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Antichità - Il Vicino Oriente - Arti visive / Archeologia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 2
Antichità - Il Vicino Oriente - Arti visive / Archeologia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 2
Antichità - Il Vicino Oriente - Arti visive / Archeologia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 2
E-book300 pagine3 ore

Antichità - Il Vicino Oriente - Arti visive / Archeologia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 2

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Info su questo ebook

Un’arte monumentale e piena di mistero quella mediorientale, materica e altamente simbolica.

Un’arte che esprime verità di contorni ed eleganza nel dettaglio, capace di trasmettere un’idea particolare di bellezza e di grazia che non lascerà indifferente l’arte greca, come si nota dalle curiose analogie tra le metope del Partenone e i bassorilievi dei palazzi assiri.
Un’arte che nel sapiente uso dei volumi e dello spazio, delle asimmetrie e della cura del dettaglio riformulano il rapporto tra umano e divino, con al centro raggiante la figura del sovrano celebrata in tutte le sue declinazioni di grandezza: vicario del divino a cui tutto appartiene e condottiero di eserciti, ma anche re pastore dedito ai suoi sudditi e buon amministratore della giustizia.

Tra le pagine di questo ebook si potranno scoprire la Testa di Sargon, con la sua straordinaria espressività, la Stele di Naram-Sin, con il suo sapiente gioco di piani inclinati, la celebrativa Stele degli avvoltoi, i grandiosi cicli decorativi scolpiti a rilievo sulle pareti dei palazzi, dove messaggio testuale e messaggio iconografico si sostengono a vicenda. O ancora lasciarsi affascinare da un’architettura in continua tensione tra fedeltà ai modelli della tradizione e invenzione di formule planimetriche sempre nuove e di nuovi rapporti tra gli spazi, di cui sono esempi mirabili le ziqqurat, con le loro terrazze sovrapposte, raggiungibili con scalinate sulla cui sommità si staglia il santuario; la costruzione dell’Esagila, il tempio del dio Marduk, dove la ricchezza degli arredi diventa quasi un elemento strutturale; la Porta di Ishtar, con la suggestione del suo rivestimento di mattoni invetriati e decorati a rilievo a formare immagini di tori e di draghi.
Un’arte varia al suo interno e vivace che ci consegna intatta nel disegno, nella scultura e nell’architettura, la particolare visione del mondo di popoli tramontati che ancora ci parlano con la loro silente presenza.
LinguaItaliano
Data di uscita26 nov 2014
ISBN9788897514374
Antichità - Il Vicino Oriente - Arti visive / Archeologia: Storia della Civiltà Europea a cura di Umberto Eco - 2

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    Antichità - Il Vicino Oriente - Arti visive / Archeologia - Umberto Eco

    copertina

    Antichità - Il Vicino Oriente antico - Arti visive / Archeologia

    Storia della civiltà europea

    a cura di Umberto Eco

    Comitato scientifico

    Coordinatore: Umberto Eco

    Per l’Antichità

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Lucio Milano (Storia politica, economica e sociale – Vicino Oriente) Marco Bettalli (Storia politica, economica e sociale – Grecia e Roma); Maurizio Bettini (Letteratura, Mito e religione); Giuseppe Pucci (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Eva Cantarella (Diritto) Giovanni Manetti (Semiotica); Luca Marconi, Eleonora Rocconi (Musica)

    Coordinatori di sezione:

    Simone Beta (Letteratura greca); Donatella Puliga (Letteratura latina); Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche); Gilberto Corbellini, Valentina Gazzaniga (Medicina)

    Consulenze: Gabriella Pironti (Mito e religione – Grecia) Francesca Prescendi (Mito e religione – Roma)

    Medioevo

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Laura Barletta (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Valentino Pace (Arti visive); Pietro Corsi (Scienze e tecniche); Luca Marconi, Cecilia Panti (Musica); Ezio Raimondi, Marco Bazzocchi, Giuseppe Ledda (Letteratura)

    Coordinatori di sezione: Dario Ippolito (Storia politica, economica e sociale); Marcella Culatti (Arte Basso Medioevo e Quattrocento); Andrea Bernardoni, Giovanni Di Pasquale (Scienze e tecniche)

    Età moderna e contemporanea

    Umberto Eco, Riccardo Fedriga (Filosofia); Umberto Eco (Comunicazione); Laura Barletta, Vittorio Beonio Brocchieri (Storia politica, economica e sociale); Anna Ottani Cavina, Marcella Culatti (Arti visive); Roberto Leydi † , Luca Marconi, Lucio Spaziante (Musica); Pietro Corsi, Gilberto Corbellini, Antonio Clericuzio (Scienze e tecniche); Ezio Raimondi, Marco Antonio Bazzocchi, Gino Cervi (Letteratura e teatro); Marco de Marinis (Teatro – Novecento); Giovanna Grignaffini (Cinema - Novecento).

    © 2014 EM Publishers s.r.l, Milano

    STORIA DELLA CIVILTÀ EUROPEA

    a cura di Umberto Eco

    Antichità

    Il Vicino Oriente antico

    Arti visive / Archeologia

    logo editore

    La collana

    Un grande mosaico della Storia della civiltà europea, in 74 ebook firmati da 400 tra i più prestigiosi studiosi diretti da Umberto Eco. Un viaggio attraverso l’arte, la letteratura, i miti e le scienze che hanno forgiato la nostra identità: scegli tu il percorso, cominci dove vuoi tu, ti soffermi dove vuoi tu, cambi percorso quando vuoi tu, seguendo i tuoi interessi.

    ◼ Storia

    ◼ Scienze e tecniche

    ◼ Filosofia

    ◼ Mito e religione

    ◼ Arti visive

    ◼ Letteratura

    ◼ Musica

    Ogni ebook della collana tratta una specifica disciplina in un determinato periodo ed è quindi completo in se stesso.

    Ogni capitolo è in collegamento con la totalità dell’opera grazie a un gran numero di link che rimandano sia ad altri capitoli dello stesso ebook, sia a capitoli degli altri ebook della collana. Un insieme organico totalmente interdisciplinare, perché ogni storia è tutte le storie.

    Introduzione

    Introduzione alle arti visive del Vicino Oriente antico

    Lucio Milano

    L’anno di nascita dell’archeologia orientale

    Alla fine del 1841 un quarantenne di nazionalità francese e di orgini piemontesi arriva a Mosul, nell’odierno Iraq nord-orientale, dove il suo governo lo ha nominato console di quella città. Si chiama Paolo Emilio (Paul-Émile) Botta, ha inclinazioni per le scienze naturali e ha a lungo viaggiato tra le Americhe e la Cina, prima di approdare in Yemen per i suoi studi botanici, e poi in una delle maggiori città irakene dell’Impero ottomano, per la sua missione diplomatica. Nel gennaio del 1842 Botta, assai interessato alle antichità orientali, era già al lavoro sul tell di Kuyunjik (nelle vicinanze di Mosul) per una breve campagna di scavi. Il tell si presenta come molto promettente: non un modesto monticolo, come ve ne sono di innumerevoli in tutto il Vicino Oriente, dovunque si trovino insediamenti umani stratificati nel tempo, ma una collina che si estende per centinaia di ettari, da cui emergono tracce di antiche rovine. Egli resta però deluso nelle sue aspettative: si sposta l’anno successivo a Khorsabad, dove la fortuna gira a suo vantaggio: dagli scavi emerge infatti il palazzo reale del re assiro Sargon II, fatto costruire nella sua nuova capitale, con colossali statue di pietra, bassorilievi e sculture. È la data d’inizio dell’archeologia orientale ed è contemporaneamente l’inizio di quel rapporto intenso, contraddittorio e controverso che la cultura occidentale ha intessuto con l’arte del Vicino Oriente antico nell’arco – piuttosto breve, a ben pensare – di questi ultimi 150 anni. Poco dopo Paul-Émile Botta, il giovane inglese Austen Henry Layard, non ancora trentenne, inizia gli scavi a Nimrud e sulla collina di Kuyunjik (da lui correttamente identificata con l’antica Ninive nel 1848), riportando alla luce i palazzi di Assurnasirpal e di Sennacherib. I ritrovamenti sono di tale importanza da provocare nella madrepatria un’entusiasmo collettivo, nell’attesa che arrivino a Londra le monumentali statue di lamassu (tori alati) da lui scoperte e imbarcate assieme a centinaia di bassorilievi e di altri arredi lapidei per formare la più prestigiosa collezione di oggetti d’arte orientale in Europa. Mai – neppure con la riscoperta dell’antico Egitto a seguito delle campagne napoleoniche e con l’egittomania che ne era poi scaturita – si è manifestata una simile attenzione di massa per l’archeologia nel Vecchio Continente.

    Impressionante è soprattutto la rapidità, il ritmo e la mole delle pubblicazioni che rendono conto di queste acquisizioni, aprendo contemporaneamente la strada alla valutazione critica di questa produzione artistica. Nel 1848 Layard dà alle stampe due volumi sull’arte assira e tra il 1849 e il 1853 esce la sua monumentale opera su Ninive (Nineveh and its Remains, 1849), con un eccezionale apparato iconografico (The Monuments of Nineveh, 1849-1853), a cui faranno seguito altri volumi sulle antichità assire e babilonesi negli anni subito successivi. La scoperta della Biblioteca di Assurbanipal a Ninive e il contemporaneo sviluppo degli studi epigrafici sul cuneiforme, soprattutto per merito di Henry Rowlinson (colui che dà il maggior contributo alla decifrazione dell’iscrizione trilingue di Dario I a Bisotun, scritta in antico persiano, elamita e babilonese), faranno poi da volano alle attività archeologiche in Mesopotamia, richiamando nei decenni successivi anche le altre potenze dell’epoca, la Germania e gli Stati Uniti, ad un ruolo di primo piano nell’attività archeologica in Assiria e in Babilonia.

    Sono le monumentali sculture assire a imporre fin dagli inizi i parametri su cui misurare originalità, qualità e livello dell’arte vicino-orientale: un’arte che agli occhi di Henry Layard sembrava rozza e primitiva, ma che al tempo stesso esprimeva verità di contorni ed eleganza nel dettaglio, specie osservando il trattamento della figura umana, la pienezza di forme degli arti e della muscolatura, l’attenzione per i dettagli dell’ornamentazione e per il gusto delle rappresentazioni paesaggistiche e naturalistiche (uccelli, alberi, fiumi ecc.), che, pur convenzionali, esprimevano un’idea particolare di bellezza e di grazia. Appunto: un’idea di bellezza che non avrebbe potuto sottrarsi – secondo i canoni di una visione romantica e ottocentesca – al confronto potente, incalzante, quasi drammatico con l’arte greca, e in particolare con quei prodotti dell’arte greca, come le metope del Partenone, che ricordavano nel loro sviluppo narrativo aspetti presenti anche nei bassorilievi dei palazzi assiri. Queste metope, tra l’altro, al tempo di Layard, avevano avuto solo da qualche anno una definitiva ricollocazione al British Museum, a gloria non soltanto di Lord Elgin, che era riuscito a farcele arrivare, ma anche dello spirito dei tempi, che le elevava a emblematica rappresentazione dell’eredità classica.

    Il confronto con l’arte classica, non solo greca, ma anche romana, influisce a tal punto nella valutazione dell’arte assira che ancora negli anni Venti del secolo scorso non un dilettante, ma un esperto di arte orientale come Harry Reginald Hall (allora Keeper delle Western Asiatic Antiquities del Museo Britannico) giudica gli artisti assiri incapaci di qualità ritrattistiche nella rappresentazione dei soggetti. Commentando una scena di caccia su un bassorilievo nota il grande contrasto tra la vividezza con cui sono rappresentati il leone o la leonessa morente (la leonessa che, trafitta dalla freccia che ha ne trapassato la spina dorsale e paralizzato i suoi quarti posteriori, si trascina sul terreno e il leone ferito, che batte il suolo con la coda mostrando rabbia impotente) e gli esseri umani che sono solo bambole vestite di tutto punto, ai quali manca qualsiasi approssimazione fisiognomica, qualsiasi caratteristica individuale: con abbondanti capigliature e barbe arriciolate, hanno secondo lui tutti lo stesso aspetto, distinguendosi solo per la foggia degli elmi e dei vestiti.

    Mondo umano e mondo divino

    La ricerca di un Fidia assiro ha fatto il suo tempo. Anzi, se un elemento può esserci che illumina almeno in parte una valutazione dall’interno di quest’arte – non solo di quella assira, ma in generale di quella mesopotamica – è che manca costituzionalmente in questo mondo una paternità dell’opera artistica. Così come manca, salvo poche e significative eccezioni, l’attestazione di commissioni di opere d’arte, o una loro descrizione caratterizzante, sia che si tratti di statuaria, che di pittura, o anche di architettura. In un ambiente che non è quello mesopotamico, ma quello dell’antico Israele, abbiamo la descrizione letteraria (tanto dettagliata, quanto impossibile da ricostruire in pianta) del tempio attribuito a Salomone, che la moderna critica ritiene inattendibile sul piano storico e probabilmente ispirata a modelli architettonici non indigeni. Eppure sappiamo che per qualsiasi sovrano orientale la commissione di edifici che fossero dotati di una propria riconoscibilità, con particolari caratteristiche planimetriche o anche stilistiche non era, ai fini del proprio personale rapporto con una divinità o del proprio personale prestigio, un elemento secondario: al punto che ci sono sovrani (come Gudea, re di Lagash) che sono rappresentati nella statuaria mentre tengono tra le mani la pianta del tempio da dedicare alla divinità tutelare; o ve ne sono altri che descrivono minutamente da dove far affluire le materie prime per costruirli o per arredarli; o che addirittura danno conto nei loro testi storici o religiosi di tutto ciò che occorre fare in funzione di una costruzione: dirottare fiumi, spianare rilievi, preparare il terreno, eseguire dei rituali ecc. Ma l’opera in sé non è mai estensivamente raccontata come tale, non con dettagli significativi.

    Se ci chiediamo perché questo accada, una prima risposta è nel particolare rapporto che lega il mondo umano a quello divino, le azioni degli uomini a quelle degli dèi. Si tratta di un rapporto che è al tempo stesso estremamente personalizzato, ma poco o per nulla individualizzato. È così personalizzato che il sovrano sumerico è sulla terra vicario della divinità, a cui tutto appartiene. E quello assiro è rappresentato come puro esecutore della volontà del dio Assur, sotto il cui comando fedelmente si pone per portarne a termine i programmi. La persona del sovrano è dunque centrale in quanto incarna prerogative e aspettative divine; ma non altrettanto centrale è la sua individualità umana. La centralità riguarda il ruolo, la funzione di potere che egli esercita a vantaggio dei suoi sudditi: essa si esaurisce dunque in una emblematizzazione della figura regale, che è di volta in volta declinata e ideologicamente problematizzata a seconda delle circostanze in cui si manifesta il suo agire sociale. Il re è colui che porta sulla testa la gerla del dio per costruire il suo tempio o scavare il suo canale; è colui che unisce o intreccia le mani in segno di devozione per la divinità tutelare; è colui che presenta l’offerta, che guida l’esercito o che cattura i nemici, non per accondiscendere, ma per eseguire la volontà divina. Anche nel caso dei sovrani di Akkad, il primo caso di sovrani che assommano nella loro personalità doti di audacia e di eroismo, la novità nell’arte si esprime nell’uso dei volumi e dello spazio, nelle asimmetrie, nella cura del dettaglio (anche nel disegno di volti e ornamenti), che servono sostanzialmente a riformulare il rapporto tra umano e divino, ma non a trasferire il baricentro sull’agentività del singolo soggetto. È per questo che, sia la cosiddetta Testa di Sargon, con la sua straordinaria espressività, sia la Stele di Naram-Sin, con il suo sapiente gioco di piani inclinati, non sembrano alludere a virtù individuali, ma piuttosto esprimere la natura di un programma politico. C’è una sintonia, del resto, tra questo modo di intendere la realtà e quanto ci è trasmesso dalle fonti letterarie: basta pensare alla Lista dei re sumerici, che nell’elencare le sequenze dinastiche successive al diluvio, mette al centro della narrazione non i re – che costituiscono una monotona lista – ma le città nelle quali la regalità di volta in volta si trasferisce secondo il progetto divino.

    Un’arte programmatica

    Programma è parola chiave in tutta l’arte mesopotamica. Il programma prevale sull’individuo nell’arte celebrativa, a partire dal periodo protodinastico, con la Stele degli avvoltoi, che celebra la vittoria di un re di Lagash sul suo rivale di Umma, fino al periodo neoassiro, con i grandiosi cicli decorativi scolpiti a rilievo sulle pareti dei palazzi. Cambia naturalmente il messaggio, che moltiplica nei rilievi assiri la sua efficacia ideologica e di propaganda, ma è significativo che in entrambi i casi vi sia un testo (iscritto sopra, o accanto alle immagini) che fornisce la propria chiave interpretativa degli eventi rappresentati. Il testo scandisce il programma: le premesse della guerra, il suo svolgimento sorvegliato dal dio, la vittoria, la resa: messaggio testuale e messaggio iconografico si sostengono a vicenda.

    Ma non è solo l’arte di carattere intrinsecamente storico-celebrativo ad essere programmatica. L’idea di modellare, da parte di un sovrano o di una dinastia una propria visione della funzione della regalità e del rapporto con il divino si avverte in molti settori della produzione artistica che riflettono aspetti della religione e della ritualità, nell’elaborazione di specifici temi iconografici e di specifiche invenzioni stilistiche. Ancora una volta lo sviluppo dei temi, soprattutto di quelli narrativi, presenta maggiore innovatività e pregnanza rispetto alla realizzazione delle figure; e ancora una volta si possono apprezzare significativi cambiamenti di resa iconografica che intervengono con il passare del tempo. Nel famoso Vaso di Uruk (fine del IV millennio a.C.) la ritualità si esprime attraverso una successione di fasi che inquadrano – in tre registri paralleli – degli ovini al pascolo, una teoria di personaggi che recano offerte alimentari e infine una processione di statue e insegne di divinità, con alla testa il sovrano che incede verso una divinità femminile, probabilmente la dea Inanna. Il messaggio è multiplo e implica non solo il rapporto di devozione verso la divinità, che in termini spaziali assorbe quasi per intero la narrazione, ma anche la rilevanza della figura del sovrano, il cui spazio simbolico si materializza nelle proporzioni della sua figura, che è più grande delle altre. Rappresentazioni rituali di epoca paleobabilonese, come le troviamo per esempio su bacini lustrali, hanno carattere assai più statico, mostrano solo teorie di offerenti e mostrano un sensibile cambiamento nell’ideale di regalità, che gravita ora sul concetto del re pastore dedito ai suoi sudditi e buon amministratore della giustizia.

    Un altro esempio riguarda le scene di banchetto. Queste scene, che costituiscono un tema diffuso, sia nella glittica (cioè nelle rappresentazioni su sigilli cilindrici), sia negli intarsi e nelle placche a rilievo di epoca protodinastica, spostano solo apparentemente l’attenzione dal rapporto privilegiato tra sovrano e divinità verso quello, di carattere più secolare, tra sovrano e cortigiani, che bevono birra e ascoltano musica seduti alla sua presenza: perché il fuoco si concentra qui sulla proiezione sociale delle funzioni del sovrano, che amministra il Paese non solo in vece del dio, ma anche con il consenso dei suoi. D’altra parte non si potrebbe immaginare differenza più grande tra queste scene di banchetto e quelle rappresentate quasi 2000 anni dopo sui rilievi assiri, pur avendo le une e le altre il carattere di manifesto ideologico: nell’immagine di Assurbanipal sotto la pergola, che si trova nel palazzo di Ninive (640 a.C. ca.), il re è semidisteso sotto una pergola d’uva e solleva il suo calice di fronte alla regina, defilata, per festeggiare la vittoria sul re elamita Teumman; mentre alle loro spalle dei servitori li rinfrescano con flabelli, in assenza di cortigiani o funzionari. La figura del sovrano si staglia centrale e solitaria nel panorama di corte: è la figura di un imperatore ossessionato dalla sua incolumità, che guarda da lontano e dall’alto ad un mondo di scribi, cancellieri, sacerdoti e indovini che attendono quotidianamente a rituali e cerimonie da cui dipendono le sorti di battaglie e l’avvenire dell’impero. Non è un caso che nelle scene di caccia al leone, dove si celebra in modo ritualizzato l’eroismo del sovrano nell’avvenuta realizzazione di imprese terrene, lo stesso Assurbanipal, a differenza dei suoi predecessori, sia calato in uno scenario astratto, nel quale sono assenti riferimenti al paesaggio o a una progressione temporale degli eventi: è la massima espressione della distanza ideologica del re-eroe da ciò che lo circonda, che lo isola assieme alla sua preda (la quale a sua volta è il suo doppio, come sappiamo dalle fonti letterarie che identificano il re con il leone) e lo rende così ineguagliabile.

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