci, consolata.

    Ruggeri Quona da Castiglionchio: signore del castello di Castiglionchio, guelfo.

    Ruggero Calcagni: inquisitore fiorentino del Sesto di San Pancrazio.

    Saraceno Paganelli: fiorentino ghibellino del Sesto di Porta del Duomo, consigliere nel 1260 nelle adunanze fatte con Siena per rivedere i confini dopo Montaperti. Esule a Pisa, ospite presso i Sismondi. Incontra i perfetti presso la casa di Tice del Cane. Vent’anni dopo, al rientro a Firenze, processato come eretico.

    *Taddeo: cuoco presso casa Uberti.

    Tamburino Cecco: suonatore di tamburo, milizie di Siena.

    *Tessa: serva presso il castello di Montacuto e fidanzata/nubenda di Brizio.

    Tice del Cane dei Sismondi: membro della nobile famiglia ghibellina dei Sismondi del quartiere di Chinzica, a Pisa. Nella sua casa, nei pressi della chiesa di Santa Cristina, si riuniscono e pregano gli eretici catari tra cui il fiorentino Saraceno Paganelli.

    Torsello: perfetto, massima autorità tra i buoni uomini di Fiorenza e della Tuscia, vescovo cataro.

    Umberto di Caino degli Uberti: ghibellino fiorentino.

    Umiliana de’ Cerchi: figlia di Uliveri, ricco mercatante e signore del castello di Acone, in Val di Sieve, trasferiti a Fiorenza nel Sesto di San Piero Scheraggio (Fiorenza 1219, Fiorenza 19 maggio 1246). Beatificata nel 1694 come Santa Umiliana.

    Urbano IV: Jacques Pantaléon, papa dal 1261 al 1264.

    Usiglia: treccola senese.

    E per finire, comparse esercito fiorentino, senese, tedesco: cavalieri, balestrieri, palvesari, arcatori, marraiuoli…

    * personaggi di fantasia.

    Glossario

    Termini fiorentini-italiani

    A isonne: gratis.

    Allazzato: celeste chiaro. Dal guado, per ottenere gradazione di azzurri dai toni carichi e vivaci del perso e del persiero fino al celeste chiaro.

    Alle guagnespole!: da alle guagnèle (per lo Santo Vangelo da antico Guanguelo), esclamazione di sorpresa, anche per giuramento.

    Armiere: protezione parziale del braccio a difesa della parte esterna. In cuoio cotto e rinforzato con borchie e bullette, poi metallico.

    Ascettino: attrezzo a lama piatta; insieme al picconcello, strumento della tradizione romanica fiorentina. Sostituito dalla martellina dentata nei cantieri del Trecento.

    Baggianata: cosa sciocca.

    Barbio: pesce di acqua dolce.

    Beccaio: macellaio.

    Bendella: diminutivo di benda, striscia di tela o di seta con cui le donne sposate si avvolgevano guance, tempie e fronte per ornamento e per trattenere i capelli.

    Bruciataio: colui che fa e vende le bruciate.

    Bucine: rete da pesca.

    Buoni cristiani: eretici catari.

    Busse: botte.

    Calvello (farina di): grano gentile, buono, di ottima qualità.

    Camangiare: erbe buone da mangiare, crude o cotte.

    Capitudini: rettori o consoli, termine di uso comune nel Duecento e inizio Trecento; capo e principio di ciaschuna arte, in Statuto degli Oliandoli (n. 6. III).

    Cecco Suda (fare il Cecco Suda): fare l’affannone. Nome di invenzione per indicare chi finge di darsi un gran da fare avendo in mente solo il proprio tornaconto; chi si impiccia delle cose che non lo riguardano.

    Condennagione: condanna

    Contraddittorio: confronto pubblico in cui due individui sostengono opinioni contrarie, avvalendosi anche di testi e documenti. Molto frequente in Occitania tra i perfetti e il clero locale.

    Corbello: cesto tondo dal fondo piatto intrecciato con strisce di legno.

    Correggia: cintura, cinghia di cuoio. Anche laccio per calzature.

    Desco: tavolo ma anche semplice vassoio.

    Desco da parto: offerto alle partorienti e usato per servire le vivande a letto. Dal Quattrocento dipinto con immagini di fertilità e nascita.

    Fanticella: serva, da fante: servitore.

    Francesca (lingua): francese: «A la fine non piaccendo a’ Ghibellini perch’era di lingua francesca, furono in sospetto di lui» (G. Villani, Nuova Cronica, X).

    Franceschi: francesi: «E di Franceschi sanguinoso mucchio» (D. Alighieri, Divina Commedia, Inferno).

    Galanga: radice simile allo zenzero usata come spezia e rimedio naturale.

    Galigaio: conciatore di pelle, calzolaio.

    Gamurra: veste da donna, aperta davanti, ampia e lunga da portare sotto a una sopravveste (vestito). Ha maniche che si possono staccare.

    Gonnella: veste aderente da indossare sotto la guarnacca e il mantello.

    Guarnacca: sopravveste aperta ai lati, lunga, con o senza maniche, ornata e, a volte, foderata di pelliccia.

    Guisarma: arma costituita da asta di legno e da una lama a doppio taglio.

    Interula: veste leggera indossata sulla pelle.

    Intrecciatoio (di perle): accessorio per capelli in metallo o seta, con dettagli di perle o pietre preziose.

    Intronato: stupido, chi non sa cosa fa.

    Lionato: fulvo, come la criniera del leone.

    Maio: albero generico, ma anche ramoscello appeso alle porte delle innamorate la notte di Calendimaggio. "Appiccare il maio a ogni uscio": innamorarsi di frequente.

    Manutergio: canovaccio.

    Marraiuolo: da marra, attrezzo per lavorare il terreno. Guastatore dell’esercito: colui che si occupa di preparare, guastare il terreno prima di una battaglia.

    Masserizia: arnesi, cose della casa, anche mobilio, suppellettili.

    Mercatante: mercante.

    Monachino: colore bruno scuro; anche panno di lana usato nell’abbigliamento dei monaci.

    Orciuolo: da orcio, piccolo vaso di terracotta.

    Oveta: cuffia avvolgente, dall’ovale del volto.

    Passatempo: tipo di cappuccio confezionato con panno di lana, ma anche indumento lungo fino al ginocchio da portare sopra altri abiti. In un primo momento, usato solo dai religiosi.

    Pavese: scudo, targone.

    Pavesaro: soldato armato di pavese.

    Perso: colore scuro, cupo; tra il porpora e il nero.

    Pignolato: tessuto di lana e canapa o cotone e lino, di uso comune, simile al fustagno; trama con elementi simili a pinoli.

    Pontonaio: traghettatore di merci e viandanti da una riva all’altra di un fiume. Anche persona addetta alla custodia del ponte e alla riscossione della tassa del pontatico.

    Rosato: panno di lana di qualità fine.

    Salviato: vino aromatizzato con foglie di salvia lasciate a macerare.

    Sbiadato: color turchino tenue, sbiadito.

    Scarlatto: pregiato panno di lana fine, di un rosso acceso. Termine usato per indicate anche la purezza del colore, non solo quello rosso: bianco scarlatto e nero scarlatto.

    Schiniere: protezione, spesso di ferro, a difesa della parte anteriore delle gambe dei cavalieri.

    Spallaroli: protezione, spesso di ferro, per le spalle.

    Stamigna: tessuto di lana sottile, rado ma resistente; usato anche per colare e setacciare.

    Stincale: protezione parte anteriore della gamba, dal ginocchio al collo del piede. In cuoio, poi in ferro.

    Surcotto: dal francese sopra la cotta, sopravveste lunga o corta, anche surcotto d’arme: cotta d’arme indossata al di sopra delle armature.

    Terzolla: ornamento per i capelli intrecciato con trecento perle.

    Treccola: venditrice di frutta, legumi, erbe.

    Zana: cesta intrecciata, anche per culla.

    Zetani: da Zaitun, termine arabo per indicare la città cinese di Tseutung sulla via della seta. Tessuto serico lucido come broccato o raso.

    Zimarra: sopravveste lunga con bottoni.

    Zipparello: indumento maschile simile al farsetto.

    Termini Occitani

    A la perfin: finalmente.

    Albigese: da Albi, l’antica Albiga fondata in Occitania dai Romani. Termine usato per indicare i bons òmes, in quanto un numero considerevole degli abitanti aderiva all’eresia. La città fu annessa alla corona di Parigi durante quella che viene chiamata, appunto, la crociata albigese.

    Almogàver: fanti leggeri, senza corazza, indossavano corte braghe e cuoio, armati di due pesanti giavellotti e di una spada corta. Soldati della Corona d’Aragona, noti durante la riconquista cristiana della Penisola iberica, poi mercenari in Italia e altrove. Originari dei Pirenei, furono reclutati in Navarra, Aragona, Catalogna. Quando, dopo i Vespri siciliani del 30 marzo 1282, Pietro III d’Aragona mosse guerra a Carlo I d’Angiò, gli almogàver furono l’elemento decisivo dell’esercito aragonese. Famosi per la loro disciplina e la loro ferocia.

    Ben: bene.

    Benvenguda: benvenuto.

    Bon òme/Bons òmes: buon uomo/buoni uomini (eretico cataro).

    Bona femna/Bonas femnas: buona donna/buone donne (eretica catara).

    Bònjorn: buongiorno.

    Busiard: bugiardo.

    Calandra: allodola.

    Caparruda coma una muòla a la beguda: testarda come un mulo all’abbeveratoio.

    Castel: borgo fortificato, fortezza.

    Consolamentum/consolament: unico sacramento dei bons òmes. Battesimo spirituale, senza acqua: solo rito, imposizione delle mani e del libro del Vangelo attribuito a Giovanni discepolo prediletto da Gesù Cristo. Recitato per accedere alla carica di perfetti o in punto di morte. Mai nei bambini poiché non consapevoli.

    Consolato/a: chi ha ricevuto il consolamentum.

    Coratge: coraggio.

    Credentes: credenti che accolgono e adorano i perfetti presso le proprie case, ma non ne praticano l’osservanza delle rigide regole di vita.

    De uei a deman: dall’oggi al domani.

    Diaul: diavolo.

    Ensem: insieme.

    Fanfarron: gradasso, spaccone.

    Faydit: ribelle, cavaliere occitano estromesso dalle proprie terre durante la crociata albigese, che continua a lottare per l’indipendenza dell’Occitania.

    Filh: figlio.

    Filha: figlia.

    Filhet: bambino

    Flecha: freccia.

    Fòrça: forza.

    Garsou: ragazzo.

    Gramusa: lucertola.

    Joglar: giullare.

    La carn come una petala de ròsa: la pelle come un petalo di rosa.

    Liber: libro.

    Los uèlhs negres: gli occhi neri.

    Lu Barban¹: antico dio celtico dell’abbondanza e della fertilità, capo delle forze oscure e primordiali che hanno dato forma al mondo. Per l’aspetto caprino associato all’immagine del diavolo. Sopravvissuto in Occitania con il nome di Lu Barban.

    Luehn: lontano.

    Març: marzo.

    Mascaria: magia.

    Menina: nonna.

    Mercé: grazie.

    Monsenhor: messere.

    Na: signora.

    Oc: sì.

    Paciença: pazienza.

    Pacte de la convenenza: sorta di accordo fatto con i perfetti. In caso di ferite mortali, se impossibilitati a parlare e quindi a recitare il consolamentum, si è autorizzati a ricevere ugualmente il sacramento. Patto fatto da molte donne di Montségur, che rifiutano di abiurare e scelgono il rogo.

    Pan mitadenc: tipo di pane.

    Parfait/e-s: perfetto/a-i, guide spirituali nella chiesa dei bons òmes – di solito un anziano e il suo socio –, credenti che hanno scelto di ricevere il consolamentum e aderire all’osservanza del Vangelo, vivendo secondo gli insegnamenti di Gesù Cristo. I perfetti non potevano avere rapporti sessuali: la procreazione reiterava il peccato degli Angeli che erano caduti con Satana e si erano incarnati in corpi materici, rimanendone imprigionati. Per lo stesso motivo non potevano mangiare carne, poiché frutto del rapporto carnale. Si cibavano però di pesci poiché, a quei tempi, c’era la convinzione che non si generassero mediante la fecondazione.

    Pog: vetta.

    Rei: re.

    Se vos plai: per favore.

    Senhér: signore.

    Socio: secondo in grado nella coppia di perfetti.

    Spulga: grotta fortificata.

    Traidor: traditore.

    Vez: volta.

    Viatge: viaggio.

    1 Tratto da Lu Barban, il diavolo e le streghe, di Paolo Battistel, Ed. L’età dell'Aquario.

    Legenda crittogrammi

    Il primo a=1, e=2 o z, i=0, o=4, u=X; il secondo: a=ȝ, e=d, i=h, o=n, u=t. Ma anche… s=ə (da Anonimo Cataro, Ed. San Clemente, Studio Domenicano, Bologna 2010).

    Antefatto

    Il ritrovamento delle chiavi

    I testi corrono il rischio di andare perduti per sempre.

    Chi mai saprà di simili scomparse?

    La farmacia di Platone, Jacques Derrida.

    Bibbona, Fonte di Bacco. Febbraio 2009

    La porta sbatté sul muro e le pagine dei libri sventagliarono sui tavoli.

    La sagoma di Luca apparve attraverso la luce che invadeva la biblioteca.

    Assunta scattò dalla sedia; la tazza di the barcollò sul tavolo e per poco non finì sui volumi del prestito appena riordinati. Serrò le palpebre per il riverbero del sole e, in maniche di camicia, si precipitò dietro l’archeologo. Appena fuori, il fiato le si condensò in nuvolette di vapore.

    Luca si strusciò le mani infreddolite sui pantaloni e le sorrise. «Ti consiglio di fare un bel respiro, stai per vedere qualcosa che è rimasto nascosto alla vista per molto tempo.»

    Assunta levò il viso al cielo e, quasi fosse una preghiera, articolò con le labbra un grazie; appoggiò la mano alla parete e si sporse in avanti, infilandosi con la testa fin dentro l’Arco di Bacco. «Cos’hai trovato?»

    «Chiavi.»

    «Chiavi?»

    Luca scese nello scavo, si inginocchiò e, con un pennello, iniziò a spolverare tra le pietre e i laterizi. «Sembrerebbero tre.»

    «Ci sono simboli, iscrizioni?» chiese lei.

    Luca afferrò un piccolo bisturi e, con perizia, continuò a scalzare il calcare attorno al reperto arrugginito. «Non mi pare.»

    «Guarda bene.»

    «Potrebbe esserci stato qualcosa, vedi, in questo punto» le mostrò lui facendosi da parte. «Ma, anche se così fosse, non è più visibile. La seconda chiave è corrosa: lo strato di ruggine si è sgretolato e ha scoperto la parte sottostante, esponendola all’aria; il metallo è così friabile che potrebbe sfaldarsi del tutto.

    «L’epoca potrebbe corrispondere?»

    «È difficile datare il ferro.»

    Lo sguardo di Assunta si accese. «Certo ma, vedi, se potessi avere un’idea, anche approssimativa…»

    «Per l’Arco di Bacco posso confermarti l’inizio dell’anno Mille. Per le chiavi, servono delle analisi con il radiocarbonio. Ma non ti prometto niente, il ferro contiene spesso carbone di origini diverse.»

    «Mi chiedo perché seppellirle qui, all’interno dell’arco, davanti al lavabo di pietra.»

    Luca si alzò in piedi. «Non sono state sepolte. Tutta la struttura doveva essere una grande vasca, e questo pavimento doveva esserne il fondo. Dove sei tu, doveva esserci un muretto di contenimento dell’acqua. Con il tempo, l’uso della struttura deve essere cambiato: il muretto è stato abbattuto per permettere l’accesso a questo piccolo lavabo» le spiegò con le dita sulla parete di fondo. «Le tracce che vedi ci danno la conferma di almeno quattro diversi strati di pavimentazione.»

    Assunta deglutì e, senza distogliere lo sguardo dalle chiavi, fece un lungo sospiro. «Vorresti dire che qualcuno le avrebbe gettate quando qui era tutto ricoperto d’acqua?»

    «Gettate o perdute; il calcare, depositandosi sul fondo, deve averle inglobate nel pavimento.»

    «Qualcuno che doveva avere molta fretta» ipotizzò lei inarcando le sopracciglia.

    «Congetture» sentenziò Luca. «Come archeologo, posso solo dirti cosa risulta dall’analisi dello scavo.»

    Quella mattina la colonnina del barometro segnava tre gradi, eppure Assunta aveva le mani sudate; strusciò i palmi sulla gonna e scosse la testa. «È molto più di un ritrovamento archeologico, non capisci? È la leggenda che si avvera.»

    «Quale leggenda?»

    Assunta si chinò in avanti e si avvicinò all’archeologo. «Si narra di un prezioso documento andato perduto più di settecento anni fa, nascosto da qualche parte, tra qui e il podere San Giovanni: un manoscritto sacrilego, chiuso a… a chiave in uno scrigno.»

    «Ti riferisci alle leggende sui Templari?»

    Assunta scattò in piedi, gli occhi lustri inchiodati sul fondo della vasca, e piegò l’angolo della bocca. «Bada, ché la magione templare al Podere San Giovanni non è una leggenda. E, comunque, i racconti della gente nascondono sempre un pizzico di verità: a Bibbona, per secoli, ne sono circolate parecchie di storie, non solo di templari. Il manoscritto che dico io potrebbe essere ovunque, magari in una delle tante tombe etrusche disseminate tra qui e il podere San Filippo: da queste parti ci son più grotte che stelle in cielo!»

    Luca storse la bocca e increspò le rughe sulla fronte. «Quindi, se ho capito bene, un cavaliere templare avrebbe nascosto questo documento sacrilego e sarebbe fuggito, chissà per quale motivo, gettando le chiavi dello scrigno che lo custodiva proprio qui, nella Fonte di Bacco?»

    Il sole pallido di febbraio irradiò il fondo dello scavo e ad Assunta parve che le chiavi balenassero di luce.

    «Non un cavaliere templare. Una bambina. Una bambina con un manoscritto proibito.»

    Prologo

    «Come!» disse il Gentile, «non avete tutti una sola legge e fede?»

    «No» risposero i Savi, «siamo anzi diversi in fede e in legge,

    uno di noi è ebreo e l’altro cristiano e l’altro saraceno».

    Il libro del Gentile e dei tre Savi, Raimondo Lullo.

    Anno Domini 1244 adì 15 del mese di aprile

    A marzo, quando in città era arrivato l’inquisitore, il boia aveva appiccato il primo rogo. Dai Prati della Giustizia, il vento portava ancora fetore di carne bruciata. Brizio si strusciò il naso con il palmo della mano e, tra il gracchiare dei corvi appollaiati sulla spalletta del ponte, gli parve di sentire il rantolo dell’ultima eretica arsa viva.

    «Sei certo che nessuno ti sia venuto appresso?»

    La voce del monaco lo fece trasalire.

    «Sì, monsignore.»

    L’uomo scrutò con fare nervoso la strada che, dietro di loro, conduceva alla chiesa di Santo Stefano, oltre il Ponte Vecchio. «Bene. La pergamena?»

    «Consegnata, come da vostre disposizioni» sussurrò Brizio.

    «Hai qualcosa pe’ me?»

    Brizio annuì, si strusciò le mani infreddolite e le infilò sotto alle ascelle.

    Il carretto di un contadino, proveniente da Borgo Santissimi Apostoli, cigolò sul canto di Por Santa Maria e avanzò nella loro direzione; a Brizio parve di sentire di nuovo il crepitio del rogo.

    «Questo posto non è sicuro. Andiamocene!» gli ordinò il monaco sgattaiolando nel chiasso sulla destra.

    Brizio accelerò il passo per riuscire a stargli dietro. Arrivati davanti a Santissimi Apostoli, quello si infilò tra le lapidi del piccolo cimitero accanto alla chiesa, svelto come una lepre.

    «Chi più boschi gira, più lupi trova» brontolò Brizio tra i denti, indeciso sul da farsi. «Passare tra i morti… porta malasorte.»

    «Allora, che aspetti?» lo incitò il monaco, ormai dall’altra parte del campo santo.

    Il latrato di un cane incrinò il silenzio dell’alba e Brizio si fece il segno della croce. Facendo attenzione a non calpestare i sepolcri, affondò con i calzari nel fango e lo raggiunse. Un brivido gli graffiò la schiena e, d’istinto, portò la mano al fodero legato alla correggia: corno di capriolo e lama affilata. Affondò il collo nella guarnacca; l’aria di metà aprile era ancora fredda e pungente, quasi invernale. Affrettò il passo e seguì lo sconosciuto oltre le lapidi. Pensò al fuoco scoppiettante nella sala del castello e sospirò. Di lì a poco, la città avrebbe ripreso vita e lui avrebbe potuto comprare un regalo per la sua Tessa e tornarsene a casa; magari un bel vespaio guarnito di perle come quelli usati dalle madonne fiorentine per acconciarsi i capelli.

    Il cielo era fuligginoso e lui infilò le mani sotto al tabarro. Pareva quasi che, quel giorno, l’alba non volesse arrivare.

    «Sei il solito strullo! Ti vai sempre a impelagare in affari di nulla!»

    La voce di Tessa gli tuonò stridula nella testa e la vide, sulla soglia, i pugni chiusi sui fianchi prosperosi e le labbra rosse piegate in una smorfia di disappunto.

    Quando le avrebbe mostrato regalo e denari guadagnati da quel lavoretto, lei gli avrebbe di certo perdonato la lunga assenza.

    D’un tratto, l’uomo si fermò nei pressi dell’antica Postierla Rossa; poco più avanti, il Mugnone si immetteva nell’Arno che, rigonfio, scorreva verso Pisa. Il Ponte alla Carraia congiungeva le due sponde del fiume con la sua passerella di legno. A momenti, Brizio l’avrebbe attraversato e avrebbe proseguito verso casa, senza voltarsi indietro.

    Il monaco allungò la mano verso di lui e lo incitò: «Avanti!».

    Al suo anulare, Brizio notò un anello. Sapeva riconoscere un lavoro ben fatto; da giovane era stato il garzone nella bottega di un orafo e quello, per certo, era un gioiello di pregiata fattura. Mai, in vita sua, aveva visto un monaco con anelli d’oro; il vescovo Ardingo Foraboschi, sì, ne indossava uno simile la domenica mattina, durante la grande messa in Santa Reparata. Ma un monaco, mai.

    «Allora, disgraziato, che aspetti?» inveì l’uomo continuando a voltarsi indietro.

    Brizio frugò sotto alla guarnacca ed estrasse un rotolo di cuoio. Lui glielo strappò di mano e indugiò con le dita sull’intarsio: uno stemma bandato d’argento e d’azzurro con una tiara dalle infule decorate e dalla croce patente. Un attimo dopo, il contenuto scivolava tra le sue mani.

    Brizio fissò il sigillo che dondolava dalla pergamena e gli parve di riconoscere i volti dei santi Paolo e Pietro impressi sul piombo. «Un messaggio di Sua Santità, dico bene?» eruppe, tronfio per aver consegnato un tale dispaccio.

    Il monaco imprecò e scaraventò il rotolo di cuoio nell’acqua melmosa del Mugnone. «Statti zitto! Mai… pronunciare quel nome!»

    Brizio fece un passo indietro e abbassò lo sguardo sui piedi. «Perdonatemi, messere» borbottò. «Io… ecco, vedete, ho riconosciuto la tiara… adesso, il sigillo, così ho pensato che…»

    «Pensi assai» lo ammonì l’uomo mentre nascondeva la pergamena sotto al tabarro.

    «La curiosità sarà la tua rovina!»

    Eccola, ancora una volta: la voce di Tessa nella sua testa. A Brizio venne voglia di allontanarsi al più presto da quello strano individuo. «Messere, i miei denari.»

    L’uomo estrasse da sotto il mantello un piccolo sacchetto e lo fece tintinnare lanciandolo in aria. Brizio afferrò la ricompensa, tastò il contenuto attraverso la tela scura e, soddisfatto, alzò la tunica per infilare il denaro nella scarsella legata alle brache. «Grazie, messere. Se doveste avere di nuovo bisogno di me, sapete come trovarmi» aggiunse, impegnato ad annodare i lacci della borsa di cuoio.

    L’uomo annuì. Si voltò e il cappuccio gli scivolò all’indietro.

    «Voi…» sussurrò Brizio mentre i nodi gli si scioglievano tra le mani.

    L’uomo sospirò. Un lungo, lunghissimo sospiro. Poi qualcosa di affilato colpì Brizio in pieno petto.

    Prima di udire il tintinnio delle monete che scivolavano fuori dalla sacca, Brizio cadde sulle ginocchia e crollò sulla terra bagnata. Estrasse il coltello dal fodero e levò il braccio, ma riuscì a fendere solo aria e nebbia.

    «E schiatta, figlie ’e na’ cagna!»

    Qualcosa lo afferrò per le caviglie e lo fece scivolare verso il basso: i gomiti urtarono con violenza contro una superficie viscida e dura e il coltello gli sgusciò di mano. D’un tratto, l’aria s’era fatta pregna del fetore di muschio e letame e tutto si muoveva svelto.

    Il respiro si fece rantolo. Brizio riconobbe la propria voce e, mentre sprofondava nell’acqua gelata, un colpo di tosse gli fece esplodere aria e terra nei polmoni. Poteva sentire il fiato dello sconosciuto sopra di sé, il suo ansimare ferroso. Allungò una mano per aggrapparsi al tabarro dell’uomo e, con l’altra, annaspò fino al farsetto: sotto ai polpastrelli, distinse i contorni ruvidi della pergamena appena consegnata e il sigillo di piombo. L’afferrò.

    In quell’istante, lo stivale dell’uomo gli si piantò sulla spalla, nell’incavo del collo, e spinse con forza.

    Quando il volto di Brizio impattò contro una pietra, il dolore alla mascella gli esplose fin dentro alla testa. Annaspò e cercò di afferrare la gamba dello sconosciuto, ma quello gli tirò un altro calcio e lo spinse ancora più giù. Brizio levò le mani in aria: ghermì i profili delle case che si fondevano con quelli degli alberi, delle chiese e dei resti dell’antica cerchia, ma trovò solo i fili d’erba sull’argine del fiume che gli si strapparono tra le dita, insieme alla vita. Mentre l’acqua gli lambiva il mento, le campane vibrarono nell’aria per le Laudi: di lì a poco la città si sarebbe risvegliata. Brizio serrò il piombo del sigillo papale nella mano.

    Il suono metallico si spense funebre nelle sue orecchie mentre il Mugnone lo inghiottiva nella sua melma fangosa.

    PARTE PRIMA

    Il cielo di vetro – I figli del serpente

    … e così salirono su un cielo di vetro e,

    appena vi furono saliti, caddero e furono perduti.

    Interrogatio Iohannis o La Cena Segreta, Redazione di Carcassonne.

    Capitolo I

    Combattere l'Anticristo

    Quest’imperatore ha abbandonato la religione cristiana

    e pende a quella dei Musulmani…

    Papa Innocenzo IV

    Biblioteca Arabo Sicula, vol. II, Michele Amari

    Anno Domini 1244 adì 15 del mese di aprile

    «Terra!» La voce di un giovane mozzo si levò dall’albero maestro.

    Arpaïs cercò con lo sguardo un punto fermo. Doveva solo resistere ancora qualche istante e quella tortura sarebbe finita. Il vento spirava da terra e le entrava nelle orecchie e nel naso. Tirò su il passatempo di panno di lana. Deglutì e, sopraffatta dalle vertigini, scivolò con la schiena lungo la paratia. Si distese, con i palmi aperti sul ponte di coperta: era bagnato e quando lei slittò, sbatté i gomiti. Tutto attorno, il mondo oscillava e si inclinava capovolgendo i suoi punti di riferimento. Socchiuse le palpebre; l’odore amarognolo della pece le irritò la gola, si voltò di lato e vomitò.

    Di nuovo.

    Gli occhi le facevano male; li strofinò per togliere il sale e la sabbia portati dall’aria salmastra. Il giovane mozzo, incurante del rollio, si era arrampicato sull’albero e stava ammainando la vela latina: era così tesa che pareva doversi strappare da un momento all’altro. I colpi dei remi che entravano in acqua e le grida dei marinai portate dal vento le confermarono che non doveva mancare ancora molto, ma il dondolio le impediva di capire da che parte fosse la costa.

    «Terra!»

    Terra, ripeté lei quasi fosse una preghiera.

    D’un tratto, la prua si impennò sotto la spinta di un’onda più forte e la sua schiena si staccò dalle assi di legno; slittò indietro e andò a sbattere con la testa contro la battagliola. Le tempie le pulsavano come se tutto il peso del corpo gravasse sulla fronte. Fece leva sulle mani per mettersi seduta e cercò il cielo: la sagoma di un gabbiano roteava sopra di lei con le ali quasi immobili. L’uccello planò in picchiata, si tuffò e riemerse con un pesce intrappolato nel becco. L’intensità del moto ondoso iniziò a diminuire: l’acqua non era più cupa come la notte, ma trasparente e limpida. Il vento si era acquietato; i raggi del sole si riflettevano sulle onde e sprofondavano sott’acqua accendendo i fondali. A poco a poco, il calore piacevole sulla nuca e sulle spalle la riportò alla vita.

    Terra, sospirò. A la perfin.

    Il mare doveva essere meno profondo, adesso. In lontananza, scorse alcune vele e una lunga linea bianca davanti a colline verdi. L’imbarcazione scivolava sull’acqua, rallentava e schivava gli scogli verdi di alghe che, come guardiani, si innalzavano a difesa della terraferma. C’era odore di erba e terriccio e lei provò una voglia irrefrenabile di scendere. Adesso riusciva a mettere a fuoco le sagome scure che divenivano case, alberi, uomini, a mano a mano che la barca si avvicinava alla costa.

    «Dai fondo!» urlò un marinaio al giovane mozzo che, nel frattempo, era scivolato giù, di fianco a lei.

    Il ragazzo si sporse in avanti e calò l’ancora in mare. A occhio doveva avere all’incirca la sua età, ma aveva già la pelle scura e rugosa di chi passa la vita in mare.

    Il marinaio che tutti chiamavano il Ciciliano le piombò davanti a torso nudo e la soppesò dall’alto in basso con i suoi occhi inquieti: occhi come fuochi in una notte senza luna. Le era così vicino che poteva sentire il tanfo di vino, sudore e salsedine che sprigionava dalla sua pelle.

    «Alessandria d’Egitto, ragazza» ringhiò mentre allungava le braccia e afferrava una cima. I serpenti tatuati attorno ai suoi gomiti parvero prendere vita e avvolgerlo nelle loro spire fino a serrargli la gola; le squame vibravano di iridescenze colorate sotto ai raggi del sole: uno strisciare sinuoso che le riaccese la nausea. Eppure, non riusciva a staccare gli occhi dalle bocche spalancate, pronte ad addentare la preda, dalle lingue biforcute che saettavano davanti a lei. Un sibilo le risuonò nella testa.

    «Che hai da guardare? Muoviti!» la rimbrottò lui un attimo prima di darle le spalle.

    Fu allora che uno dei tatuaggi sulla sua schiena catturò l’attenzione di Arpaïs: un’aquila rossa coronata di nero, incisa in testa a due stelle a otto punte. Arpaïs si tirò su e un rigurgito acido le bruciò la gola.

    Barcollò lungo la paratia e levò lo sguardo in cerca della terra ferma. Una scialuppa stava attraccando alla barca. Il rombo dell’acqua che sciabordava su e giù tra i due scafi le ribollì nello stomaco.

    Gli uomini della piccola imbarcazione iniziarono a salire a bordo e lei dovette tenersi stretta alla murata per riuscire a farsi da parte. Contò sei copricapi di cuoio fasciati da turbanti bianchi. Ci fu uno scalpiccio di passi e un tintinnare metallico. Un attimo dopo, sei lunghe tuniche si muovevano sul ponte della nave.

    Arpaïs non aveva mai visto niente di simile prima di allora; non erano le calzebrache di preziosa seta o il modo in cui quegli uomini dalla pelle scura le portavano infilate negli stivali a lasciarla a bocca aperta, ma le loro spade: lame ricurve che si allargavano in prossimità della punta.

    Tra di loro, uno spiccava per l’altezza. Aveva una lunga barba nera e gli occhi di un azzurro intenso. Era vestito come gli altri, ma l’impugnatura della sua arma era diversa: preziosi intarsi dorati scivolavano verso la lama come tralci d’edera e vi si fondevano. La spada più bella che lei avesse mai visto.

    Il Ciciliano pronunciò suoni gutturali e incomprensibili: «As-salam ‘alayak, amico mio».

    «Wa as-salam ‘alayak wa rahmatu Allah wa barakatuhu; e su di te la pace, la misericordia di Dio e le sue benedizioni» rispose lo straniero. «Notizie dalla Cicilia?»

    «Niente di nuovo, anche se…»

    «Anche se?»

    Il Ciciliano continuò ad armeggiare con la cima. «Girano voci.»

    Lo straniero si accarezzò la barba. «Magari sono le stesse che circolano ad Alessandria. Si parla dell’Emiro di Roma; i pensieri delle sue spie giungono a noi come uccelli migratori.»

    Il Ciciliano annuì. «Tre uomini per tre regni.»

    «Tre uomini per tre regni» ripeté lo straniero.

    Il Ciciliano scrutò l’orizzonte. «A capo di molti altri… insospettabili» dichiarò con la voce colma di apprensione.

    «Che Allah ci protegga! La guerra è dunque alle porte, amico mio. Scorrerà altro sangue, prima che la sete dell’Emiro sia placata.»

    «Tutto il sangue del mondo, amico mio, non si fermerà fino a quando non l’avrà cancellato dalla faccia della terra.»

    «Tre uomini per tre regni…» recitò lo straniero, quasi quelle parole fossero un’invocazione.

    «Per ricacciare l’Anticristo tra le fiamme dell’inferno» concluse il Ciciliano.

    All’improvviso, la barca sbandò di fianco: il Ciciliano scivolò e per poco non cadde in acqua, afferrò la cima e saltò di nuovo sul ponte. Arpaïs, serrata con le mani alla falchetta, incrociò gli occhi sbarrati dell’uomo e seguì il suo sguardo incredulo: una massa d’acqua scura, alta più dell’albero maestro, li stava per travolgere. Non c’era tempo. Non c’era modo di scappare.

    L’onda si ruppe su di loro, spumando fragorosa e li avvolse nel suo ventre cavo. Tutto divenne cupo e freddo, né un sopra né un sotto, solo acqua profonda e scura. Arpaïs trattenne il respiro finché le fu possibile e le sembrò che il petto stesse per scoppiare. Nel riflesso dell’acqua, come in uno specchio, vide i propri occhi neri sbarrati sul nulla e la bocca che, avida d’aria, si spalancava per urlare.

    Un urlo straziante si levò tra le onde che ribollivano di schiuma e sferzavano il fianco incrinato della nave.

    «Arpaïs!»

    Qualcuno la stava chiamando. Provò a muoversi ma il mare la schiacciava verso il nulla, pesante e implacabile.

    «Arpaïs, svegliati!»

    Di nuovo quella voce nella testa, rauca e familiare.

    «Respira!»

    Tossì e tossì ancora, mentre qualcuno l’afferrava per le spalle e la tirava su dal fondo del mare.

    «Da brava, torna da me» disse la voce.

    Quando aprì gli occhi, il volto scarno del perfetto Laurent le apparve ovattato, come sciolto nell’acqua. Fece forza sui gomiti e si tirò su: aveva l’odore della salsedine nelle narici e un retrogusto acre di salmastro e pece nella bocca. Starnutì e scattò con la mano in cerca del fodero di cuoio legato alla cinta. Quando con i polpastrelli sfiorò l’impugnatura di corno del coltello di sa maire, tirò un sospiro di sollievo. Per un attimo aveva temuto, anzi, per un attimo era stata certa di averlo sentito scivolare via, tra le onde schiumose del mare.

    «Dov’eri finita questa volta?»

    Lei si voltò: adesso riusciva a distinguere il profilo di Laurent sedutole di fianco, gli occhi chiari che la scrutavano con la solita espressione indagatrice. Arpaïs scosse la testa. Quanto avrebbe voluto saperlo pure lei.

    Diede un occhio alla stanza. Ora ricordava: era a Sirmione, presso la scuola di bons òmes gestita dal maestro Giovanni Di Lugio; erano arrivati il giorno prima, dopo settimane di viaggio, e Laurent era sempre lì, più magro di sempre, perso dentro al saione monachino e alle calzebrache logore, con quella fronte che sembrava ogni giorno più sporgente. Se non fosse stato per la luce scaltra che emanava dagli occhi e per la fossetta sul mento, ormai, neppure lei sarebbe stata in grado di riconoscerlo.

    «Tre uomini per tre regni. Qualcuno è in pericolo.»

    Laurent si allargò il passatempo di panno di lana attorno al collo. «Chi è in pericolo, Arpaïs?»

    Tutto continuava a girare. «Non lo so.»

    Laurent le prese le mani tra le sue e le sorrise. «Pensaci. Un particolare, un luogo, un volto, una scritta…»

    «Non lo so, ti ho detto!»

    «Prima o poi ne dovremmo parlare, non pensi?»

    Arpaïs ritrasse le mani e incrociò le braccia. «Di cosa?»

    «Lo sai. Non puoi continuare a far finta che non sia successo.»

    «No, non lo so. Ricominci con questa storia, solo perché ho fatto un incubo?»

    «Un incubo?» sbottò lui. «Sono settimane che non dormi e quando crolli, chissà in quale inferno sparisci. Di giorno non mangi più niente, ti sei ridotta pelle e ossa e scatti a ogni minimo rumore. Sono stufo di vederti in questo stato!»

    «Non ho bisogno di una balia che vegli su di me: puoi dormire sonni tranquilli, perfetto Peytavi.»

    «Fare di tutto per essere insopportabile non funziona, cara mia. Ho assicurato a ton paire che mi sarei preso cura di te e, fino ad oggi, ho sempre mantenuto gli impegni presi. Non sono la tua balia e non mi arrenderò certo per colpa di una cinica che ce l’ha con il mondo intero.»

    Arpaïs serrò le labbra e soffiò forte dalle narici.

    Fare finta che non sia successo!

    Come poteva anche solo pensare che lei fosse in grado di dimenticare quello che era capitato alla loro gente, alla loro terra? Si potevano mai perdonare gli orrori ai quali avevano assistito? Una crociata indetta dal papa per annientare un popolo: sterminio e conquista camuffati da guerra santa, per nutrire l’ingordigia della Chiesa di Roma e del re di Parigi.

    Lei, fare finta che non fosse successo? Laurent Peytavi aveva la capacità di farla sentire sempre colpevole di qualcosa. E se c’era una cosa che lei odiava era sentirsi in colpa: era come se, dopo, tutto fosse irreparabile.

    «Se non vuoi parlarne con me, parlane almeno con il Maestro» le disse Laurent strofinandosi la fossetta sul mento.

    Arpaïs scattò dal pagliericcio e fissò il farsetto di pelle sullo sgabello; insieme al pendente, a qualche freccia e a un arco erano tutto ciò che le restava di Jourdain. «Custodiscilo per lui» le aveva detto Corba dopo che i franceschi si erano portati via il figlio. E lei aveva annuito e aveva provato vergogna per essere rimasta in silenzio, incapace di guardare negli occhi quella madre che tutti portavano a esempio per il suo coraggio e che, per la prima volta, aveva visto piangere. Si strusciò gli occhi, indossò il farsetto e raggiunse la porta. «Esco a prendere una boccata d’aria; forse dovresti fare lo stesso.»

    «Montségur non c’è più. Sono morti e tu sei viva, fattene una ragione!»

    La voce rauca del perfetto le risuonò alle spalle mentre lasciava il dormitorio.

    Na Laureta, Corba, Esclarmonde e tutti gli altri, morti, sì: arsi nel rogo appiccato dai franceschi alle pendici di Montségur. Sa maire, trafitta da una freccia e spirata tra le sue braccia. Guilhem, quasi un fratello per lei, trapassato davanti ai suoi occhi dalla spada di Hughes de Arcis, il siniscalco del re, faccia da topo. Come poteva togliersi dalla testa lo sguardo del piccolo Esquieu che, prima di fuggire con son paire, aveva visto i soldati portare via la madre per essere interrogata? Chissà se Félipa era ancora viva nei sotterranei di una prigione, a pochi passi dalla cella di Jourdain. Come poteva, Laurent, solo pensare che lei potesse dimenticare?

    «Ti capita mai di fare sogni strani, nenet? Sogni che non ti sai spiegare?»

    La voce di na Laureta le vibrò nelle orecchie come se l’anziana le fosse vicina. Annuì levando gli occhi al cielo e poi si sentì una stupida.

    Tre uomini per tre regni, aveva detto il Ciciliano. Per ricacciare l’Anticristo tra le fiamme dell’inferno, aveva risposto lo straniero. Un brivido le attraversò la schiena.

    Qualcuno è in pericolo, si ripeté mentre la brezza fresca le sferzava la faccia. Ma chi e dove? Come sempre, qualcosa le sfuggiva, un pensiero, una frase, un’immagine rimasta imbrigliata nel sogno.

    Il sole stava tramontando e la luna, al primo quarto, già traspariva feconda nel cielo striato di porpora. Arpaïs riempì i polmoni d’aria. Né mare, né gabbiani né, tanto meno, imbarcazioni in balia delle onde: solo lo specchio appena increspato del lago di Benaco e le grida delle rondini che echeggiavano tutto intorno. Sollevò il mento e si perse nel loro volo: un arabesco invisibile tracciato da code appuntite.

    Se almeno il lupo si fosse fatto vedere. Da quando erano partiti da Montségur, avevano vagato per quasi un mese prima di arrivare a Sirmione e, in tutto quel tempo, né l’aveva visto né aveva udito il suo ululato. Neppure quando avevano varcato i passi alpini e poi, attraverso Entracque e Rovasca erano giunti a Rocavion. Menina le aveva parlato in molte occasioni di quella località: si narrava che, circa mezzo secolo prima, proprio da lì fosse partito il perfetto italiano Marcus, per raggiungere il concilio dei bons òmes di Saint Felix de Lauragais, dove molti perfetti come lui erano stati investiti della dignità di vescovo.

    Neppure tra quelle alture che tanto le avevano ricordato casa, il lupo si era fatto vivo. A la perfin, si era convinta di averlo solo immaginato, quella prima volta, alle pendici di Montségur quando rientrava con son paire e il piccolo Esquieu dalla sagra di Bélesta. In fondo, era l’unica ad averlo visto, quella e le volte successive. Forse, come tutti gli altri, anche lui aveva deciso di abbandonarla.

    Ammassi di nuvole iniziavano a formarsi a nord, concentrandosi sopra le montagne. Un lampo balenò improvviso e illuminò le nubi dall’interno.

    Tre uomini per tre regni.

    Quel senso di malessere e di irrisolto tornò a farsi spazio in lei come il lume di una fiammella nell’oscurità e, quando l’eco del tuono rimbombò diffuso e prolungato, Arpaïs percepì l’aria vibrare dentro di sé, quasi come una minaccia.

    Le prime gocce le scivolarono sulla fronte, fresche e pungenti.

    Meglio rientrare, si disse massaggiandosi la gamba. La ferita aveva ricominciato a farle male, come ogni volta, pima di un acquazzone.

    La pioggia prese vigore e l’odore di muschio e terra le riempì le narici.

    Per ricacciare l’Anticristo tra le fiamme dell’inferno.

    Ripensò all’immagine dell’aquila coronata di nero e affondò con il collo nel farsetto di cuoio: l’odore di Jourdain era ormai sparito da tempo, dissolto tra le lacrime, il fango e la polvere delle strade che l’avevano condotta fin lì. Il vento sibilò forte tra gli alberi, increspando l’acqua del lago e il boato di un secondo tuono scosse la terra.

    La tempesta era in arrivo.

    Capitolo II

    Il maestro

    Iohannes de Lugio Bergamensis.

    Summa de catharis et pauperibus de Lugduno, Raniero Sacconi.

    Anno Domini 1244 adì 28 del mese di aprile

    Sirmione, Lago di Benàco

    Casa e scuola catara presso le mura del borgo

    Proprietà delle monache di Santa Giulia

    «Non ci riesco» brontolò Arpaïs. «È inutile» si arrese voltandosi verso la finestra che dava sul cortile.

    Il sole, dopo il temporale notturno, era già alto, e stare seduta al freddo dello scriptorium era una tortura.

    Di Lugio sollevò le folte sopracciglia canute e sospirò. «Ancora una volta» la esortò con gli occhi socchiusi.

    Fuoco e pergamena non vanno d’accordo, aveva borbottato lui con quella faccia sbiadita quando lei si era lamentata per l’aria gelida della sala.

    Era così pallido; quasi che, con il passare degli anni, il sangue fosse scivolato tutto verso i piedi lasciando solo qualche goccia condensata attorno alle palpebre paonazze e alle grosse narici. Arpaïs non aveva idea di quanti anni avesse, ma era certa che quell’aspetto rattrappito fosse il risultato delle lunghe ore passate alla luce scialba di quella stanza. Sospirò al pensiero dell’arco fuori dalla porta. Niente armi, qui dentro, aveva protestato il maestro il primo giorno che lei aveva messo piede nello scriptorium.

    Durante il viaggio che li aveva condotti fino a Sirmione, erano stati derubati ben due volte e lei temeva che anche adesso qualcuno potesse portarsi via una delle poche cose alle quali era più affezionata.

    Pensa tu al mio arco, le aveva detto Jourdain il giorno in cui i soldati franceschi l’avevano preso e portato via. Il suo, di arco, quello che le aveva costruito Guilhem, era andato distrutto durante l’assedio. Di lui, amico e maestro, le rimaneva solo il ricordo di poche frecce costruite insieme, al tempo in cui tirare nei boschi alle pendici della montagna era ancora possibile.

    Arpaïs fissò le schiene ricurve sopra le pergamene e scosse la testa. «Come fanno a stare seduti tutto il tempo? Sembrano statue.»

    Il maestro sospirò. «Di nuovo.»

    Dal lato opposto della stanza, uno dei precettori insegnava a un apprendista come trattare le pelli. Arpaïs si perse con lo sguardo nei movimenti del ragazzo mentre lui posava la pietra pomice e iniziava a stendere il gesso per ammorbidire la pelle. Quanto avrebbe voluto fare a cambio.

    «Di nuovo!» tuonò il maestro mostrando la bocca sdentata.

    La voce risuonò in un crescendo cupo e incrinò il silenzio dell’aula. Dai piani inclinati, le schiene ricurve si drizzarono all’unisono e una dozzina di teste ruotò verso di lei: nuvolette di vapore sbuffarono nell’aria. L’apprendista, che nel frattempo aveva iniziato a levigare la pergamena con la plana, posò l’attrezzo e la fissò con aria contrariata: arricciò il naso imbrattato di gesso e affondò il collo nella guarnacca.

    D’un tratto, nella stanza faceva caldo; Arpaïs tornò con lo sguardo sulla pergamena e sciolse un paio di lacci del farsetto, all’altezza della gola.

    «Quoniam multi impediuntur recte cognoscere veritatem, pro illorum illuminatione et intelligentium exortatione… nostram veram fidem per testimonia divinarum scripturarum cum verissimis argumentis proposui declarare» lesse tutto d’un fiato tamburellando con i piedi sotto al tavolo.

    Il falcetto di verghe percosse il leggio con tre colpi secchi e lei fece scivolare le mani sotto il piano di legno; non aveva nessuna voglia di provare la forza di quello strano attrezzo sulle dita.

    «Adesso… traducilo, avanti» la esortò il maestro. «Se vogliamo che anche i più umili lo possano comprendere, dovrai essere in grado di parlare il volgare.»

    Se l’era sognato o il vecchio aveva appena piegato l’angolo della bocca? Che le stesse sorridendo? Prima finisco, prima potrò uscire da qui, si disse lei tornando a studiare la pergamena.

    «Poiché molte persone sono incapaci di conoscere esattamente la verità…» indugiò, «per illuminare quelli ed esortare coloro che comprendono, ho deciso di esporre in modo chiaro la nostra vera fede attraverso la testimonianza delle divine scritture, con l’ausilio di argomenti…»

    Il falcetto di verghe colpì ancora la superficie del tavolo.

    «… Solidissimi» la anticipò il maestro sgranando le pupille.

    Sommerse dal giallo paglierino degli occhi, le iridi chiare del vecchio si accesero: piccole pagliuzze azzurre baluginarono, dandogli un’espressione scaltra e quasi giocosa.

    «Molto bene» le disse.

    A la perfin, si sorprese nel sentire che si complimentava con lei.

    «Liber de duobus principiis» lesse Arpaïs scorrendo la calligrafia vermiglia del maestro. «Il libro dei due princìpi. L’introduzione al vostro liber, dico bene?»

    «Il principio del bene e quello del male: titolo appropriato, non credi?» le disse lui ammiccando con gli occhi alla pergamena.

    Arpaïs annuì e continuò a tradurre le prime righe. «E così sembra chiaro che tutto ciò che si trova di buono nelle creature di Dio è assolutamente da Lui e per Lui, ed è Lui che le fa esistere e che è per causa sua. Ma il male, se si trova nel popolo di Dio, non proviene dal Dio vero, né attraverso di Lui, e non è Dio che lo fa esistere, né tanto meno ne è la causa. Ugualmente, da una creatura di Dio, che è buona di per sé stessa, senza una causa del male, non potrà mai procedere il male

    Il buon Dio e il Dio malvagio, si disse lei.

    Il maestro si lisciò la barba rada e spelacchiata. «Adesso, posso vedere il tuo?»

    «Intendete il mio… liber?»

    Di Lugio annuì.

    Arpaïs deglutì e strusciò le mani imbrattate d’inchiostro sulle calzebrache di lana marrone. Le dita, a forza di scrivere, le facevano male. Il maestro diceva che era colpa sua, perché faceva troppa pressione sulla penna d’oca.

    «Manca ancora l’ultima pagina.»

    «Posso?» insistette lui.

    Arpaïs traccheggiò con i lacci del farsetto, infilò la mano nella fodera interna ed estrasse le cartapecore; le fissò un’ultima volta e le porse al maestro. «Ecco. Devo ancora rilegarlo.»

    Dopo tutte quelle ore inchiodata sulla sedia, non riusciva più a stare ferma, ma trattenne il respiro e rimase immobile, mentre lui passava in rassegna le pagine.

    «Occitano e latino» borbottò il vecchio. «Ottimo lavoro!»

    Ottimo lavoro. La schiena di Arpaïs si sciolse come ghiaccio al sole. Aveva temuto di dover rifare tutto daccapo e, invece, il maestro pareva soddisfatto.

    «Quando procederai con la rilegatura, evita il rivestimento» le consigliò lui. «Sarà meno ingombrante da nascondere e da trasportare. Potrai sempre farlo in un secondo momento. Per adesso, piegali quattro volte in modo da ridurne il volume.»

    Arpaïs annuì.

    «La tua na Laureta sarebbe orgogliosa di te» le disse il maestro. E la voce dell’anziana le risuonò nella mente.

    «La tua memoria è un dono.»

    Un groppo le serrò la gola. Deglutì e distolse lo sguardo da quello del vecchio.

    «Non sempre un maestro riesce a veder maturare il seme in frutto, ma scorrendo questo lavoro posso dire che il granello instillato in te sia germogliato e abbia attecchito con radici forti. Quella perfetta, menina… nonnina, come la chiami tu, doveva avere fiducia nelle tue capacità, altrimenti non avrebbe rinunciato a un testo tanto prezioso.»

    Il maestro increspò le sopracciglia e rimase a fissarla, le narici paonazze si gonfiavano e sgonfiavano a ogni respiro.

    «Cos’altro avrebbe potuto fare? Poco prima della resa, i manoscritti sacri presenti a Montségur sono stati gettati tutti alle fiamme.»

    «Tutti quei testi antichi» sospirò lui, «persi per sempre.»

    «Il liber di menina era il libro più bello che avessi mai visto. Era molto prezioso: una copia in occitano di un testo molto antico.»

    Il maestro si alzò, arrancò fino al tavolo vicino e tornò indietro con un volume tra le mani.

    «L’interrogatio Iohannis» disse con fare ossequioso, «portato dalla Bulgaria, tradotto in latino e donato a Nazario, vescovo della nostra chiesa di Concorezzo.»

    Arpaïs sfiorò la superficie usurata dell’antico testo e riconobbe le iscrizioni in latino.

    «Il testo originale» bisbigliò incredula. «Oh, maestro, se menina avesse potuto vederlo; ha custodito il suo per tutta la vita, sperando fino all’ultimo di non doverlo sacrificare.»

    «Deve essere stato difficile per lei. Io potrei morire all’idea di dover gettare tra le fiamme questi manoscritti.»

    «Tutti, al castrum, erano convinti che le milizie del conte di Tolosa sarebbero giunte in tempo per sbaragliare i franceschi. Ma non è mai stato nelle intenzioni del conte intervenire. Ha sacrificato le vite di gente innocente solo per imbonirsi il papa e il re di Francia, solo per mantenere i diritti sulle proprie terre.»

    «Il mondo, mia cara figliuola, è in mano ai potenti. Non siete i primi ad aver distrutto documenti così importanti e non sarete gli ultimi: meglio evitare che un testo sacro come questo finisca nelle mani degli inquisitori e venga utilizzato come prova infamante contro tutta la comunità.»

    «Lo fanno da sempre.»

    «Sì, ed è quello che avrebbero fatto anche a Montségur; la tua menina lo sapeva bene.»

    L’immagine delle dita affusolate e rugose di menina che lisciavano le pagine del liber le tornò alla mente, il volto di cera degli ultimi giorni e gli occhi vuoti e tristi. E le parve di percepire le braccia scarne dell’anziana che la stringevano in un abbraccio, il buon profumo di nonna misto all’odore vuoto della fame. Una sensazione in bilico tra lo sconforto e il dolore le serrò il petto.

    Il maestro socchiuse le palpebre violacee e iniziò a recitare: «Nel Vangelo di Giovanni, Cristo dice: niente può venire a me se il Padre che mi ha mandato non l’attira. Dio sa come metterci sulla strada da percorrere. Ci fa dono delle prove di cui abbiamo bisogno e ci sazia della sapienza, della giustizia e della verità.»

    Arpaïs si stropicciò gli occhi.

    «Quelli che avrebbero potuto ritrascrivere il liber avevano deciso di non abiurare; sapevano che sarebbero finiti sul rogo, ecco perché menina ha scelto me, non aveva alternative. Dio non c’entra proprio niente.»

    Il falcetto di verghe esplose sul tavolo. Arpaïs balzò sulla sedia e ritrasse le mani. Un brusio di sussurri e chiacchiericci si levò nello scriptorium; di nuovo, gli sguardi tutti su di lei.

    «Credi di conoscere il pensiero di Dio, tu?» la fulminò il maestro con gli occhi febbricitanti. «Chi pensa di sapere, non sa; chi sa di non sapere, è il vero sapiente. Da quello che mi ha raccontato il perfetto Laurent Peytavi, non è stata una scelta dell’ultimo momento, come affermi tu.»

    Arpaïs avrebbe voluto correre via, ma rimase seduta; sospirò e con la punta delle dita spinse le pagine verso il vecchio. «Ho promesso a ma maire

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