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Brava Bambina
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E-book650 pagine7 ore

Brava Bambina

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Info su questo ebook

Sara suona come un angelo e ne ha l’aspetto. Ha incontrato un nuovo amore, Gabriele, che la fa sentire bene, la sua carriera adesso ha un futuro e può contare sull’affetto della sorella e dell’amata nipotina.
Una vita apparentemente perfetta, ma dentro Sara è fatta di fragile cristallo che rischia di rompersi a ogni respiro a causa di un passato mai affrontato. I segreti che si porta dentro la stanno distruggendo, facendola tornare di nuovo dietro quella porta, nel buio.
Questa è una storia di amore e coraggio, la storia di una donna che deve riscrivere la melodia della sua vita per poter ricominciare a vivere. Solo se troverà la forza di smettere di essere la "brava bambina" che gli altri si aspettano, riuscirà a riscoprire se stessa e a impedire che tutto si ripeta.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2020
ISBN9788855310550
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    Anteprima del libro

    Brava Bambina - Alessia Vecchi

    Brava Bambina

    Brava Bambina

    Alessia Vecchi

    Hope Edizioni

    Titolo: Brava Bambina

    Autrice: Alessia Vecchi

    Copyright © 2020 Hope Edizioni

    Copyright © 2020 Alessia Vecchi


    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it


    Progetto grafico di copertina a cura di FranLu

    Immagini su licenza Bigstockphotos.com e Depositphotos.com

    Fotografi: belchonock, varandah e Tomka

    ISBN: 9788855310550


    Editing: Lucia Coluccia

    Impaginazione ebook: Hope Team


    Questo libro è concesso in uso esclusivamente per il vostro intrattenimento personale. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in qualunque forma o con qualsiasi mezzo elettronico o meccanico, compresi i sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni, senza il permesso scritto dell’autore, tranne nel caso di brevi citazioni contenute in una recensione. Se state leggendo questo libro e non lo avete comprato, per favore, scoprite dove potete acquistarne una copia. Vi preghiamo di rispettare il lavoro dell’autore. Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, avvenimenti o luoghi è puramente casuale.

    Tutti i diritti riservati.


    Prima edizione digitale marzo 2020

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Hope Edizioni

    Uno

    OGGI

    Gabriele

    Ho sempre pensato che lo studio di mio padre fosse troppo grande per la sua scrivania e le tre poltroncine nere.

    Non c’è nessuna pianta a rendere meno freddo quel posto da un po’ di tempo, almeno da quando non è più mamma a prendersene cura.

    Mio padre ha lasciato morire quelle che possedeva e non le ha più sostituite.

    Ora sono vicino alla finestra, o meglio, mi sto aggrappando alla finestra. Con le mani stringo la cornice di legno, non riesco a trovare sollievo nemmeno quando poso la fronte contro il vetro freddo.

    La verità è che ora lo studio di mio padre mi sembra troppo piccolo. Mi sento come un animale braccato, incapace di trovare un modo per scappare e consapevole di essere finito in trappola di sua spontanea volontà.

    Robert Frost diceva che la miglior via di fuga era sempre attraverso.

    Non mi sembra.

    «Voglio che mi racconti tutto, Gabriele. Tutto. Dall’inizio.»

    Mi volto verso mio padre, allibito.

    Cosa ho fatto nelle ultime tre ore?

    Lui non batte ciglio, ma deve essersi accorto che il mio sgomento si sta trasformando in rabbia molto velocemente.

    «Non sono venuto qui per farmi psicanalizzare,» commento in modo tagliente, passandomi una mano tra i capelli per la frustrazione «non è per me che sono qui.»

    Mio padre non cambia espressione, se si può definire così la maschera imperscrutabile che ha in questo momento.

    «Lo so» risponde.

    Lo osservo. È seduto, tranquillo. Non sembra per nulla sconvolto da quello che gli ho appena finito di raccontare.

    Invece io sono... sono... Cosa sono in questo momento? Dentro di me c’è un groviglio di emozioni contrastanti che non mi lascia respirare.

    «Non so nemmeno perché sono venuto qui» mormoro, tornando a guardare fuori dalla finestra.

    Non so nemmeno perché sono corso qui, mi correggo. Non sapendo cosa fare, sono andato dall’unica persona al mondo che sembrava avere sempre una soluzione a tutto. Ma evidentemente mi sono sbagliato.

    «Sei qui perché vuoi che io aiuti lei,» commenta mio padre «ma per farlo, devo prima aiutare te.»

    A quelle parole mi volto di nuovo.

    Mio padre mi sta fissando dritto negli occhi. Il suo sguardo non vacilla, mai.

    «Ti ho detto tutto.»

    Lui annuisce, condiscendente.

    «Sì, mi hai raccontato tutto, in modo oggettivo e minuzioso di dettagli, Gabriele. Ma io voglio sapere quello che hai provato tu. Tutto quello che hai provato.»

    Mi si forma un nodo alla gola.

    «Tu sei venuto qui chiedendomi di aiutarla,» riprende «lo farò, Gabriele. Sei mio figlio e ti aiuterò sempre. Ma per aiutare lei, devo prima aiutare te. Tu dovrai essere la sua roccia, e in questo momento sei una sorta di sassolino sballottato dalle onde.»

    Faccio involontariamente un mezzo sorriso.

    Sono stato io a cercarlo, in fondo.

    Mi allontano dalla finestra, raggiungo la sedia di fronte alla scrivania e mi ci lascio cadere sopra.

    «Cosa vuoi sapere?» chiedo.

    Lui scuote la testa.

    «Tutto quanto.»

    Faccio un respiro profondo, mi piego in avanti e appoggio gli avambracci sulle gambe. Osservo con molta attenzione il parquet, cercando di trovare il punto da dove iniziare.

    «Raccontami della prima volta che vi siete conosciuti» cerca di venirmi in soccorso mio padre.

    Scuoto la testa e sorrido al ricordo, ma se vuole sapere ogni cosa non posso partire da lì.

    «La prima volta che l’ho vista» lo correggo, alzando la testa per incontrare i suoi occhi.

    Lui corruga le sopracciglia.

    «Questa città è così piccola che è impossibile non conoscersi tutti almeno di vista» commento.

    Sospiro, poi mi gratto il collo con una mano, a disagio.

    «Bene,» mi esorta «raccontami della prima volta che l’hai vista.»

    «È stato di sfuggita...» inizio.

    Non poi così di sfuggita. L’ho guardata abbastanza a lungo da accorgermi dei suoi bellissimi occhi scuri leggermente a mandorla, del suo caldo sorriso, del modo in cui si portava indietro i ricci capricciosi che le ricadevano sul viso.

    L’ho guardata abbastanza a lungo da notare l’incredibile somiglianza con la bimba che era con lei.

    «È stato il giorno del tuo compleanno, papà. Sono entrato in gelateria per prendere la torta e lei era seduta a uno dei tavolini, insieme a una bambina.»

    Mi fermo un attimo. Forse avrei dovuto capirlo prima? Forse avrei dovuto notare qualcosa oltre al suo viso, un qualche segno? Sono stato superficiale?

    «Un passo alla volta, Gabriele» mio padre interrompe il corso dei miei pensieri.

    Annuisco.

    Un passo alla volta.

    Due

    PRIMA

    Gabriele

    Cercare di aprire la porta con lo scatolone in mano non si rivelò un’idea intelligente.

    Mentre giravo la chiave nella toppa, i libri per poco non mi finirono sui piedi. Con una mossa da acrobata, ero riuscito a evitarlo, stirandomi di sicuro un muscolo.

    Entrai nell’appartamento e richiusi la porta con un calcio, sbuffando rumorosamente.

    Nick, il mio coinquilino, era seduto comodo sulla poltrona davanti allo schermo della televisione, intento a giocare alla PlayStation. Sembrava molto concentrato.

    «Grazie per l’aiuto, amico» sbuffai.

    Nick alzò una mano, in un gesto che lo rese molto simile alla regina d’Inghilterra.

    «Non c’è di che.»

    Scossi la testa, poi posai lo scatolone sul tavolo della cucina.

    «Braccia rubate all’agricoltura» borbottai, mentre aprivo il frigorifero.

    «Ti sento» ribatté Nick.

    «Era quello l’intento.»

    «Ringrazia che ti abbia ospitato, ingrato.»

    «Ospitato?» gli feci eco, voltandomi di scatto verso di lui. «Ma se ti pago un affitto esorbitante!»

    «Sono gli interessi, amico. Chiamalo risarcimento morale» replicò, sempre senza guardarmi. «Te ne sei andato via all’improvviso, lasciandomi privo di un coinquilino e con un vuoto nel cuore.»

    «L’unico vuoto che posso averti lasciato è quello nello stomaco» puntualizzai, dopo aver preso l’acqua. «Se non fosse stato per me, saresti morto di fame.»

    «Infatti, guarda come sono patito. Quell’altro coglione non sapeva nemmeno farsi un panino.»

    Il precedente coinquilino era stato sbattuto fuori di casa senza tante cerimonie, quando avevo informato Nick del mio imminente ritorno.

    «Ringrazia che ci conosciamo da quando siamo nati,» gli dissi, prendendo la pentola per la pasta «altrimenti a quest’ora ti avrei già mandato a cacare.»

    «Ringrazia che ci conosciamo da quando siamo nati,» mi fece il verso Nick «altrimenti a quest’ora non avresti un tetto sulla testa, visto che nemmeno tuo padre ti ha ripreso in casa.»

    Risi, mentre riempivo la pentola di acqua. Nick aveva messo il gioco in pausa, alzandosi dalla poltrona e mostrando il suo metro e novanta. Mi raggiunse in cucina.

    «A proposito, come sta?» chiese serio, aggiustandosi gli occhiali rettangolari sul naso. Un gesto che faceva quando era imbarazzato.

    «Bene,» risposi «l’ho visto meglio. Più attivo.»

    «Ti ha lasciato entrare in casa?»

    «Sì, certo, sbattendomi fuori dopo cinque minuti e urlando che era ancora in grado di pulirsi il culo da solo.»

    Nick rise di gusto.

    «Troppo forte, tuo padre.»

    «Già. Troppo forte.»

    E testardo.


    Complimenti, Gabri, un salto di qualità. Da New York, alla tua città natale. Dall’ombelico del mondo, all’assoluto nulla.

    Distolsi lo sguardo dalla finestra e ricominciai a disfare le valigie. Ero tornato solo da qualche giorno, eppure la mia vita nella Grande Mela sembrava un ricordo di qualche secolo fa.

    Le cose qui non erano cambiate, nei due anni in cui ero mancato. Il paesaggio era sempre lo stesso. L’inquilino del piano di sopra continuava a camminare con le scarpe negli orari più insoliti. Nick era rimasto un nerd fino al midollo.

    Il mio trasferimento, invece, non era stato né previsto né voluto, ma necessario, quando mi ero reso conto che mio padre era tutto ciò che restava della mia famiglia. Sapevo che lui non voleva che tornassi, ma come avrei potuto fare altrimenti? Dopo la morte di mia madre, sette anni prima, eravamo rimasti in due. Come avrei potuto lasciarlo da solo in questo momento?

    Sospirai e cercai di non pensarci. Non sarebbe servito a nulla rimuginarci all’infinito. Ora dovevo solo provvedere a reinserirmi all’università, cercare i corsi e i testi.

    Posai uno scatolone a terra e mi lasciai cadere sul letto, sfinito. Mi coprii gli occhi con un braccio.

    Pace.

    Proprio in quel momento il cellulare squillò. Naomi. Non risposi.

    L’avevo lasciata qualche giorno prima della partenza, dopo aver valutato i pro e i contro della mia decisione. Non credevo nelle relazioni a distanza, e soprattutto non credevo che Naomi fosse una ragazza da relazione a distanza. Anche se sembrava a lei piacesse recitare quel ruolo.

    Di certo non stavo con lei per la sua sincerità. Un corpo da sogno, gambe chilometriche, capelli biondi, begli occhi...

    Sospirai di nuovo e tornai al presente. Ciò che mi aspettava nei prossimi giorni non era molto allettante. Avrei dovuto dare ripetizioni e aiutare mio padre allo studio, visto che aveva avuto la brillante idea di licenziare la sua segretaria storica e i rimpiazzi perché pensava che lo trattassero come un infermo. Sarei diventato il segretario di mio padre. Che salto di qualità.

    Il cellulare suonò di nuovo. Questa volta era un messaggio.

    I miss u.

    Non risposi.

    Mi alzai dal letto controvoglia e decisi che era ora di andare in gelateria a prendere la torta per la festa di compleanno di mio padre.

    Festa a sorpresa, ovviamente.

    Sara

    Mia sorella aveva il potere di presentarsi ogni volta che mi prendevo un momento libero.

    Ogni singola volta.

    Anche quel giorno non feci in tempo a mettere il naso fuori di casa che la vidi salire le scale del condominio. Non appena alzò lo sguardo mi notò e corse verso di me, abbracciandomi.

    «Ciao, sorellona!»

    La strinsi a mia volta.

    «Ciao, Denise.»

    Eravamo molto simili. Guardandola, potevo ricordarmi com’ero, mentre lei poteva vedere in me come sarebbe diventata.

    La sola differenza tra di noi erano i capelli. Io avevo continuato a tenerli lunghi, mentre lei li portava corti fin da quando era un’adolescente.

    «Come mai sei qui?» chiesi.

    Si strinse nelle spalle.

    «Hanno chiamato Steve all’ultimo minuto per un matrimonio...»

    Cominciai a capire.

    «Quindi, Anna deve stare con qualcuno» finii la frase per lei.

    Denise mi fece un sorriso birichino, uno di quelli che la facevano tornare bambina.

    «Zia!» urlò una voce dietro di lei.

    Anna mi corse incontro.

    «Ciao, bellissima» la salutai, prendendola in braccio.

    Com’era prevedibile, anche lei era una nostra copia.

    Denise era rimasta incinta a sedici anni. Steve era più grande di lei di tre e, con una maturità per niente scontata, si era subito preso le sue responsabilità. Ovviamente, in casa c’erano state situazioni degne di una tragedia greca, ma alla fine mia sorella aveva deciso di tenere il bambino.

    E ora eccola qui, la mia bellissima nipotina di quattro anni.

    Steve e Denise non avevano mai considerato Anna come un intralcio. Loro cantavano in modo itinerante, e quando non potevano portarla con sé, la lasciavano a me.

    Mia sorella mi abbracciò di nuovo, diede un bacio sulla guancia ad Anna e poi se ne andò urlando che ci voleva bene.

    Io e Anna ci guardammo.

    «Andiamo a prendere una cioccolata calda?»


    «L’elefante era grandissimo!» esclamò Anna.

    Poi mollò per un momento il cucchiaino e mi mostrò con le sue braccine quelle che secondo lei dovevano essere le misure.

    Le sorrisi, divertita.

    Eravamo andate nella gelateria di fronte al mio condominio. Avevamo ordinato due cioccolate con tanta panna e ora eravamo sedute a un tavolino vicino alla vetrata. Anna mi stava raccontando la sua giornata allo zoo con il papà, mentre tentava di mangiare il dolce.

    A un tratto il campanello della porta del negozio suonò ed entrò un ragazzo.

    «Ehi, Gabriele!» esclamò il proprietario. «Quando sei tornato?»

    «Qualche giorno fa» rispose lui.

    Non riuscivo a osservarlo bene. Avevo una visuale completa solo della sua schiena. I capelli erano biondi e leggermente più lunghi di come li portano di solito i ragazzi.

    «Nick ha prenotato la torta, vero?» chiese.

    Il proprietario annuì.

    «Sì, è già pronta. Vuoi anche la candela con il numero degli anni?»

    «Meglio di no, altrimenti mio padre si lamenterà dicendo che voglio farlo sentire vecchio, e addio serata divertente.»

    Mi piegai verso Anna e lei fece lo stesso imitandomi.

    «Beh, forse dovrebbe fargli soffiare le candeline,» sussurrai «così si sentirà più giovane.»

    Anna portò una mano davanti alla bocca e si mise a ridere.

    «Forse dovrei seguire il tuo consiglio. Non sarebbe una cattiva idea.»

    Alzai di scatto lo sguardo. Il ragazzo mi stava osservando, mostrandomi in questo modo il viso.

    Doveva essere più grande di me. Aveva due bellissimi occhi grigi.

    Non feci in tempo a replicare nulla. Lui piegò la testa verso di me, come per salutarmi, poi uscì con la torta dal negozio.

    Sbattei un paio di volte le palpebre.

    «Zia, sei tutta rossa.»

    Tre

    Giro giro tondo,

    casca il mondo,

    casca la terra,

    tutti giù per terra.

    La bambina sta giocando con il suo peluche. Quando arriva il momento di cadere per terra, lascia andare il pupazzo e si sbilancia, atterrando sul sedere.

    Ride.

    Una mano le afferra la spalla, delicatamente, ma in modo deciso.

    «Vieni a giocare dentro» dice.

    L’uomo la guarda sorridendo.

    La bambina però non ride più. Lei vuole giocare fuori. Le piace l’erba, il suono che fanno gli uccellini che parlano tra loro, la morbidezza del suo pupazzo.

    «Io voglio giocare qui» protesta.

    L’uomo continua a sorridere, ma il tono della voce cambia.

    «Vieni a giocare dentro. Ti ricordi cosa ha detto la mamma?»

    La bambina annuisce.

    «Non devo farti arrabbiare.»

    «Esatto. Quindi?»

    La bambina sospira. Sa già che non le piacerà giocare dentro. Ma non vuole fare arrabbiare la mamma e non vuole farsi sgridare. Lei è una brava bambina. Glielo dicono sempre.

    «Devo venire dentro a giocare» risponde.

    L’uomo sorride.

    «Brava bambina.»

    Quattro

    Prima

    Sara

    Il risveglio non era mai semplice per me. La mattina proprio non riuscivo a ingranare, soprattutto se la sera prima ero andata avanti con lo studio fino a notte fonda.

    Con il passo degno di un bradipo, mi diressi verso la cucina, da dove proveniva un profumo di pane tostato. Trovai Jennifer ai fornelli. Lei era subito attiva, appena sveglia.

    Beh, a dire la verità, era sempre attiva.

    Io e lei sembravamo il giorno e la notte. Ci eravamo conosciute circa tre anni prima, quando la nostra padrona di casa ci aveva presentate.

    Lei indossava degli shorts bianchi e un top giallo che le facevano risaltare la pelle color cioccolato. I capelli ricci e scuri le ricadevano scompigliati intorno alla testa, simili alla criniera di un leone.

    Mi aveva guardata dalla testa ai piedi per un bel po’, con un sopracciglio alzato, valutandomi. Forse sembravo provenire da un altro mondo: indossavo pantaloni di lino e una camicetta senza maniche ma rigorosamente chiusa fino al collo.

    Mi ero sentita in ansia, poi lei aveva sospirato e mi aveva lanciato un’ultima occhiata prima di sparire nella sua camera da letto.

    «Spero tu non sia come sembri» aveva commentato.

    La frase mi aveva lasciata perplessa, ma avevo deciso di non reagire. Ero andata in camera mia e avevo iniziato a sistemare le mie cose.

    All’ora di cena, Jennifer si era messa ai fornelli e aveva cominciato a farmi delle domande.

    Alla fine le avevo raccontato la mia storia e lei si era rilassata.

    «Pensavo fossi una di quelle figlie di papà, ma sono contenta di essermi sbagliata. Una borsa di studio, eh? Anche io sono qui grazie a una borsa di studio. E per permettermi questo appartamento lavoro al bar dell’università.»

    E da lì a diventare amiche era stato un attimo.

    «Buongiorno» mi salutò sorridendo.

    Come al solito, era già vestita e truccata.

    Alzai una mano per salutarla di rimando.

    Lei aspettò che mi fossi seduta per mettermi davanti il pane tostato. Mugugnai un «grazie».

    Si mise di fronte a me e mi scrutò.

    «Hai dormito?» chiese alla fine.

    Mossi la testa a destra e a sinistra, come per dire così così.

    «Si vede.»

    Mentre davo un morso al toast, feci una smorfia col viso, che significava eh, lo so.

    «Sai...» continuò lei «ho notato che dormi sempre male, dopo che Anna se ne va.»

    Alzai le spalle.

    «Beh... Sono abituata ad averla nel letto; quando non c’è più e mi sveglio mi spavento non vedendola e mi chiedo dove sia finita. Solo dopo mi ricordo.»

    Jennifer continuava a scrutarmi con uno sguardo indecifrabile. Raddrizzai la schiena e cercai di sorriderle.

    «È tutto a posto, Jennifer,» la rassicurai «niente che non si possa risolvere con un po’ di caffè.»

    «Sarà...» disse alla fine, versandosi la spremuta nel bicchiere. «Ma a me sembri sempre molto irrequieta.»

    Riportò gli occhi su di me.

    «Spaventata» aggiunse.

    La guardai, alzando le sopracciglia.

    «Avrò fatto un incubo,» sorrisi «e avrò parlato nel sonno. Capita. Non ti devi preoccupare.»

    «Non mi preoccupa l’incubo in sé, ma la cadenza con cui succede. E sai che non credo alle coincidenze.»

    Posai il toast sul piatto.

    «Jenny, sono sotto pressione. Ho un sacco di lavoro da fare» mi giustificai.

    «Okay» rispose solamente.

    Inquietante.

    «Ora parliamo di cose serie» continuò dopo un attimo, mentre masticavo del pane. «Ieri ho incontrato Daniel, mentre tornavo a casa.»

    Il boccone mi andò di traverso, ma cercai di non darlo a vedere e tentai con eleganza di non soffocare.

    Jennifer sollevò un sopracciglio.

    «Vuoi una botta sulla schiena?»

    In testa, grazie.

    Scossi il capo, negando.

    «Mi ha chiesto di te,» continuò come se niente fosse «voleva sapere come stavi.»

    «Mmm...»

    «Perché diavolo l’hai mollato?» mi chiese di punto in bianco, anche se suonava più come un’accusa.

    «Non siamo mai stati insieme,» puntualizzai «siamo usciti qualche volta.»

    «Se tu chiami uscirci qualche volta la frequentazione di un paio di mesi...»

    «Non ha funzionato, Jennifer.»

    «Sì, ma perché?» chiese, sporgendosi verso di me. «È questo che non capisco. È carino, simpatico, premuroso, maturo...»

    «Grazie. Non mi sentivo già abbastanza in colpa.»

    «Raccontami, dai! Le altre passano ogni minimo gesto dei ragazzi sotto il microscopio per trovare un qualsiasi significato nascosto. Fallo anche tu, per una volta.»

    Finii di mangiare il toast, poi mi alzai dal tavolo.

    «Ho capito che non era adatto a me, tutto qui.»

    Andai in camera mia e mi chiusi la porta alle spalle. Solo dopo diversi minuti, mi accorsi che mi stavo strofinando il braccio con una mano, ma non per trarne calore.

    La pelle d’oca non aveva intenzione di andarsene.


    «Sara! Sara!»

    Mi fermai a metà delle scale e mi voltai, togliendomi una delle cuffie con cui stavo ascoltando il brano che dovevo preparare al pianoforte per accompagnare un ragazzo.

    In mezzo a tutte quelle persone che salivano e scendevano, ci impiegai un po’ prima di scorgere la testa e la mano di Cristina, che cercava di farsi notare.

    «Sara!»

    Mi raggiunse con il fiatone.

    «Scusa, Cri.»

    Le mostrai l’auricolare.

    Lei fece un gesto con la mano per liquidare la mia disattenzione, cercando di recuperare nel frattempo il fiato.

    «Ti volevo chiedere una cosa» cominciò. «Mio padre dà una festa a casa nostra, fuori città, in onore dei futuri soci del suo studio legale. Cerca una pianista, allora gli ho detto che conosco una ragazza molto brava. Che ne dici?»

    Wow. Dritta al sodo.

    «Quando sarebbe?» chiesi.

    «Verso la fine del mese. Dobbiamo ancora decidere la data, intanto abbiamo pensato di prenotarti, siccome sei sempre molto richiesta.»

    «Non esageriamo» mi schermii.

    Lei rise divertita.

    «Allora è un sì?»

    Annuii.

    «Certo.»

    Lei saltellò allegra come una bambina. Mi salutò e poi tornò sui suoi passi.

    Infilai di nuovo l’auricolare nell’orecchio, riprendendo a scendere con l’intenzione di incamminarmi verso il conservatorio, quando lo vidi.

    Era all’inizio della scalinata, un piede sul primo gradino. Stava parlando con una ragazza, o meglio, la ragazza stava parlando con lui. Quel ragazzo della pasticceria annuiva distrattamente, guardando l’orologio più volte e tamburellando con le dita sulla ringhiera.

    Non mi accorsi di essermi fermata a fissarlo, fino a quando lui non alzò lo sguardo, scandagliando la folla. I suoi occhi mi oltrepassarono, ma dopo una frazione di secondo tornarono su di me. Il lampo che vidi attraversare il suo sguardo mi fece capire che si ricordava di avermi già vista. Strinse gli occhi, come se stesse valutando la situazione.

    Ma che situazione doveva valutare?

    Non ci volle molto per scoprirlo.

    Dopo un attimo alzò la mano in segno di saluto nella mia direzione. Mi guardava con una tacita richiesta di aiuto, quindi repressi l’istinto di controllare alle mie spalle e feci un cenno anch’io.

    La brunetta spostò lo sguardo da lui a me. Lui si congedò in fretta e furia da lei e salì le scale fino a raggiungermi. Si chinò per baciarmi una guancia e poi l’altra, lasciando che il suo profumo mi intontisse e la sua barba appena accennata mi facesse il solletico.

    Ghiaccio.

    Ora lo potevo dire con certezza. I suoi occhi erano talmente chiari da sembrare ghiaccio.

    Einaudi aveva appena cominciato a suonare Nefeli, quindi non riuscii a sentire quello che mi stava chiedendo, ma lessi le sue labbra.

    Come ti chiami?

    «Sara» risposi a bassa voce.

    Lui sorrise. Io allora mi tolsi le cuffie.

    «Grazie,» mormorò all’orecchio. «Mi hai salvato la giornata.»

    Non feci in tempo a replicare nulla. Mi prese per un braccio e mi trascinò giù dalle scale alla velocità della luce.

    «Ciao, Sofia.» salutò passando davanti alla brunetta, senza nemmeno guardarla. «Scusa, ma io e Sara non ci vediamo da due anni... Ci dobbiamo aggiornare.»

    E, dopo un attimo, avevamo varcato l’entrata.

    Gabriele

    Non ero mai stato particolarmente fortunato nella vita ma, per l’amor del cielo, non potevano capitarmi tutte le sfighe in un solo giorno. E tutte concentrate in un paio d’ore, come se già non bastasse essere la personificazione delle leggi di Murphy.

    L’odissea infinita che avevo vissuto quella mattina per cercare le aule delle lezioni mi aveva rovinato la giornata. Aggiungendo il fatto che uno dei docenti ci aveva dato un saggio introvabile e c’era una lista di 37 persone in attesa per prendere in prestito un particolare libro dalla biblioteca dell’università, si poteva definire una vera giornata di merda. Ma, com’è vero che i delfini sono dei mammiferi e non c’è due senza tre, doveva proprio capitare anche l’incontro casuale con una vecchia frequentazione, di cui a malapena riuscivo a ricordare il nome.

    Ok, la pazienza era sempre stata una mia virtù, altrimenti non avrei mai scelto Psicologia come facoltà. Ma andiamo! Tutte in un giorno?

    Uno spiraglio di luce era arrivato solo quando avevo cominciato a guardarmi attorno e l’avevo riconosciuta.

    Mi ci era voluto un attimo, in gelateria non l’avevo osservata con molta attenzione, ma mi erano rimasti impressi i suoi occhi a mandorla tanto scuri da sembrare quasi neri.

    Era diversa. Non avrei saputo descriverla in altro modo. Non perché fosse vestita con qualcosa di strano, ma perché sembrava essere nello stesso momento al suo posto e fuori posto.

    L’avevo guardata e lei mi aveva riconosciuto. E così ero riuscito a liberarmi di Sofia. Ora ero con Sara fuori dalla porta d’ingresso, e tremavamo per il freddo.

    «Forse sarebbe stato meglio infilarci prima i cappotti» constatò lei e indossò il suo, che aveva appeso al braccio fino a un attimo prima.

    Negai con la testa, infilando anch’io il mio.

    «Ci sarebbe voluto troppo tempo. Avrebbe trovato sicuramente un modo per trattenermi ancora là» spiegai, immaginando la scena e rabbrividendo.

    Mi osservò per un attimo, poi scoppiò a ridere; una bella risata divertita.

    «Da come lo racconti, sembra essere il peggior incubo di un uomo.»

    Feci un mezzo sorriso.

    «Non ricordo molto di lei, e questo già la dice lunga.»

    Le porsi la mano.

    «Gabriele,» mi presentai. «Grazie ancora. Soprattutto per aver capito.»

    Lei la strinse.

    «Sara. Ed era impossibile non accorgersi della tua richiesta di aiuto. Quello sguardo da cane abbandonato mi stava perforando la testa.»

    Risi.

    «Dovrei sdebitarmi.»

    Lei scrollò le spalle, mentre indossava un cappellino bianco che aveva estratto dalla borsa.

    «Non devi. Non ho fatto nulla di che.»

    «Un caffè?» insistetti.

    Non sapevo perché, ma non mi andava di lasciarla andare subito. Mi aveva regalato la prima risata della giornata.

    La vidi esitare. Guardò l’orologio al polso. Era indecisa. Dovevo agire subito, oppure mi avrebbe risposto di no.

    «Una cioccolata calda?» ritentai, ammiccando.

    Lei sorrise, anche se sembrava combattuta. Alla fine annuì.

    «Okay, ma ho poco tempo.»


    «Panna. Come fai a bere la cioccolata con la panna? Ne corrompe il sapore!»

    Lei mi lanciò un’occhiata divertita.

    «A sentirti parlare, sembra abbia commesso un crimine contro l’umanità.»

    Eravamo appena usciti dalla cioccolateria in centro e ora stavamo camminando verso il conservatorio di Sara.

    «Non contro l’umanità,» puntualizzai «solo contro la cioccolata, rovinata così...»

    Bevvi un sorso dal mio bicchiere. Il calore mi inondò lo stomaco e mi sentii subito meglio. Il freddo era talmente pungente che entrava fin nelle ossa.

    «La tua giornata non è andata molto bene, se sono stata l’unico spiraglio di sole» riprese.

    Risi, un po’ imbarazzato, poi le raccontai a grandi linee quello che era successo. Non mi guardava, ma era attenta. Sapevo che stava ascoltando. Ed era tranquilla.

    Dopo la frenesia degli ultimi giorni, stare accanto a lei mi dava una sensazione strana, come se a tutto ci fosse una soluzione. Bisognava rimanere solo con i nervi saldi.

    «Non sei qui da molto, vero?» chiese, alla fine.

    «No. Quando sono andato via, non c’era nemmeno il polo universitario.»

    Sara annuì. «Sì, beh, l’idea di creare uno spazio solo per noi non è male. È una bella struttura, grande, ma hanno tralasciato alcuni dettagli. La biblioteca, per esempio. È enorme, ma non è ben fornita. Ti sconsiglio di andare a cercare i testi lì, perché sicuramente finirai in lista d’attesa. E le liste sono molto lunghe. A meno che tu non sia Flash, ovviamente.»

    Sottolineò l’ultima frase con un’occhiata nella mia direzione.

    «Allora cosa mi consigli di fare, o mia salvatrice?» chiesi, dandole un colpetto al braccio con il gomito.

    Lei sorrise, poi bevve un sorso della sua cioccolata.

    «C’è una biblioteca, vicino al conservatorio. Gli studenti non ci vanno quasi mai perché è lontana.»

    «Ho visto.» commentai.

    «Però trovi tutto quello che ti serve,» continuò «e poi è tranquilla. Se vuoi ti faccio vedere dov’è, tanto è sulla strada.»

    Annuii, più per rimanere ancora con lei che per l’interesse verso il saggio.

    Una volta arrivati a destinazione, pensai che mi avrebbe lasciato lì per andare al conservatorio, sul quale non ero riuscito a cavargli molto di bocca, invece mi accompagnò dentro, facendomi strada.

    Ero nato in quella città, ma non mi ero mai preoccupato di visitarla in modo approfondito. Sono sempre stato più concentrato a guardare fuori, a dove sarei potuto andare appena ne avessi avuto la possibilità. Ovviamente, sempre all’estero.

    Entrammo nell’edificio e gemetti di piacere per il torpore che mi stava invadendo. Finalmente un po’ di caldo.

    Lei mi guardò con le sopracciglia alzate.

    «Sono freddoloso» mi giustificai.

    Scrollò la testa, divertita.

    Si avvicinò al banco delle informazioni e mi fece cenno di raggiungerla. Mi guardai intorno: la biblioteca non era molto grande, Sara aveva ragione, ma era silenziosa, tanto che potevo quasi sentire il mio stesso respiro.

    Una piccola oasi.

    La bibliotecaria e Sara sembravano conoscersi. Stavano chiacchierando sul freddo inusuale per quel periodo dell’anno, quando un ragazzo con lo sguardo puntato sulla mia salvatrice si avvicinò a noi.

    «Sara.»

    La chiamò restando a qualche passo di distanza. Vidi Sara irrigidirsi e raddrizzare la schiena di colpo. Si girò verso di lui con quello che doveva risultare un sorriso cordiale. A me sembrava una smorfia di disagio, invece.

    «Ciao, Daniel» lo salutò, gentile. «Come stai?»

    Il ragazzo strinse per un attimo gli occhi, confuso. Come se si aspettasse qualcos’altro.

    «Abbastanza bene,» rispose. «Meglio comunque di quando mi hai lasciato.»

    Ah.

    Ex ragazzo. Brutta situazione.

    Sara aveva un’espressione imperscrutabile sul viso. Ma non fu quello ad attirare la mia attenzione. Aveva portato la mano destra sul braccio sinistro e aveva cominciato a sfregarselo lentamente. Non se ne era nemmeno accorta.

    «Non siamo mai stati insieme, Daniel» precisò, in un tono così freddo che a stento potei riconoscere la ragazza solare alla quale avevo offerto una cioccolata calda poco prima.

    Lui diventò rosso, poi si avvicinò di un passo e d’istinto feci lo stesso. In questo modo entrai nella visuale di lui, che vagò con lo sguardo da me a lei.

    Un lampo di comprensione gli attraversò gli occhi feriti.

    «Ah, capisco» commentò semplicemente.

    Lei non negò e nemmeno io. In fondo mi aveva aiutato prima, se per sdebitarmi dovevo fingere di essere la causa della loro rottura, beh, lo avrei fatto.

    «Smettila di essere ridicolo, Daniel» sbottò alla fine, Sara. «Smettila di chiamarmi, di seguirmi e di incontrare per caso Jennifer. Non ne voglio più sapere di te. Non ha funzionato, fattene una ragione.»

    Daniel fece un passo indietro, come se fosse stato schiaffeggiato. Strinse le labbra e poi se ne andò.

    Riportai l’attenzione su Sara. Aveva mantenuto la schiena dritta e si stava ancora sfregando il braccio, come se potesse trarne una sorta di conforto. Si era trasformata.

    Evitò di guardarmi in faccia quando mi disse che doveva andare. Non la fermai. Non capii il perché. La vidi varcare la porta e poi sparire.

    Cinque

    La bambina è seduta sul divano e sta aspettando che la mamma sia pronta. Non vuole che il vestito nuovo si rovini, quindi tiene la schiena dritta e i piedi giù. Oggi è una giornata importante: la prima confessione.

    Non sa bene come funziona. L’unica cosa che le hanno detto le catechiste è che deve raccontare al prete tutte le cose cattive che ha fatto. I suoi peccati. E verrà perdonata.

    Lui arriva. Si siede di fronte a lei. La guarda. Lei restituisce lo sguardo.

    «Ti ricordi quello che ti ho detto?» le chiede.

    Lei annuisce.

    «Cosa?» chiede di nuovo, per conferma.

    «Non devo dire niente dei nostri giochi» risponde diligentemente.

    Lui annuisce, sorridendo.

    «Brava bambina» si complimenta, appoggiandole una mano sulla testa.

    La bambina si ritrae di scatto.

    «Mi spettini» dice subito.

    Lui sorride bonario.

    «Hai ragione, scusa.»

    Lei non dice più niente.

    Il brivido lungo la schiena non è ancora andato via.

    Sei

    Prima

    Gabriele

    «Papà!» mi annunciai urlando. «Sono a casa!»

    Silenzio.

    Alzai gli occhi al cielo mentre mi richiudevo la porta alle spalle, poi andai in cucina per posare la spesa che avevo fatto per lui.

    «Potresti almeno venire ad aprire, vecchio decrepito...» borbottai tra me e me, mentre tiravo fuori la pasta.

    «Guarda che ci sento ancora, moccioso.»

    Per poco non mi cadde il pacchetto dalle mani. Mio padre era sulla soglia e mi stava osservando. Aveva il giornale in mano aperto e gli occhiali sulla punta del naso, come sua abitudine.

    «Ho suonato tre volte» protestai.

    «Non ho sentito il campanello.»

    Respirai e contai fino a dieci. Mio padre era snervante, ecco perché avevo deciso di mettere un oceano tra di noi, due anni prima.

    «Cosa stai facendo?» chiese.

    «Ti ho fatto la spesa. Ora la metto a posto.»

    «Posso farmela benissimo da solo.»

    «Ieri sera il frigo era vuoto,» gli feci notare, guardandolo in tralice «e questa mattina la situazione non era cambiata.»

    Mio padre chiuse di scatto il giornale.

    «Sei entrato in casa mia? Potrei denunciarti per effrazione!»

    Sospirai pesantemente.

    «Sono tuo figlio e sono entrato con le chiavi. Non è giornata, papà. Anzi, non è settimana. Ci fosse stata una cosa che mi sia andata bene! Ora, per favore, non rompere.»

    «Un detto indiano dice: Se vedi tutto grigio, è il caso che tu sposti l’elefante. Ora, come tu faccia a spostare un elefante non ne ho la più pallida idea. Al massimo spostati tu...»

    Mio padre era così. Quando ci si metteva, risultava insopportabile. E parlava, parlava, parlava... fino a quando tu non eri talmente intontito da non poterne più e te ne andavi per disperazione.

    Blaterò ancora un po’ su elefanti e circo, ma io mi isolai e continuai a sistemare la spesa.

    Dopo, tirai fuori le boccette dalla tasca dei jeans.

    «Ti ho preso i medicinali» dichiarai, posandoli sul tavolo.

    Lui si zittì all’istante.

    «Ci sarei andato io.»

    «Dovevi andarci ieri,» sottolineai «non l’hai fatto.»

    Mio padre si avvicinò al tavolo e ci buttò sopra il giornale. Era furibondo, lo vedevo. Dovevo restare calmo.

    «Tutti voi dovete smetterla di trattarmi come un malato terminale!» esclamò.

    «Io non sono tutti, papà. Sono tuo figlio e sono preoccupato.»

    «Dovevi restartene in America! Chi ti ha chiesto di tornare?»

    «Capisco che tu possa ancora essere nella fase della negazione...»

    «Non osare pretendere di insegnarmi il mio lavoro, pivello» mi interruppe, puntandomi il dito contro. «Ne hai ancora di strada da fare prima di poter prendere il mio posto.»

    Sì, mio padre era uno psicologo, dovevo ricordarmelo spesso. Anche se certe volte non capivo come facesse ad avere dei pazienti.

    «E tu allora dovresti smetterla di comportarti come un dannatissimo coglione» ricalcai. «Hai avuto un infarto, e non lieve per giunta. Potevi morire, capito? Morire. Eppure non te ne frega niente. La mamma avrebbe fatto di peggio, e lo sai! Quindi vedi di comportarti come un cazzo di adulto e smettila con tutte queste assurdità. Devi prendere le medicine, punto. Non ci sono cazzate che tengano.»

    Avevo il fiatone, ma continuai a guardarlo negli occhi, furente.

    Lui sostenne per un po’ il mio sguardo, poi distolse il suo. Afferrò le boccette.

    «Gradirei che non parlassi in modo così scurrile, tirando in ballo sempre i genitali maschili.»

    Sospirai. Potevo dargli del vecchio decrepito, ma non potevo dire la parola cazzo e derivati.

    «Prenderò le medicine,» sentenziò alla fine «ma ora vattene da casa mia.»


    Ero seduto in cucina davanti a un bicchiere d’acqua.

    Io e mio padre non eravamo mai riusciti a parlare né a capirci. Solitamente era mamma che faceva da ambasciatrice e da interprete tra di noi. Dopo che la malattia l’aveva consumata ed era morta, il nostro rapporto era diventato ancora più difficile.

    Mia madre mi diceva sempre di provarci, di portare pazienza quando era alterato, di parlarci nei momenti in cui rimaneva in silenzio. Non riuscivo a comprendere come potesse aiutare le persone ascoltandole, quando non riusciva a farlo nemmeno con me che ero suo figlio.

    Mamma ripeteva spesso anche che ero una copia più giovane di lui e di conseguenza potevo vedere come sarei diventato. Speravo proprio di no, sinceramente. Io non ero così cocciuto e così... così snervante.

    Come aveva potuto lei, una donna solare, allegra, gentile, aperta, innamorarsi di un tale...

    Ah! Non mi vengono nemmeno le parole!

    «Non riuscirai a trasformarla in vino.»

    Sollevai lo sguardo di scatto. Nick si era finalmente alzato e mi stava osservando da dietro gli occhiali.

    «Cosa?» chiesi confuso.

    «L’acqua» chiarificò, indicando il mio bicchiere. «Non sei Gesù.»

    Socchiusi gli occhi, ridendo per un attimo.

    «Cosa stavi guardando?» gli chiesi.

    Ero rientrato a casa e lo avevo trovato

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