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Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi
Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi
Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi
E-book216 pagine3 ore

Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi

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Info su questo ebook

Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi è la surreale storia di Palmiro: un uomo apparentemente paranoico, ma in fondo come tanti, in balia delle sue strane vicende della vita. Il fato lo prenderà di mira più volte, su di lui si abbatteranno catastrofi che supereranno l’immaginazione più sfrenata, e proverà tutte le croci e le delizie dell’anima.
Una lente acuta, tagliente e ironica metterà a fuoco l’iprocrisia sempre più diffusa, l’inganno dei falsi valori, l’isolamento e la mercificazione dei sentimenti. Una lente che non risparmia nessuno.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mag 2020
ISBN9788835832706
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    Anteprima del libro

    Proprietà degenerative della materia e altre catastrofi - Alessandro Genovese

    Genovese

    Capitolo 1

    «Ho qualcosa che non va.» Con queste poche parole Palmiro Garcia Parra avrebbe espresso il malessere che lo sorprese nel letto alle prime luci dell’alba di quel 14 marzo. Ma per qualche oscuro motivo, il pensiero gli rimase incagliato nel complesso meccanismo della laringe e non si tradusse in sonorità vocale.

    Poteva darsi il caso, infatti, che questo Palmiro fosse un tipo equilibrato e razionale, uno di quelli che non perdono mai il controllo, che sanno sempre cosa dire, come dirlo e quando dirlo. Personaggi del genere, comunque, ne girano talmente pochi che trovarlo senza neanche girare l’angolo sarebbe parsa come una di quelle strane coincidenze a cui si fatica a credere. Ma anche se fosse, stava attraversando la nebulosa fase del dormiveglia per cui non avrebbe potuto incarnarlo peggio: sdraiato tutto scomposto sul letto, grugniva e biascicava come un troglodita. Mentalmente, invece, fluttuava tra l’infimo livello della risposta ai bisogni primari e quello basso della semi-incoscienza. Perciò, quelle parole, poteva benissimo credere di averle dette.

    C’era anche la possibilità che avesse confuso quel malessere con il naturale appannamento dei sensi che ognuno avverte quando riemerge dal sonno profondo della notte, e avesse deciso di non sprecarci il fiato.

    Quando, però, Palmiro sbarrò gli occhi come si suole fare in situazioni di emergenza, intuì, per quanto poteva consentirgli la scarsa lucidità del momento, che quel fenomeno non coincideva, tanto per gli effetti quanto per intensità, a quelli delle altre mattine. Considerando che l’indolenza e lo smarrimento sono elementi invariabili della fase del risveglio e che spesso, se non sempre, sono accompagnati da espressioni ebeti del viso e da sguardi spenti, le sue pupille dilatate e i nervi tesi sul volto non lasciavano dubbi: Palmiro aveva qualcosa che non andava. Questa volta, quindi, vinto dalla necessità di esprimerlo, lo sussurrò con la consapevolezza di sussurrarlo. Era infatti troppo sicuro di ciò che provava, come lo era della paura di provarlo. Palmiro, però, sorretto dall’ingenuo ottimismo di un condannato al supplizio che spera nella compassione dell’aguzzino, si augurava che quel malessere non trascendesse i limiti dell’umana sofferenza.

    Bisogna dire, per un’accurata cronaca dei fatti, che l’inquietante episodio avvenne nella più completa oscurità. Dove le sensazioni sono vaghe e il giudizio rimane sospeso. Molti, forse ingiustamente, associano, o peggio, identificano l’oscurità con l’oblio o con la morte, e perciò è una situazione da scongiurare. Palmiro, invece, ci si trovava a meraviglia. E non lasciava che arrivasse spontaneamente con il lento degradare della luce del sole. Lui se la fabbricava sul fare della sera, prima di andare a dormire. Da anni seguiva un procedimento ormai così collaudato che i movimenti gli venivano automatici, a tutto vantaggio del risultato finale. Con una scientifica metodicità Palmiro confinava ogni fascio di luce esterna blindando porte e finestre di casa, e sopprimeva ogni luccichio che pulsava dai led. Così nessun riflesso anarchico, vicino o lontano, riusciva a intrufolarsi negli spiragli sfuggendo al rigore delle tenebre, e quindi a raggiungere il paraggio che Palmiro aveva eletto come regno inviolabile del sacro riposo.

    Sicché Palmiro, galleggiando con gli occhi dischiusi al buio, ritrovò il dolce conforto del dubbio. Quel malessere, infatti, avrebbe potuto essere una naturale perturbazione fisiologica durante il delicato passaggio dall’incoscienza alla veglia. Tanto se ne convinse che decise di iniziare quella giornata allungando il braccio per accendere la lampada sul comodino. Il chiarore artificiale si irradiò come le spore di un dente di leone. Questa immagine bucolica, purtroppo, appassì subito. La debole ma spietata luce del lume mostrò prima il cespuglio arruffato dei suoi capelli, poi il corpo disarticolato proteso verso l’interruttore in tutta la sua goffaggine.

    L’aspetto peggiore della faccenda, comunque, non fu quello estetico, ma quello funzionale. Gli occhi incorniciati nelle palpebre gonfie e aggrinzite come prugne secche cercarono, ma senza successo, di mettere a fuoco gli oggetti più vicini. Solo dopo molti tentativi identificò, con buona approssimazione, il suo vecchio Seiko da polso riverso sul comodino senza però riuscire a leggere l’ora. Ci fosse riuscito, gli avrebbe rivelato l’ora drammatica delle 4:52.

    Per quanto familiare potesse risultargli quell’oggetto, non riusciva a ricostruire un’immagine più nitida. Rassegnato all’idea di soffrire di un qualche disturbo transitorio della vista, Palmiro richiuse gli occhi; in quelle condizioni non poteva neanche alzarsi dal letto. Avrebbe voluto riaddormentarsi e ci provò pure, ma senza successo. Poi, senza alcun preavviso, il suo volto si trasfigurò in una maschera di dolore e le mani, con uno scatto improvviso, reagirono allo stimolo convergendo sullo stomaco.

    Considerando i tempi e i modi del suo risveglio, poteva trattarsi del caso molto frequente di un malore a scoppio ritardato. In poche parole, durante la notte, il suo sistema neurovegetativo poteva aver adottato, inconsciamente, alcuni semplici meccanismi di difesa per proteggere la sacralità delle ore di sonno salvaguardano l’integrità delle funzioni vitali, ma trascurando il proliferare di modeste alterazioni fisiologiche. Palmiro, che nulla sapeva di tutto ciò – e anche se l’avesse saputo non era nelle condizioni di ricordarlo – semplificò ogni cosa, proprio come si è soliti fare nelle circostanze critiche, e l’inesplicabile disturbo alla vista fu ridotto a uno dei tanti effetti collaterali del dolore lancinante allo stomaco.

    E per trovare maggior sollievo ricorse all’habitat rassicurante della propria dimora. Reggia o stamberga che sia, infatti, da sempre le viene attribuito il potere di curare i mali o, nel peggiore dei casi, di lenire il dolore di chi vi abita. Non si contano nemmeno più i casi di gente che, già prima di Ippocrate, ha preferito giacere e magari morire tra le quattro mura domestiche piuttosto che vagare per luoghi sperduti e ignoti in cerca di chissà quale miracoloso rimedio inventato da stregoni di ogni epoca.

    Per questo, anche se anacronistico, resterà sempre un sistema infallibile per alleviare le pene e, qualche volta, curare i mali. Palmiro adottò istintivamente questo antico rimedio, senza cognizione né esperienza in merito, cercando conforto tra le quattro mura della sua piccola camera da letto. La carta da parati giallognola, le croste sbiadite che tentavano pateticamente di decorarle, il pavimento con le mattonelle quadrate in smalto verde e il soffitto bianco sporco gli fornirono le coordinate del luogo in cui si trovava. Era proprio a casa sua, e tutto sembrava come l’aveva lasciato la sera prima. Del resto , si chiese retoricamente Palmiro, perché dev’essere cambiato qualcosa se vivo solo e durante la notte non ricordo di essermi alzato? ; il comodino alla sua sinistra era occupato dai soliti oggetti, l’enorme cornice in plastica rosa che inquadrava una foto della sua famiglia era sempre sul comò, così come il vecchio vaso smaltato con dentro il pot-pourri ormai svanito. Pure l’armadio, che meno di ogni altra cosa avrebbe dovuto soffrire spostamenti di sorta, sembrava ben piantato sulle grosse zampe. L’unico dettaglio curioso era uno spiraglio lasciato da un’anta del mobile. Palmiro, benché ricordasse di averla chiusa bene dopo aver riposto l’abito indossato il giorno prima, attribuì l’anomalia a un difetto di fabbrica della suppellettile. Si trattava di un grosso armadio in stile inglese di dubbia qualità, acquistato di recente online su Mil Anuncios e pagato quasi duecentocinquanta euro, dopo un’estenuante trattativa col venditore. Insomma, a quel prezzo, un po’ se l’aspettava che prima o poi saltasse fuori una pecca. Incoraggiato da queste amene riflessioni, infilò gli zoccoli, si drizzò in piedi e mosse i primi passi. Il suo equilibrio statico e motorio non sembrava compromesso. Rassicurato dalla linea retta che riusciva a seguire senza particolari difficoltà, si diresse verso la cucina per bere dell’acqua, convinto che una generosa sorsata fresca l’avrebbe rimesso in sesto. Il percorso da compiere non era neanche così lungo o impegnativo: sette o otto metri in tutto. Superata con facilità l’unica vera insidia, se così si può chiamare l’insignificante dislivello tra la stuoia in linoleum e il pavimento del corridoio, Palmiro pensava di aver recuperato il pieno controllo di sé. L’ottimismo che di solito premia chi lo adotta come sistema per esorcizzare incidenti e dissipare timori, in questo caso, funzionò poco; e si direbbe pure male, dal momento che si esaurì sulla soglia della cucina. Lì i suoi passi si fecero malfermi e le gambe iniziarono a traballare. Tornare indietro sarebbe stato più impegnativo e rischioso che andare avanti, sicché, con la fronte già imperlata di quel sudore freddo che fa presagire il peggio, decise di proseguire a qualunque costo. Peraltro in cucina, oltre a una robusta sedia pronta ad accoglierlo, avrebbe potuto invocare in suo aiuto gli antichi numi protettori del focolare domestico. Come diavolo si chiamassero non lo ricordava affatto, ma certo sapeva che i primi uomini che li avevano avvistati, o anche solo immaginati, gli attribuirono, tra le tante facoltà, anche quella di emanare influssi terapeutici sugli abitanti della casa se colpiti da indisposizioni lievi e passeggere come la sua.

    «Aiuto!» implorò Palmiro, rivolgendosi a una Balay a gas degli anni ’80, elevandola da semplice aggeggio adibito a cuocere uova sode a dimora moderna di quelle divinità.

    Per addentrarsi in quell’ambiente apotropaico, Palmiro produsse uno sforzo che in condizioni normali non avrebbe meritato apprezzamento, ma in quel momento risultò superiore alle sue energie fisiche. Appena si trovò al centro della minuscola cucina, iniziò a vorticargli tutto intorno; il lampadario sospeso sulla sua testa scomparve verso l’alto, i pensili in fòrmica a destra e la Balay alla sua sinistra raggiunsero velocemente la deriva orizzontale, e la sedia e il tavolo vicini alla finestra scivolarono lungo i binari della prospettiva. A prima vista, solo il piccolo frigorifero in fondo alla stanza aveva mantenuto la sua posizione. Tuttavia, a un esame più accurato, anche se sempre approssimativo tenuto conto della confusa percezione della realtà, Palmiro trovò che le dimensioni dell’elettrodomestico si fossero ridotte. C’era da mettere in conto che la difficoltà di deambulare spesso altera le distanze, così Palmiro fece leva sulla sua più grande virtù: la perseveranza.

    Nella certezza che camminando sarebbe andato giù come un sacco di patate, Palmiro si prostrò e, strisciando sulle ginocchia, raggiunse il frigorifero. A dispetto dell’umile posizione, quando afferrò la maniglia, si sentì così orgoglioso di aver superato quel momento difficile che si rizzò in piedi e d’istinto guardò in alto, sulla credenza. E quando i suoi occhi incontrarono la grossa ampolla di vetro in cui custodiva gelosamente la sua magnifica collezione di fiammiferi, capì il perché; qualche anno fa aveva provato una soddisfazione simile, ma in misura maggiore, quando era riuscito, nonostante diversi cedimenti di volontà e lo sperpero di una piccola fortuna, a completarla e a partecipare a mostre e concorsi. Paradossalmente aveva iniziato quella collezione non per capriccio, ma per necessità. Ricordava bene la scintilla che aveva dato inizio a tutto. Era la mattina del primo dell’anno e si accingeva a prepararsi il caffè; aveva posizionato la moka sul fornello, ma il vecchio accendigas da cucina aveva esalato l’ultima fiamma la sera prima senza che lui se fosse accorto. Il piccolo e fedele elettrodomestico si era spento con discrezione, proprio come aveva compiuto il suo modesto lavoro per tutta la sua pirica esistenza. Il guaio fu che anche il piezoelettrico, anima sempre vivace dell’arnese, era spirato. Inoltre, quel giorno di festa, nessun negozio, tabaccai e casalinghi compresi, avrebbero alzato la serranda. Troppo orgoglioso per chiedere aiuto ai vicini, Palmiro preferì un piatto freddo a pranzo e a cena piuttosto che dichiarare a tutti la sua imprevidenza. Quella sera, dopo aver inghiottito l’ultima gelida oliva snocciolata, si ripromise che un incidente del genere non sarebbe mai più dovuto accadere. Il giorno dopo, di buonora, scese in strada e acquistò la prima scatola di fiammiferi. Nell’accenderne uno provò una tale sensazione di forza e sicurezza che ne rimase avvinto. E nella ricerca del fiammifero che si accendeva meglio si edificò la sua collezione. Iniziò raccogliendo tutti quelli da cucina ma, tranne poche eccezioni, nessuno aveva una fiamma abbastanza esuberante. Poi scoprì quelli per il caminetto, molto più vigorosi e duraturi, ma alla lunga anche questi persero fascino, specialmente dopo aver raccolto quelli dei più lontani Paesi. Quando ormai aveva quasi rinunciato alla ricerca, una sera d’inverno, facendo pigramente zapping, fu folgorato dalla pipa di Douglas Mortimer, il cattivo di Per qualche dollaro in più. Fino a quell’incontro cinematografico, Palmiro non avrebbe mai immaginato che potessero esistere fiammiferi da pipa. Be’, fu una rivelazione. Che magnifica fiamma! Che forza nell’accendersi! Che colore! E il legno? Superbo! Furono necessari discreti sforzi economici per arrivare ad averli tutti. E per tutti si intende anche i rarissimi Tre Stjänor svedesi degli anni ’50 che furono gli ultimi e i più sofferti, ma anche quelli che lo riempivano più d’orgoglio e suscitavano l’invidia degli altri collezionisti.

    Col morale più prossimo alle stelle che sotto i tacchi, Palmiro riuscì a spalancare la porta del frigorifero e afferrare una bottiglia d’acqua. Un brivido sulla pelle e la sorsata che buttò giù gli restituirono tanto vigore che riuscì a sussurrare: «Ora sto decisamente meglio.» Tanto bene si sentiva Palmiro che pronunciò quelle parole socchiudendo gli occhi, come a sfidare il pericolo che quel malessere potesse riaffacciarsi.

    Non successe. Sicché, dopo aver letto l’ora sull’orologio della cucina, si preoccupò solo di recuperare, per quanto possibile, il poco tempo che mancava alla quotidiana levataccia delle sei riguadagnando la comodità del suo giaciglio. Lungo il breve tragitto, però, questa modesta intenzione si trasformò in un’impresa; le gambe iniziarono a tremare con ritmo e intensità più allarmanti di prima, gli occhi si riempirono dei cerchi di luce che solitamente precedono lo svenimento e il ventre venne colpito da un pugno sferrato da una mano invisibile, ma precisa. Per riprendere energie e fiato, che si era fatto corto, Palmiro appoggiò la schiena sul rassicurante stipite dell’uscio della camera da letto. Quell’insperata stabilità gli offrì tempo e occasione per riflettere sull’aggravarsi dei sintomi; ormai oltre ogni ragionevole dubbio e contro il normale scetticismo iniziale, Palmiro si rassegnò all’evidenza: quel qualcosa che non va era più serio di quanto aveva considerato.

    Dopo un paio di minuti che sembrarono ore, le gambe riguadagnarono il vigore sufficiente per sorreggerlo, la respirazione tornò quasi regolare, nessun cerchio di luce gli baluginava davanti e, come un buon incassatore, si era ripreso dal colpo di maglio. Pertanto decise di abbandonare il ricovero offerto dalla verticalità dello stipite per raggiungere quello orizzontale del suo letto. L’azione si svolse senza intralci né contrattempi e si concluse con Palmiro rannicchiato sul letto come un bambino spaventato dall’orco cattivo. E, come tale, troppo inquieto per riprendere sonno.

    Capitolo 2

    Nel frattempo la camera da letto era scivolata nella penombra. Un conto, infatti, è dare luce a un paio d’occhi dopo sette ore di buio i quali sfrutteranno fino all’ultimo riflesso per dare forma e colore agli oggetti dell’ambiente circostante, un altro è aspettarsi che gli stessi occhi, assuefatti dall’incandescenza delle lampadine facciano lo stesso lavoro utilizzando la piccola corolla luminosa dell’abat-jour. Palmiro riuscì a identificare solo gli oggetti più vicini, e l’angoscia a quel punto lo assalì sotto forma di una riflessione quasi ovvia: e se il malessere fosse solo il primo sintomo di chissà quale male, cosa mi dovrei aspettare per il futuro?

    Risulterà strano come stratagemma, ma per trovare conforto nelle situazioni disperate spesso si cerca un percorso alternativo che lucra sulla logica, scadendo però nel pretestuoso. La cosa neanche dovrebbe sorprendere, Palmiro si avvicinava ormai alle cinquanta primavere. È, per chi ha poca dimestichezza della vita, l’età problematica in cui non ci si vuol rassegnare all’inesorabile declino fisico e il malessere allo stomaco e gli sbandamenti vengono spesso classificati, per convenienza, come cedimenti transitori.

    E ogni scusa è buona per farlo.

    Palmiro la trovò a terra, nel paio di zoccoli parcheggiati ai piedi del letto. Erano stati loro ad accompagnarlo nel breve ma terribile viaggio camera da letto-cucina-camera da letto.

    Quelle innocenti calzature in legno e cuoio, quindi, tanto innocenti non dovevano essere , pensò.

    Certo erano zoccoli buoni, non c’è che dire, li aveva pagati anche poco, sui quindici euro da Padevi su Carrer de la Portaferrissa, vicino a casa sua, ma erano solo un’imitazione degli eccellenti zoccoli del Dottor Sholl che invece erano comodi e facevano bene ai piedi. In realtà Palmiro li aveva sempre trovati un po’ duri, ma avevano il vantaggio, come quelli originali o forse più, di consumarsi poco e di resistere all’acqua. Ora, però, osservandoli meglio, come forse non aveva fatto neanche al momento dell’acquisto, notò che avevano un bel tacco.

    Troppo tacco, per la verità.

    Tanto che quella vertiginosa altezza si trasformò immeritatamente nella causa dell’andatura traballante. Con lo stesso ragionamento, rafforzato dalla comoda associazione di idee, gli steli di luce dell’abat-jour furono imputati dell’annebbiamento alla vista, e l’acqua fredda del colpo allo stomaco.

    Questo espediente non fece in tempo a consolidarsi che una potente contrazione gli strinse lo stomaco. Se Palmiro fosse stato uno di quegli spericolati esploratori culinari che pur di soddisfare

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