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Il giorno di Moro
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E-book422 pagine5 ore

Il giorno di Moro

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Info su questo ebook

9 maggio 1978. A Roma, in via Caetani, le Brigate Rosse consegnano al paese il corpo dell’onorevole Aldo Moro, dopo 55 giorni di prigionia. Da quel giorno l’Italia non sarà più la stessa.9 maggio 1978. Lo stesso giorno, il giorno di Moro, a Roma, nella zona della basilica di S. Paolo fuori le mura, avviene un duplice omicidio. Un ristoratore sardo viene condannato all’ergastolo con l’accusa di aver massacrato sua moglie e la sua bambina.Dopo quasi venticinque anni un magistrato di sorveglianza, Claudio Marceddu, ritrova, in carcere, Gianvittorio Loriga un amico conosciuto negli anni ‘70, quando entrambi lavoravano per una radio della sinistra extraparlamentare. Perché è in carcere? È un politico? Un assassino? Un pentito? Il detenuto, durante gli incontri in carcere gli rivela che il 9 maggio 1978 il sardo condannato all’ergastolo, non ha ucciso le sue donne e vi è una prova che non è mai stata analizzata: l’assassino aveva una spider rossa. Così, dentro un gioco di ricordi, Claudio Marceddu nella veste di magistrato di sorveglianza si muove tra Sassari, Roma ed Alghero, alla ricerca di una verità che si intravede sotto strane coincidenze.
LinguaItaliano
Data di uscita22 mar 2014
ISBN9788875638320
Il giorno di Moro

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    Anteprima del libro

    Il giorno di Moro - Giampaolo Cassitta

    Prologo

    9 maggio 1978

    Roma, quartiere S. Paolo Basilica

    Interno sera

    Un’ombra furtiva si stacca dal muro:

    nel gioco di bimba si perde una donna.

    Un grido al mattino in mezzo alla strada,

    un uomo di pezza invoca il suo sarto

    con voce smarrita per sempre ripete

    io non volevo svegliarla così.

    Le orme, Gioco di bimba, 1972

    Lei indossava una sottile camicetta scollata, gialla, con i fiorellini blu e un frammento di piccola allegria che modellava il suo seno dolce e rotondo. Aveva poi un bel portamento, perché sapeva contrarre i muscoli della pancia e, inarcando la schiena all’indietro, appariva più alta e anche più bella.

    Sapeva sorridere Violetta. Lo aveva imparato da piccola. Il suo sorriso era rumoroso. Conquistava. E lui si era impadronito di quel suo sguardo magnetico.

    Lei parlava sempre a bassa voce. Difficilmente urlava.

    Con nessuno.

    Preferiva sorridere davanti ai territori di troppi discorsi.

    Lui si era avvicinato sussurrandole qualcosa. Qualcosa di dolce. Lei era stanca quel giorno. Molto stanca. C’era stato un litigio. Stupido, come sono i litigi tra una coppia che si conosce da tempo.

    Il marito si era infiammato e Violetta ne aveva sofferto.

    Le mani si avvicinavano e le parole erano scomparse. Il sorriso lentamente naufragava e il corpo tentava di sfuggire ad un abbraccio che adesso, in questo frangente, appariva sconosciuto, estraneo, nemico.

    Lui respirava sempre più forte, sussurrando qualcosa che Violetta cominciava a non capire.

    Lei lo respinse. Forte, fortissimo. Come non aveva mai respinto nessuno. Lui non cadde, barcollò e disse ancora qualcosa come facciamo la pace oppure mi piaci quando ti arrabbi, che sono cose sempre scontate in certe occasioni e che gli uomini usano come stupidi grimaldelli per ottenere la resa. Lui era una persona abbastanza scontata e dopo aver caracollato ed essersi spettinato ed essersi sentito inadatto – perché gli uomini, in queste situazioni riescono ad essere brutalmente goffi – decise di usare la forza, perché, ogni tanto l’energia ci vuole con certe donne e Violetta, secondo la sua bizzarra teoria, era una di queste. La prese stringendole le braccia in maniera cattiva, ruvida e, successivamente da dietro, trasportando velocemente la sua mano grossolana sulle cosce, cercando di salire e strappare, in qualche maniera, la mutandina.

    Fuggire.

    Era l’unica soluzione per Violetta, perché lui adesso respirava in maniera animalesca. Lei sentiva quel fiato pulsare dietro l’orecchio, annusava il respiro che sbatteva violentemente dentro le ciocche dei capelli. Erano attimi. Attimi infinitesimali che rimescolavano sensazioni. Ma non regalavano pensieri. L’unico modo per sottrarsi a quell’orrendo ansimare era usare l’istinto.

    Fuggire dunque.

    Si divincolò, anche se per un attimo, da quella dura presa. Arrivò ad afferrare con una mano la porta della camera da letto. Tentò di chiuderla velocemente, ma lui riuscì a spingere più energicamente. Era forte. Decisamente più forte. Sentì la bambina che urlava mamma, mamma, ma lei aveva solo occhi pietrificati che pulsavano ad intermittenza, che fotografavano rivoli di paura e non riusciva a cristallizzare nessuna parola, nessun piccolo pensiero in quel momento. Lui spingeva contro la porta, forte, sempre più forte, e insistendo ansimava, costruendo un respiro sempre più cavernoso. Spingeva, ma Violetta resisteva, tentava di resistere, doveva resistere ad una forza divenuta estranea, nemica. Spingeva con le mani sudate quella porta che, se si fosse chiusa, avrebbe potuto rappresentare non la soluzione ma un attimo, un attimo di pausa, un impercettibile e razionale istante per poter ricostruire la scena, rimettere insieme tutti i fotogrammi di un orrore che si era materializzato quasi per caso, non ricercato, non provocato, non voluto, non immaginato. Spingeva Violetta. Spingeva senza avere la forza per farlo, con occhi liquidi e compressi verso la chiave della serratura, la maniglia che sfuggiva, la bambina che continuava a urlare mamma, mamma. Spingeva Violetta, sempre più forte, ma sentiva che quel respiro si solidificava. Era sempre più vicino. Di poco, ma sempre più a contatto. E cadde. Violetta cadde. Si ritrovò per terra con la gonna che scopriva le sue ginocchia e le cosce bianche tanto che si intravedevano le mutandine. La bambina invece era dietro di lui, piccola, minuta e fragile. La bambina, occhi sgranati e lacrime dense, con le piccole mani afferrava la gamba destra dell’uomo, dandogli piccoli pugni ai polpacci. Lasciala, lasciala, cattivo, lasciala – piccoli pugni in successione – perché fai la bua alla mia mamma? – tentativo di stringere il cotone dei pantaloni neri – Mamma, mamma, ho paura, detto con estremo rispetto per l’attimo in cui tutto accadeva.

    Poi Violetta, dentro gli occhi che non focalizzavano, dentro un cuore che esplodeva sentì un urlo, un urlo secco che si fermò in mezzo alla stanza. O così almeno a lei parve. La bambina che veniva sbattuta con forza contro il muro, la testa che colpiva il termosifone; lentamente il viso si gonfiava e dalla bocca usciva un rivolo di sangue.

    Non si muoveva.

    Non si muoveva più.

    Violetta avrebbe voluto soffiare per fare uscire le parole, non urlare, lei non era abituata a farlo, ma almeno parlare, dire qualcosa, comunicare al mondo a qualcuno, a lui, a lui soprattutto, che quella era la sua bambina, sua, solo sua e di nessun altro, quel piccolo ammasso inerme era la sua dolce bambina, con la maglietta di un blu elettrico acquistata di tutta fretta in via dei Giubbonari, con quei pantaloni panna arrotolati sino alle caviglie e i capelli nerissimi ondulati raccolti dentro una treccina con il fiocchetto verde e rosso che adesso, non si vedeva più.

    Non riusciva a parlare, ma tentò di alzarsi e forse disse: Bastardo, l’hai ammazzata, tu sei pazzo, sei pazzo... la mia bambina... ma, probabilmente, in quel maledetto attimo non poteva dire niente, assolutamente niente e lui era lì che respirava sempre più forte, era lì con il coltello in mano era lì che aveva deciso di squarciarla. Violetta roteava vorticosamente le pupille. Gettava lo sguardo sulla bambina ferma, accovacciata sotto il termosifone, la camicetta blu elettrico che lentamente cambiava colore e si mischiava con un rosso cupo.

    Lui le aprì la camicetta con discreta forza, ma senza rompere i bottoni. Violetta si divincolava, lui le strappò, al centro, con la lama del coltello, il bianco reggiseno scoprendo lo splendore ed il candore di quel seno turgido, caldo, rotondo e pieno. Poteva palparla adesso, ma non lo fece. Difficile capire perché davanti a quello che voleva, che sperava, che aspettava, davanti ad un seno bianco, immacolato, che non si muoveva, decise di infilarci quel coltello. Difficile capirli gli uomini in quei momenti. Difficile capire chiunque navighi nelle cavità anguste della follia.

    Violetta stava per urlare, per la prima volta in vita sua avrebbe urlato, se non per volontà almeno per il dolore e lui se ne accorse. Le mise una mano in bocca e passò velocemente la lama sotto la trachea.

    Molto velocemente.

    Violetta adesso quasi non respirava e cominciava a zampillare. Si muoveva poco, pochissimo e lui decise ancora di violarla, di rubarle anche l’anima.

    Le abbassò le mutandine, infilò il coltello nel pube forse quattro volte, con violenza, con cattiveria.

    Lo ripulì strofinandolo meticolosamente sulle cosce bianche di Violetta, poi decise di continuare e colpì sul ventre e vicino al cuore.

    Violetta non c’era più.

    Nessun movimento.

    Lasciò il coltello infilato dentro il ventre. Andò in cucina e si lavò. Si guardò intorno e, ricomponendosi, bisbigliò solo a se stesso pochissime e inutili parole: Cristo, ma cosa è successo?.

    Uno

    Roma, 2 febbraio 2003

    Ministero della Giustizia, via Arenula

    Esterno ed interno giorno

    Signor censore che fai lezioni di morale

    tu che hai l’appalto per separare il bene e il male, sei tu che dici quello che si deve e non si deve dire...

    Edoardo Bennato, Signor censore, 1977

    La macchina si era appena fermata davanti al portone monumentale e due agenti si erano leggermente scostati per farla passare.

    Il procuratore Antonio Ghilarzu non era stato troppe volte al Ministero. Non amava i luoghi sacrali del potere, i piccoli grandi capi che si dovevano ossequiare in base al grado che ognuno, di volta in volta rivestiva, non amava le lungaggini protocollari, le piccole parafrasi, gli stolidi discorsi che era costretto, suo malgrado, ad ascoltare.

    Questo grigio luogo di potere scandagliava solo piccoli eventi che erano, per l’anziano magistrato, insignificanti.

    Si fermarono nel piazzale e subito si avvicinò un signore sulla quarantina, barba appena rasata e profumo che ricordava l’odore di incenso. Aprì velocemente la portiera e si stampò davanti con un sorriso che il procuratore Ghilarzu ritenne esclusivamente di circostanza e che non ebbe, da parte sua, nessuna risposta. L’ilare personaggio si scostò per facilitare la discesa dall’auto del procuratore che, dopo aver raccolto i quotidiani sparsi sul sedile, li sistemò dentro la sua borsa di pelle ormai logora di troppe battaglie, scrutò con una discreta diffidenza l’insulso cerimoniere e lo seguì in silenzio.

    Appena giunti nell’atrio del palazzo ministeriale, salirono le scale dal lato destro dove, da giovane, il procuratore Ghilarzu vi era già stato per sostenere gli orali del concorso di uditore giudiziario; si ricordò che, con il suo collega Santemi, si guardavano intorno quasi stupiti per la grandiosità del palazzo, del suo assoluto rigore. Quella volta erano stati veicolati al primo piano in una delle stanze dove ad attenderli c’era il presidente della Commissione: un magistrato che poi divenne presidente della Corte Costituzionale per qualche mese, come si conviene ai grandi giudici che sono vissuti intorno a questo palazzo e, difficilmente, riescono ad abbandonarlo.

    L’insignificante uomo accompagna Ghilarzu invece verso il terzo piano e, subito dopo le scale, lo invita ad attendere in un salotto di un verde opaco e liso, dove il procuratore preferisce non sedersi e dove appoggia solo la sua borsa sulla poltrona smorta.

    L’uomo scompare e Ghilarzu ne approfitta per accendere una sigaretta ed osservare, seppure in penombra, alcuni quadri che arredano questa sala d’attesa. Quadri che ripercorrono battaglie epocali, scene di caccia, guerre napoleoniche, tutte croste di fine ’700.

    Il ridicolo uomo ricompare sempre più viscido e fa cenno di seguirlo all’interno di un corridoio silenziosissimo dove scorrono altri quadri sempre di uguale fattezza e che nessuno sognerebbe mai di sistemare nel proprio salotto.

    Si avvicinano verso una porta di mogano, altissima, con le maniglie di ottone lucidate che l’accompagnatore insulso sfiora dolcemente e la apre senza che nessuno, dall’altra parte, abbia dato alcun ordine.

    Dottor Ghilarzu, che piacere conoscerla. Mi hanno parlato molto bene di lei sa?.

    Il signore distinto, dietro la scrivania è il dottor Saverio Lo Presti, il capo di Gabinetto e, anch’egli, ha un sorriso perfido mentre velocemente porge la mano. In questo luogo hanno tutti partecipato ad un corso di formazione su come prendere per il culo le persone pensa Ghilarzu, mentre gli stringe la mano in maniera decisa.

    Prego dottor Ghilarzu, si accomodi. Gradisce un caffè?.

    Non attende neppure la risposta o un cenno, che già il piccolo uomo è uscito dalla stanza per eseguire l’ordine.

    Allora, come va nella vostra isola? Quanto mi piacerebbe lavorare in Sardegna. Mare, sole, silenzio, tranquillità, non come a Roma, traffico, routine, sempre a rispondere al telefono, a dover spiegare, comprendere, suggerire. Sa, è un mestiere difficile.

    Immagino. Tutti i mestieri hanno le loro difficoltà.

    È vero. Come la capisco. Ma veniamo a noi. Io l’ho chiamata per una questione diciamo delicata, che riguarda il suo sostituto Marceddo.

    Marceddu, Claudio Marceddu.

    Ah, sì, Marceddu. Ha ragione. D’altronde tutti i cognomi sardi finiscono per ‘u’. Io, per esempio, ho un segretario che si chiama Urru, sardo. Un bravo ragazzo sa.

    Il mio segretario si chiama Piras e, oltre ad essere un bravo ragazzo è anche sardo, ma il suo cognome finisce con la ‘s’, come quello di mia madre Loiris.

    Lo Presti biforca lo sguardo e gli si stempera tutto il miele che aveva deciso di spalmare nella sua inutile introduzione e quasi vacilla, riprendendosi dopo qualche attimo.

    Piras, Urru, sardi insomma. Come Marceddu. Sardi e tosti. Che non ascoltano, non sanno apprezzare, hanno una visione un po’ anarchica della vita. Hanno... come dire… poco amore per le cose semplici, amano complicarsi la vita, devono ascoltare, rintuzzare, analizzare, con quel loro silenzio saccente, dall’alto, un silenzio che produce angoscia. Mescolano troppo le carte.

    Ha deciso per cancellare il sorriso di circostanza e tamburellando con le dita, nervosamente su quel tavolo enorme, senza fogli e senza pratiche, continua stizzosamente a giocare con le parole.

    La Sardegna. Terra antica. Bella, brulla, ma difficile. Voi potete permettervi alcune libertà, tanto siete lontano da queste stanze. Poi – tamburella con insistenza – poi le cose arrivano, arrivano anche dentro questo vecchio e stupido palazzo. Ci mettono del tempo ma arrivano e questo Marceddu... insomma... questo Marceddu è un problema.

    Giri di parole, retorica spicciola per colpire al cuore. Il giovane sostituto procuratore per il sontuoso capo di Gabinetto del Ministero della Giustizia non è un problema. È, ormai sicuramente, il problema.

    Marceddu ha sempre fatto il suo dovere. Io sono fiero di lui. È a volte brusco, ma questo non è un mestiere dove bisogna obbligatoriamente essere simpatici.

    Però aiuta.

    Non aiuta a trovare la verità.

    La verità. Marceddu è il grande difensore di questa strabiliante e smisurata parola. Tutti voi siete paladini di questa nefandezza giuridica. Non esiste la verità e lei lo sa meglio di me.

    Esiste la giustizia.

    Guardi, non l’ho chiamata per disquisizioni filosofiche sul diritto, non ne ho la voglia né il tempo. Mi levi Marceddu dalle palle; gli dica di fare volontariamente una domanda di trasferimento, qualcosa insomma. Il ministro è alquanto preoccupato, quell’indagine che Marceddu segue con esagerata insistenza, è sinceramente fuori luogo. Rischia di sollevare un grosso polverone. Un’indagine troppo rischiosa per una piccola città di provincia. Può essere controproducente. Per la Procura e per la Giustizia. Io direi che un bel trasferimento in continente, come dite voi, può solo aiutarlo a crescere, trovare nuovi stimoli. Può scegliere qualsiasi Procura.

    Marceddu non vuole abbandonare la Sardegna ed intende restarci. Perché non chiede il trasferimento d’ufficio al CSM?

    Senta, io sono stanco e le ripeto, non ho voglia di continuare a discutere. Il problema è suo: convinca Marceddu a lasciare. Noi siamo disposti a....

    Lui non sarà disposto.

    Lo sarà. Dovrà esserlo. Se proprio vuole restare nella sua isola ecco, c’è un posto libero come magistrato di sorveglianza.

    È un posto che non fa per lui.

    È un posto come un altro. I magistrati sanno ricoprire qualsiasi ruolo quando vogliono e, in molti casi, anche quando non vogliono. Non è possibile continuare in questo modo. Lei capisce.

    No. Non capisco.

    Capirà.

    Fine della discussione. Il capo di Gabinetto con il suo vestito blu ministeriale ha finito di fracassarsi le dita tamburellandole nervosamente sul tavolo terribilmente liso e porge la mano per un saluto obliquo, senza possibilità di risposta. Lentamente, con una lentezza cattiva, Ghilarzu risponde al saluto e, in un silenzio livido, senza sguardi che si incrociano, si avvia verso l’uscita.

    Ci vorrebbe un altro sguardo più attento visto che il dottor. Ghilarzu rimetterà piede dentro questo palazzo tra altri vent’anni.

    Forse.

    Ma non ne sente nessuna necessità.

    Due

    Sassari, 3 febbraio 2003

    Tribunale

    Interno giorno

    Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia, non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia.

    Claudio Lolli, Borghesia, 1972

    Stava rimestando le ultime scartoffie quando varcai la soglia. Aveva lo sguardo nitido ed asciutto, dentro i suoi occhiali di tartaruga. Chiusi flebilmente la porta e mi adagiai sulla poltrona verde anticato con molta leggerezza, accavallando le gambe e nascondendomi quasi dentro il mio cappotto blu.

    Questo era il mio momento. Da sempre approfittavo dell’attimo dedicato alla firma per parlare con il procuratore. I tempi erano sempre stretti, strettissimi e nei piccoli anfratti che si incasellavano dentro le brevissime pause, riuscivo a condensare tutte le mie domande, le mie perplessità, sullo sviluppo delle indagini e attendevo le sue lente e forti risposte.

    Da sempre.

    "Procuratore, dobbiamo decidere per quelle intercettazioni. Il tenente Fazzi insiste, abbiamo scoperto un passaggio fondamentale, ecco, come sottolinea Fazzi, f o n d a m e n t a l e, perché nessuno lo immagina, nessuno se lo aspetta. È il tempo di agire. Oggi, domani. Meglio stanotte".

    Claudio, devo parlarti rispose secco il dottor Ghilarzu, levandosi i piccoli occhiali da presbite che gli costruivano un’aria senza dubbio serafica, ma troppo professionale. Spostò il grosso macigno di carte sulla destra del tavolo, abbassò lo sguardo quasi a controllare il nodo della cravatta sempre perfetto, ripose gli occhiali nella custodia che teneva sempre vicino alla foto del suo splendido nipotino biondo e continuò:

    Ero a Roma ieri.

    Questo lo so.

    Sai anche con chi ho parlato?.

    L’Ippopotamo.

    Non chiamarlo così. È un giudice, un giudice tra i più anziani, più preparati, non mi piace questo modo che usate voi giovani per denigrare tutto.

    Aveva un’aria severa il procuratore Ghilarzu, un’aria grave, di altri tempi. Figlio di un notaio di Tempio, aveva vissuto sempre dentro i libri di diritto fin da bambino e forse, da subito, aveva scelto questo mestiere. Un predestinato.

    Cosa avrebbe detto di tanto importante il dottor Lo Presti? chiesi abbastanza seccato.

    Abbiamo parlato della situazione generale della Procura. Sai, niente di grave. Però....

    Però....

    Cercò dentro la tasca il pacchetto di sigarette. Il medico gli aveva proibito di fumare ma lui, testardamente, continuava. Nei momenti dove si avvicinavano le decisioni, la sigaretta era il suo conforto.

    Però preferisce risolvere la tua questione senza l’intervento del CSM.

    In che senso?

    Lui sostiene che tu sei un magistrato attento, capace, perspicace, preparato, curioso. Ecco, curioso penso sia l’aggettivo più adatto.

    Continuo a non capire.

    Forse troppo curioso.

    Troppo per chi? Per lui?.

    Troppo.

    Troppo. Che significa troppo? Esiste per caso un marchingegno, un misuratore etico che possa soppesare la giustizia? Possiamo, per esempio, agire come nell’antico Egitto: usare un cuore e una piuma e adagiarle sulla bilancia? Devono avere entrambi lo stesso peso. Oppure si può costruire un computer sofisticato, bravo a misurare battiti e parole e sospiri e pensieri e verità – quale verità poi – e ficcarli dentro un gigantesco data base che si occupi di comparare i pensieri e le considerazioni e i fatti e la verità – occorre costruirla, in qualche maniera questa maledetta verità – con gli articoli del codice? Quale codice poi? Il nostro? Quello internazionale? Quello divino? O ci mettiamo a scrivere il codice dei codici che sia la summa del diritto, dalla comparsa dell’uomo sino ad oggi?

    Chi è l’Ippopotamo? Il depositario della bilancia? Il padrone del computer? Una sorta di Bill Gates dei codici mondiali? Una divinità moderna? Un luminare, un sofista, un esegeta del diritto costituzionale, amministrativo, penale, comparato, ecclesiastico, un profondo conoscitore dei meccanismi palesi e occulti, un cesellatore, un fine e profondo conoscitore dei commi, di tutti i commi dall’unità d’Italia ad oggi?

    Uno stronzo.

    Uno semplice stronzo. Ecco cos’è l’Ippopotamo.

    Non potevo urlare tutta questa rabbia repressa. Non al mio procuratore che attendeva le risposte e le leggeva, le sapeva leggere, ma continuava a fumare nervosamente, in silenzio.

    Cominciavo anche io ad essere decisamente nervoso. Osservavo con una certa circospezione il bellissimo schedario fine ‘800 che faceva mostra di sé dietro la scrivania del capo.

    Pensai, ma solo per un attimo, che quello schedario sontuoso, pesante, imponente, dettava i tempi dentro questo Palazzo. Decisi allora per un’arringa piuttosto banale, senza sovrapporre troppe considerazioni.

    I magistrati devono essere curiosi, devono avere attimi di creatività e dosarla nel rispetto delle leggi. Come la applichiamo questa benedetta legge? Aspettiamo che i fatti accadano, che qualcuno ce li racconti senza che costruiamo una nostra verità, senza una nostra indagine? È questo che l’Ippopotamo – scusa procuratore – il dottor Lo Presti – vuole da me?.

    Da te non vuole proprio niente di tutto questo. Ti vuole solo aiutare. Si rischia di finire al CSM e la commissione disciplinare può decidere per un tuo trasferimento, per incompatibilità ambientale.

    Ecco, incompatibilità ambientale. Finalmente qualcuno tira fuori la bellissima locuzione che funziona sempre, per qualsiasi giudice, per qualsiasi storia. Non sono io incompatibile con questo ambiente, ma il contrario. È l’ambiente corrotto, degradato, gonfio di loschi e poveri personaggi che adesso hanno paura, paura dei giudici, della legge, delle leggi che essi stesso hanno contribuito a scrivere....

    Sei superficiale e poi, ricordati, nessuno ha ancora emesso una condanna.

    Senti procuratore, se questi signori non sono d’accordo su come le loro leggi vengono applicate o, se non sono d’accordo sui giudici, possono sempre decidere di rivangare la ‘legittima suspicione’.

    Non dire fesserie.

    Vedrai, vedrai, assisteremo anche a questo.

    La classe politica è cresciuta caro Claudio.

    È solo diventata più sottile e la corruzione non si è fermata, ma si è, come dire, adeguata ai tempi. La politica, questo tipo di politica almeno, ha sicuramente contribuito a....

    Adesso basta!. Lo urlò quasi d’istinto, non perché fosse contro le mie argomentazioni, ma solo perché, secondo il suo canone etico, un magistrato parla solo attraverso le sentenze.

    Claudio, penso tu sia uno dei miei migliori collaboratori, ma non posso permettere che il tuo nome finisca davanti alla sezione disciplinare del CSM per un trasferimento che sicuramente sarà accettato e ratificato e che ti bloccherà in futuro. La sezione dovrà scegliere Claudio. Vedrai. Sceglierà per l’allontamento fuori dalla Sardegna.

    Incompatibilità ambientale.

    Incompatibilità ambientale.

    Quale può essere la difesa davanti ad un tribunale che ha già deciso una sentenza? Davanti ad un giudice che non ascolta, che non intende ricercare nessuna prova, un giudice che, nel suo magnifico e libero convincimento, ha emesso la sua condanna.

    Incompatibilità ambientale.

    Non significa niente.

    Un cazzo.

    O significa molto.

    C’è un senso meticoloso della giustizia.

    Tutto deve funzionare, tutto deve coincidere, l’importante è che non si sfiorino gli altarini del potere e di chi perde molto tempo ad addobbarli.

    Quale può essere la risposta? Loro, la maledetta risposta l’hanno trovata: incompatibilità ambientale.

    Potevo solo uscire, uscire violentemente da questa stanza senza neppure salutare. Il mio capo avrebbe paternamente capito.

    Lo feci, sbattendo violentemente la porta.

    Potevo gettarmi dentro qualche schifoso bar a rantolare insieme alla rabbia che ormai era montata, aveva bussato alla mia finestra che stava per sbattersi, procurando un forte rumore di vetri infranti; potevo, per esempio, ordinare un elenco di cose incompatibili con la Dea Giustizia o con il concetto balordo che IO avevo della giustizia, oppure potevo congegnare un’operazione mediatica, ammanettandomi davanti al tribunale con un sorriso serafico, da piccolo martire globalizzato, con ghigno indefinitamente beffardo, un po’ stronzo.

    Potevo chiedermi perché avessi scelto questo fottuto mestiere e perché non decidevo di cambiarlo, ma, soprattutto, perché continuassi a crederci; potevo piangere o scaraventare le mie mani dentro questo freddo che mi attanagliava perché il cappotto l’avevo dimenticato dal procuratore; potevo barattare la mia biografia di giudice di provincia con uno dei tanti pennivendoli che speravano così di imbrattare pagine del suo piccolo giornale; potevo attraversare in un attimo i metri che mi separavano dalla mia stanza e decidere di gettare tutti i fogli dell’inchiesta dalla finestra, aspettare che finissero sulla strada e fossero raccolti dal popolo sovrano.

    Potevo anche raggiungere un posto che si chiamasse arrivederci, ma non riuscivo, non avevo dentro nessuna goccia di niente, non ero più ubriaco di loro e, soprattutto, questa non era una dolce e maledetta canzone.

    Mi fermai, solo per un attimo, in mezzo ad una piazza d’Italia gialla e deserta e, sotto la faccia marmorea e sconsolata del Re Vittorio Emanuele II Re d’Italia per volontà di Dio e della Nazione – ma hanno mai mandato un fax, c’era un qualcosa firmato da Dio e dalla Nazione che autorizzasse a questo piccolo e rozzo principe di fregiarsi della loro volontà? – decisi che uno schifoso bar potesse essere, in questo momento, l’unica soluzione plausibile.

    Avevo freddo, un freddo che, probabilmente non aveva più senso, o ne aveva troppo.

    Avevo freddo dentro.

    Tre

    Quante gocce di rugiada intorno a me

    cerco il sole ma non c’è.

    Dorme ancora la campagna, forse no,

    è sveglia, mi guarda, non so.

    PFM, Impressioni di settembre, 1972

    Si presentò senza neppure bussare. Con una faccia disadorna. Neppure un filo di trucco, rossetto, fard, sorriso, qualcosa insomma che disegnasse una certa leggiadria.

    Niente.

    La guardai come si guarda un libro scartato perché il titolo non mi interessa, l’autore non mi piace e la copertina è insignificante, senz’anima.

    Portava degli occhiali di tartaruga piccoli e rettangolari che le disegnavano un volto da studentessa fuori corso e una gonna gioiosamente irriverente: troppi colori rispetto al bianco sgargiante della sua pelle. Una camicetta sagomata e succinta che amplificava tutto il piatto che aveva come contorno. Un reggiseno evidentemente vuoto ma sodo, gonfio soltanto di ovatta o materiale similare che amplificava il nulla che intendeva nascondere ma che ci teneva, con dovuta malizia e sapienza femminile, a mostrare.

    Poteva essere chiunque, la segretaria attenta e precisina, un avvocato che sognava una carriera da rampante, una che aveva semplicemente sbagliato ufficio e che, alla mia vista, si era come trattenuta. Un fermo immagine.

    Ma se era entrata qualcosa doveva pur volere: un’informazione, un consiglio, un invito o magari semplice curiosità femminile.

    Sono Pulvesu, la tua collega.

    Ecco, tra tutte le possibilità elencate mancava l’eventualità che potesse essere una mia collega.

    Giovane, vagamente acerba e probabilmente curiosa, molto curiosa.

    Marceddu, Claudio Marceddu, risposi guardandola obliqua e provando a costruire un sorriso che non fosse di circostanza.

    Non mi piacevano le persone che entravano senza bussare e non mi piacevano le colleghe troppo giovani e non mi piacevano quelle con gli occhiali da intellettuale e non mi piacevano quelle senza tette ma che tentavano di allargare le scollature e speravano che qualcuno le osservasse e lei era tutto questo ed era dannatamente interessante. Non solo intellettualmente.

    Angela, io mi chiamo Angela.

    Avrei voluto aggiungere come mia madre, mia zia, mia cugina, la mia amante, ma non conoscevo nessuno, finora, che si chiamasse Angela. La guardai in maniera meno distaccata la collega Angela.

    Portava dei bei capelli ondulati e neri, d’un corvino che faceva trasparire le sue chiare origini mediterranee e, all’accenno del sorriso, mi ero reso conto che aveva denti bianchissimi. Non fumava dunque.

    Ti andrebbe un caffè?.

    Io non bevo caffè, ma ti faccio compagnia.

    Non beveva caffè, non fumava, non si truccava, il prototipo della monaca di Monza. Un bell’inizio, non c’è che dire.

    Sposata? domanda idiota che mi serviva per confermare il mio teorema sulla suora.

    No, e tu?.

    No, neppure io. Però bevo, fumo e scopo avrei voluto aggiungere, ma non lo feci, riuscendo a produrre solo uno sguardo stronzo che lei, per fortuna, non riuscì a decifrare.

    Qui non c’è molto lavoro. Io mi trovo molto bene disse lei, sottolineando il molto bene e eliminando, fin da subito, il clima intimistico-creativo che avevo precedentemente tentato di costruire.

    Sono felice per te feci io, senza nessuna sottolineatura, mentre cercavo affannosamente dentro le tasche, i centesimi da gettare nella macchinetta del caffè.

    Mi hanno detto che tu lavoravi in Procura, con il dottor Ghilarzu continuò, ma la domanda poteva benissimo essere: Sei stato cacciato dalla Procura, è vero caro il dottor Marceddu?.

    Sì, mi ero stufato di fare il PM. Ero alla ricerca di nuove ed eccitanti avventure dissi io, ma la vera risposta era: E a te e a tutti i magistrati, avvocati, cancellieri, e a tua sorella, a tua madre, a tuo nipote, al tuo quartiere, alla città, a tutta questa gente cosa cazzo gliene frega? Io sono incompatibile, incompatibile con l’ambiente di via Roma, ma paradossalmente, molto compatibile con questo luogo che è dislocato a soli ottocento metri scarsi.

    Qui penso sia diverso disse lei e, a questo punto la risposta forse era sincera o forse era ruffiana, ma questo non dialogo cominciava ad innervosirmi, unito poi alla macchinetta che rifiutava tutti i centesimi che avevo a disposizione, rischiava di diventare una situazione esplosiva.

    Senti, dissi con un filo di disappunto questo strano attrezzo rifiuta le monete. Mi accompagni al bar?.

    Sì, certo. Ne approfitto per prendere un succo di frutta.

    Ace?.

    Sì, Ace.

    Ecco. Appunto. Non conoscevo nessuna che si chiamasse Angela ma conoscevo migliaia di donne che non bevono, non fumano, non scopano e, per darsi un tono da piccole saccenti, naturaliste, minimaliste, new age, stronze insomma, al bar ordinano sempre Ace che, per dire la verità, il nome a me ricorda più l’Ape Car di mio zio Armandino, che la marca di un succo di frutta.

    Tanto ci mettono le stesse schifezze dico.

    Dove? Dice lei.

    Dentro il succo

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