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L'ultimo figlio
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E-book386 pagine5 ore

L'ultimo figlio

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Info su questo ebook

Questo libro tratta dei primi quindici anni di vita dell’autore, anni lontano dalla famiglia.

In orfanotrofi gestiti da persone cattive presso i quali la madre, vedova e con altri figli, lo aveva collocato.

E alla fine a Firenze, a San Miniato, dove la bontà e la comprensione dei monaci gli ha fatto rifare pace con la vita.
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2020
ISBN9788831684149
L'ultimo figlio

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    Anteprima del libro

    L'ultimo figlio - Michele Coluccia

    cancellati.

    Capitolo primo

    Sono nato a Noha nel 1942, una piccola frazione di Galatina.

    Mio padre per amor di patria … partì volontario per la guerra in Russia quando avevo tre giorni. Le sue ultime notizie giunsero dal fronte del Don. Lasciava tre figli, due femmine e un maschio.

    Mia nonna aveva cercato di fare annullare la firma di volontario, ma il datore di lavoro, il barone Galluccio, l’unico che poteva avvallare tale richiesta, adducendo motivi di lavoro si rifiutò di intervenire per dei vecchi rancori di famiglia.

    Mia nonna lo maledissee la maledizione andò a segno, suo figlio morì calpestato dai cavalli imbizzarriti della carrozza.

    I primi giorni di scuola li ricordo poco, venivo accompagnato da mia sorella Tina, maggiore di sei anni, stretto alla sua mano e con la cartella di cartone pressato sotto il braccio,entravo in uno stanzone accecato dal sole e dal profumo acre di calce, che pungeva le narici.

    Della maestra ho un vago ricordo: una donna anziana vestita di scuro, con una camicetta bianca, aveva la voce mascolina che si alzava di tono quando mi sorprendeva con lo sguardo perso nel vuoto o di là della finestra. Guardavo i pini ergersi maestosi e superbi su di un paesaggio assolato e pietroso.

    La distrazione raggiungeva il massimo quando passava il capraio alla guida del gregge, rimanevo incantato dal suono della campana legata al collo del caprone,dall’abbaiare del cane che richiamava all’ordine le recalcitranti pecore in cerca di evasione.

    Noha è una frazione caratteristica con case piccole e bianche ad un solo piano edificate su terreno roccioso, l’aria è salubre, diversa daipaesi vicini che poggiano su terreno tufaceo. Il suo nome in dialetto è Nove e deriva dalle nove masserie esistenti prima del sorgere delnuovo centro abitato e ancora in essere.

    Il centro del paesesi stringe nell’abbraccio della chiesa di San Michele, suo patrono, ed è costruita in puro barocco leccese, ariosamente soleggiata da grandi finestroni a rosoni circolari che irradiano mille colori e da bambino li guardavo incantato dallamagia.

    Nel meriggio estivo, quando il sole regala il suo calore, la gente abbandona il selciato bollente e si rifugia sui gradini del grande sagrato in ombra per aver frescura, e vedi vecchi carrettieri che si addormentano con la coppola calata sugli occhi.

    La maggior parte dei suoi abitanti è legata da vincoli di parentela, grandi famiglie, come la mia, ricca soltanto dall’unione dei suoi figli, che con buone braccia hanno dissodato decine di ettari di terreno pietroso, econ l’aiuto della pioggia che ci ha donato il buon Dio ne hanno tratto ricchezze strappandola all’immobilismo della baronia terriera, gelosa conservatrice delle proprie centenarie prerogative.

    Il progresso della mia famiglia, che aveva avuto l’ardire di alzare il capo e strappare quelle terre al barone,suscitò gelosia e rancore,che mio padre pagò a caro prezzo.

    La vita nel piccolo paese scivolava via tranquilla e solitaria, i contadini all’alba andavano in campagna lasciandolo incustodito a se stesso, ed era la felicità dei bambini.

    Ci appostavamo agli angoli delle strade non ancora asfaltate, nell’attesa del passaggio dei carri, tirati dai cavalli massicci che trasportavano sui carri tufi rettangolari per la costruzione delle case.

    I carrettieri intenti a mangiare filoni di pane con acciuga e mortadella fingevano di non vederci dandoci modo di appenderci dietro ai carri per farci trasportare fuori dal paese.

    La nostra vivacitàera la paterna apprensione dei pochi vecchi rimasti a guardia di…non si sa di cosa visto che, mettendo insiemetutte le nostre ricchezze, potevamo permetterci ben poco:infatti

    passavano il tempo dietro la porta di casa seduti su sedie di paglia, fumando sigarette confezionate da loro, con il tabacco che scaltramente riuscivano a sottrarre allo Stato.

    Ci conoscevano uno per uno o da parentela lontana o per il San Giovanni. Il San Giovanni nel Salento è il vincolo che stringe il padrino della cresima o del battesimo, vincolo che dava il diritto di dare uno scappellotto.

    Stai attento, dicevano, perché cadi elo dico a tuo padre se non fai il bravo.

    Tutti mi conoscevano come il figlio De Lu Francia, nome dato a mio padre per la sua balbuzie che si accentuava quando si arrabbiava non facendo capire ciò che diceva, c’erano poi i Curulla, i Carcavecchia, i Cuccuiu, i Maiesi, i Torecaca , i Caricasole, gli Sparapane, i Sputacancolla.

    Quanto era difficile per noi evitare le botte per qualche marachella o per avere risposto male a quei silenziosi ma attenti uomini con la coppola.

    Nel 1949 non c’erano macchine nel piccolo paese, solo una nel paese vicino. Era una topolino nuova di zecca che calamitava l’attenzione di tutti, quando passava strombazzando, come per dire: sono qui, guardatemi! Proprio a causa di quella topolino inizio ad essere l’ultimo figlio.

    Il destino inizia il suo freddo decorso con la nascita di ognuno di noi, ci segue e controlla che i suoi dettami siano attuati, èil guardiano dell’imponderabile, non si intenerisce di nulla, non illudiamoci per i suoi baci sulle gote, dal scioglierci dal suo abbraccio spietatamente programmato, non gli frega di nulla, perché ha un mandato a lui affidato.

    Una sola macchina, l’avevo vista sollevare un nube di polvere e la giudicai ancora lontana quando mi staccai dal carro per attraversare la strada. Sentì solo il grido di mio cugino Gigetto, che come me si dondolava. Poi il buio…

    Al mio risveglio mi trovai tra le braccia di mia nonna Pina, che stringendomi al petto mi cullava piangendo.

    Non piangere nonna le dissi: Vedi, non mi sono fatto nulla

    I suoi baci e le sue lacrime che mi inumidivano le gote lenivano il bruciore delle scorticature aggravate dalla strada selciata.Mi sentivo protetto, quasi contento della disgrazia, perché stavo tra le sue braccia e mi stringevo al suo corpo dal vago profumo di tabacco appena colto.

    Mio padre partito come volontario, ma su costrizione dei potenti del luogo, non dava notizie, così dopo sette anni fu incluso tra i dispersi. Mia madre, ancora giovane, ventisette anni, e con tre figli da crescere, priva di ogni aiuto, si arrabattava tutto il giorno e,reprimendo il suo orgoglio, dovette piegarsi ai lavori più umili in cambio di pane secco e piselli che era proibito mangiare il Venerdì e li portava a casa dentro il mantile il grembiule in uso nel Salento.

    Non ricordo in quale giorno ci fosse il mercato, ma ricordo però molto bene le due bancarelle una del pesce e una dell’olio, naturalmente troppo cari per noi.

    La mamma per convincerci a mangiare il pane duro diceva che, mangiandolo, crescevano i denti d’oro, ma il profumo del pane appena sfornato …Come odiavo quei bambini che uscivano al mattino con quel tesoro croccante in mano.

    La fame mi ingigantiva la fantasia nello studiare giochi nuovi che mi davano modo di fare scambio tra la mia dura colazione e il pane odoroso unto d’olio.

    Troppo tardi si accorgevano che i conti non tornavano, ma ero già fuggito a gambe levate dietro Vico Neni dove abitavo, con la bocca piena e le urla delle mamme che mi inseguivano.

    Seguivano le botte di mia madre che non guardava dove colpiva, la sua era la missione quotidiana, però avevo mangiato…e poi il dolore sarebbe passato.

    La bancarella del pesce era il tormento settimanale, lo stomaco s’allargava come il pozzo di San Patrizio alla vista dei pesci che luccicavano tra pezzetti di ghiaccio, pareva che mi invitassero….come sarebbe bello, pensavo, se tornando a casa ne trovassi tre in padella o solo due… però molto grossi.

    Noha, al tempo di questa storia, era un vero posto di frontiera. I carrettieri, e lo erano quasi tutti, erano in guerra con gli uomini del mercato nero e perciò i regolamenti di conti, se non venivano e risolti sul nascere, non di rado venivano risolti da una silenziosa coltellata. Le forze dell’ordine erano rappresentate da una unica guardia che si rifugiava nel suo stanzino al solo sentore del parapiglia, oppure andava a nascondersi in campagna, pregando Dio di non essere chiamata ad intervenire. Ebbene non fu mai chiamata…la gente lo appellava: Vito senza paura.

    Guardavo con occhi imploranti gli zii con coppola e panciotti, loro potevano comprarli.

    Quei pesciolini erano troppo invitanti e facili da prendere per un bambino di sette anni e scivolavo sotto la bancarella tra lo sguardo divertito di zio Totòche, come tutti nel piccolo paese, ammirava la sveltezza.

    Lentamente dalla fessura della cassetta feci scivolare un pesciolino, non aspettai il secondo, ma corsi subito a casa tra il bravo della gente che si era gustata la scena e il battito di mani dello stesso pescivendolo. Mi sentii un eroe, pregustai la gioia di mia madre: finalmente, avrebbe detto, sei diventato un uomo. Queste illusioni sparirono subito appena vidi il viso di mia madre. Quante botte…mi legò al tavolo… Facevano male le mani incallite dal lavoro. Il mio viso andava arrossandosi e sulle gambe erano apparse delle bolle simili a scottature. Venne in casa zio Totò, mandato a chiamare da una vicina di casa compassionevole, venne pure il venditore, vecchio amico di mio padre, ma la furia di mia madre non si placò, quando le dissero di avermelo regalato.

    Non avevo pianto, avevo preso tutte le botte senza capirne il motivo, piansi, però tutte le mie lacrime quando mia madre mi disse: Michelino, tu fai morire.

    La vidi accasciarsi sulla sedia dell’unica stanza e piangere in silenzio scossa dai singhiozzi. No mamma non piangere, volevo dirle, non mi hai fatto male.

    Rivedo gli occhi stanchi e le spalle curve.. Mi rivedo correrle incontro e lei stringermi forte al seno, scordando le botte. Come mi sentivo felice tra le sue braccia.

    Capitolo secondo

    Il 7 Ottobre del 1949 era il primo giorno di scuola e tornando a casa percepii una strana sensazione. Sentivo che doveva succedere qualcosa o che fosse già accaduta. Vidi mia madre pensierosa e più dolce del solito, mia sorella Tina aveva gli occhi rossi e Rita, l’altra mia sorella,taciturna,stava accovacciata sullo sgabello nell’angolo dietro la porta.

    Michelino, disse mia madre accarezzandomi, domani zio Totò ti porterà a fare una gita, andrai sulla sua moto nuova, quella che ti piace tanto. L’unica moto del paese, enorme, dal colore rosso fuoco, il rombo del suo motore si sentiva per tutto il paese ed era facile vedere lo zio pulirla con il fazzoletto candido prima di salire.

    Adesso, continuò mia madre, vai con le tue sorelle a salutare parenti e amici.

    Nell’ innocenza dei sette anni non trovai nulla di strano. Credevo anche quando mi dicevano che per catturare i passerotti dovevo mettergli il sale sulla coda, infatti andavo sempre in giro con il sale in tasca.

    Il giorno dopo alle sette del mattino mi feci trovare pronto, non un bacio né un saluto da parte di mia madre e delle mie sorelle, una sola raccomandazione, mentre allungava furtivamente un fagotto a mio zio, che pensai fosse la colazione. Mi raccomando Michelino, fai il bravo, mi gridò mia madre, mentre la moto partì rombando. Ero felice e salutavo gli amici, senza capire il pianto di zia Donata che dalla terrazza mi salutava.

    Arrivammo ad Ortelle, un piccolo paese distante una ventina di chilometri e ci fermammo davanti a un grande palazzo con la scritta: orfanotrofio.

    Alle finestre c’erano, e ci sono tuttora, delle grate in ferro e un portone di legno massiccio rafforzato con chiodi. Lo zio bussò, ci aprirono ed entrammo.

    Un camerone buio con ai lati due panche.

    Aspetta qui Michelino, disse mio zio, passo a prenderti più tardi.

    Mi dette il fagotto e non tornò più. Sono passati molti anni, eppure quella frase mi rimbomba ancora oggi nel cervello.

    Una inquietudine mai provata, un sesto senso mi fece intuire che qualcosa non andava.

    Il mio cuore accelerò i battiti e cominciai ad intuire la verità:mio zio non sarebbe più ritornato a riprendermi?

    Il terrore mi prese quando dal nulla apparve una suora grande quanto un armadio e disse: Mi chiamo suor Germana, tu sei il nuovo bambino? Vieni con me che ti porto a giocare con gli altri bambini.

    Il suo modo di fare, unito dal tono malizioso della sua voce,la fecero assomigliare alla volpe quando convinceva il povero burattino Pinocchio a seguirla. Istintivamente rifiutai la mano tesa, era grossa come la fetta di pane dei bambini che invidiavo, indietreggiai verso il portone rimasto accostato con la speranza di… Non feci in tempo! Mi prese per un orecchio tanto forte che mi spuntarono le lacrime.

    Quella santa donna mi sollevò di peso e mi portò in un’altra stanza e senza neppure l’asciugamano al collo, in men che non si dica, mi trovai con il capo rasato a zero.

    Il tuo numero è il quarantaquattro disse.

    Era il 1949,avevo sette anni e tre mesi, giurai di ricordare quel giorno per tutta la vita. Sono passati tanti anni e ricordo giorni e minuti, chiudo gli occhi è rivedo i luoghi, rivivo i fatti, ricordo le persone con i nomi e i loro visi. L’orfanotrofio era gestito dalle suore di carità di San Vincenzo.

    Con il passare delle ore la speranza di veder tornare mio zio andava scemando, pensavo di essere stato abbandonato e rifiutato. Cosa può entrare nella testa di un bambino per fermare i mostri che la paura ingigantisce? E’ un bel dirgli che i mostri non esistono….lui li vede!

    Cominciai a scalciare chiamando mia madre e così arrivò la prima scarica di botte. Sante donne quelle suore! nate per essere madri?Hanno perso forse tale indole? Eppure avevano dedicato la loro vita all’amore Dio!

    Mi avevano gettato in mezzo agli altri, tutti più grandi e con la testa rapata. Come la pecora fugge dal tosatore dopo avergli donato il vello, mi allontanai dalla loro innocente crudeltà, rifugiandomi in un angolo del giardino. Mi deridevano perché piangevo con il capo poggiato sulle ginocchia, sentivo i sassolini colpirmi e i cori di scherno: Michelino è nato a Noha… Michelino è un delinquente… così è la nomea deimiei paesani. Il loro viaggiare di notte sui carri e la necessità all’occorrenza di difendere il carico aveva fatto di questi carrettieri uomini decisi nel pericolo.

    Chiuso nel mio angolo, sotto l’alto muro disseminato di vetri, tendevo l’orecchio nella speranza di sentire il rombo della moto rosso fuoco, nascosto dietro la siepe speravo di non essere visto. Speranza vana! Mi venne incontro suor Germana, con passo felpato e suadente disse: Io ti voglio bene e…prima mi hai costretto a farti del male, perché… non si danno calci alle suore che vogliono bene ai bambini.

    Vedevo l’alta figura come le ali nere di un corvo avvicinarsi sempre più minacciose, la paura mi fece tremare le gambe e cercai di appiattirmi contro la siepe.

    Sei un monello, vieni fuori, ha ragione tua madre, ma…vedrai che le suore ti faranno diventare mansueto come una pecorella dai, continuava ostinatamente, gli altri bambini aspettano te per mangiare, c’è un bel piatto di pasta asciutta con tanto formaggio sopra e…tese le braccia ed io come un passerotto cascai nella rete.

    Mi trascinò recalcitrante, storcendomi il polso, il dolore mi fece pungere gli occhi.

    Appena entrai in refettorio, con uno strattone mi liberai e mi misi a correre tra i tavoli, sommerso dal battito di mani dei più grandi che mi incitavano.Avevo sette anni, ero il numero quarantaquattro, ero appena arrivato, e grazie alla paura, con quel gesto ero risalito di parecchie posizioni in quel piccolo mondo. Il pranzo consisteva in un piatto di zinco dall’odore sgradevole, a metà pieno di pasta, e un pezzo di pane nero.

    Due suore inservienti davano il tutto sotto lo sguardo vigile e severo di suor Germana, che, con la canna di bambù bene in vista, controllava.

    Spinti dalla fame ci si spingeva l’un l’altro a scapito dei più piccoli che osservavano spauriti. mentre qualcuno piangeva chiamando la mamma. Allungai la mano per prendere la razione, quando… Tu no, Michelino ! Devi prima chiedere perdono al tuo angelo custode perché sei stato cattivo e lui piange. Disse suor Germana.

    Povero angelo custode… se potesse far sentire la sua voce tutte le volte che viene commessa una cattiveria, calpestata l’innocenza, svestirsi del puro spirito, cosa farebbe di questi esseri? Guardai con. terrore la canna vibrare e la paura accentuò lo stimolo di fare pipì che non riuscì a trattenere, la

    pozza si allargò e le risate dei più grandi aumentarono la mia confusione. Ero immobile, terrorizzato da quella donna mentre ,le lacrime mi solcavano il volto.

    Voglio la mia mamma, tu sei brutta, e quando ritorna mio zio a prendermi, ti picchia.

    Quanta speranza c’è in un bambino… Cercai di divincolarmi alla sua presa scalciando. Ma cosa poteva fare un bambino contro una donna che madre natura aveva dotato di forza mascolina? Sentii vibrare due volte la canna sul dorso della mano, la terza restò sospesa in aria. Era intervenuta l’inserviente a fermagli il braccio: No suora, così non si fa.

    Guardai il viso di suor Germana divenire rosso di collera, poi bianco e gli occhi farsi cattivi, strinse le labbra. Le ali nere della cuffia si erano spostate lasciando intravedere una ciocca di capelli neri. Prese per un braccio l’inserviente e la spinse fuori. Sentii le voci alterarsi, poi il rumore di un ceffone.

    L’assenza di quella donna scatenò il putiferio, a nulla valsero le raccomandazioni di suor Cecilia, che, con le lacrime agli occhi ci pregava di fare i bravi. Poi mi venne vicino e istintivamente mi coprì il viso.

    Michelino, ti ha fatto molto male?

    Non volevo rispondere, ma il tono era gentile e commosso, qualcosa mi suggerì di fidarmi." Si, mi ha fatto male, e poi…voglio tornare a casa mia. Voglio mia madre. Perché sono qui dentro?

    Dolcemente mi convinse a farle vedere le mani, erano rosse e si stavano gonfiando, accarezzandole dolcemente se le portò alle labbra. Mi disse parole dolci e alla sera mi accompagnò in dormitorio.

    Ordinati come soldatini entrammo in uno stanzone enorme, un finestrone divideva i due lati con trenta lettini. Ogni letto era numerato e portava il nome del benefattore bene in vista. In fondo, addossato al muro, un baldacchino di tela bianca, dove era celato il letto di suor Germana.

    Non riuscivo a mettere in ordine il lettino, guardavo scoraggiato la coperta scivolare da ogni lato, meno quello giusto, non avevo finito che lo stanzone si rabbuiò.

    La puzza di pipìdei pantaloncini umidimi dava il voltastomaco. Guardavo con terrore l’ombra che il lumicino ad olio sotto il quadro di San Vincenzo creava. Con la coperta tirata sul naso, vedevo un gigante con le braccia smisurate venirmi incontro facendo gesti minacciosi.

    Lamenti simili a singhiozzi giungevano dal letto vicino al mio, Renato, anche lui orfano e mio paesano, giunto alcuni giorni prima, piangeva chiamando la madre. Non piangere,domani le nostre mamme ci verranno a prendere gli dissi.

    Con gli occhi sbarrati e la mano sulla bocca per soffocare il pianto, pensavo e vedevo casa mia. Le mie sorelle dormire tranquille accanto a mia madre nell’unico letto.Il soffoco represso mi faceva dolere al petto. Orfanotrofio,orfanotrofio…. La parola mi martellava dentro sgretolandomi, non ne conoscevo il significato. Vuol dire che gli altri bambini hanno il papà. Ecco perché sei qui mi spiegò in seguito suor Germana.

    Non avevo mai pensato a mio padre se non di sfuggita e fu la prima volta che cercai di dargli un volto. Lo immaginai alto e forte e con il suo pensiero scivolai nel sonno.

    A me mancava tutto meno che la fame. Lo stomaco,come il pozzo di San Patrizio, era senza fondo.

    Un problema di non facile soluzione a quei tempi e per quelle famiglie prive di entrate.

    Mia madre era in attesa della pensione di guerra e don Lisandro, il padrone della bottega,non faceva più credito, perciò mia madre era senza aiuto. C’erano poi famiglie numerose, però riuscivano a mangiare fagioli e piselli ben conditi con olio d’ oliva profumato; noi, invece insalata di pomodoro con acqua e qualche goccia di olio. Il piatto era in comune e ci si inzuppava il pane duro… con la speranza di vedere crescere…i denti d’oro.

    Con il pane ero il più svelto a catturare le poche gocce, sotto lo sguardo benevolo di mia sorella Tina

    Mia madre non aveva chiesto nulla ai miei zii e loro non si erano mai fatti avanti.

    Il giorno dopo mi svegliai con una fame da lupo, l’ordine ci venne dato alle sei. Iniziava il secondo giorno di orfanotrofio e il primo giorno di scuola, tra il pianto dei più piccoli che non erano capaci di vestirsi e le spinte dei più grandi che correvano a lavarsi, per essere i primi a colazione.

    Il gruppo era guidato non dalle suore che ci prendevano in consegna all’entrata, bensì dai dodicenni che, consci dell’importanza, si comportavano da despoti in erba. Erano loro a stabilire, secondo criteri che più tardi capii, l’ordine è l’allineamento del gregge.

    I primi della fila erano loro, via via sfilavano i più piccoli inciampando, l’uno sull’altro.

    Dal refettorio arrivava il gradevole aroma del bianco alimento. Mia madre lo dava alle mie sorelle solo quando non stavano bene. Ricordo che faceva sostare il capraio, che poi riempiva la tazza di zinco direttamente dalla fonte.

    Io sfortunatamente stavo sempre bene, avevo una salute di ferro che allargava il cuore e…lo stomaco.

    I due tavoli del refettorio erano preparati con tazze di rame ben allineate e colme di latte in polvere, con un pezzo di pane.

    Movimenti strani attrassero la mia attenzione: i più grandi facevano finta di inciampare e sveltamente facevano sparire nella camicia la fetta di pane dei più piccoli.

    Sicuri di restare impuniti sbeffeggiavano i derubati non in grado d’imporsi a queste innocenti tirannie, a loro volta subite anni prima.

    L’inserviente guardava senza vedere.

    La fame oltre l’ingegno aguzza la sensibilità, anche il mio pezzo di pane era volato… Non mi sognai di protestare.

    La vita in orfanotrofio era difficile eravamo nel 1949 e la vita delle persone nel Salento composto da piccoli paesi prettamente agricoli e schiavi dei baroni terrieri, era al limite della sopravvivenza:stremati dalle angherie, non forniti di mezzi se non delle sole braccia, con il cinquanta per cento del prodotto razziato dai loro massari (fattori di cui i baroni si fidavano ciecamente) che simili a corvi si calavano a rubare fatiche, stipando le loro masserie come forzieri.

    Nei piccoli paesi non c’erano macellerie. Ricordo di aver mangiato carne per la prima volta a undici anni grazie a un cavallo morto d’infarto. Mia madre nel cucinarla nell’unico modo che sapeva, la dimenticò sul fuoco.

    L’orfanotrofio si trovava ad Ortelle, un paese dell’entroterra leccese, composto da un centinaio di famiglie:il benefattore dell’orfanotrofio aveva donato i soldi per la sua costruzione in punto di morte, non preoccupandosi del mantenimento futuro.

    Questaera la beneficenzache facevanoi ricchi, dopo avere affamato i contadini, speculando sull’ignoranza e servilismo, per far tacere laloro coscienza prima di presentarsi davanti al buon Dio, cercavanocosì la via più breve per andare in paradiso.

    Chiaramente l’orfanotrofio per mantenersi doveva affidarsi alla cura e al cuore generoso della gente, per questo non potevo chiedere un’altra fetta di pane: il pane era finito!

    La fame era tanta, guardavo con cupidigia i bambini sfuggiti alla razzia divorare con paura la fetta di pane. Osservai il bambino accanto a me, era piccolo, con le braccia magre dove le giunture facevano bella mostra, gli occhi spauriti sul viso affilato, lo giudicai l’elemento giusto. Un attimo di disattenzione, uno scatto fulmineo e metà della sua fetta di pane era sparita nella mia bocca.

    Mi guardò sorpreso, io lo guardai trucemente mostrandogli il pugno.

    Non si difese, non disse nulla, ma tremando aprì la mano offrendomi l’altra metà, poi piegò il capo sul tavolo singhiozzando.

    Aveva sette anni, con il torto di essere più magro e piccolo di me.

    Dopo tanti anni rivedo quel bimbo e la sua mano aprirsi in segno di resa, gli occhi grandi sul viso scarno e riodo il pianto sconsolato, mentre tra i singhiozzi chiama la nonna, era più solo di me, si chiamava Giacinto Dabbene.

    Tutte le volte che rammento quel viso, mi rimprovero e maledico chi crede utili e educativi gli orfanotrofi.

    La scuola elementare di Ortelle non era finita del tutto.

    Nell’ampio piazzale antistante ingombro di tufo giungemmo in fila per due, tutti con il capo rasato e disinfettato con il ddt, tra le risa di scherno dei ragazzi esterni che si tappavano il naso.

    Ecco, se non fate i bravi, vi portano con loro dicevano le loro madri.

    Entrai nell’aula umida, bianca di calce, dove dai finestroni il sole abbagliava.

    Il mio banco sotto il finestrone mi distrasse, guardavo il paesaggio con la speranza di un qualcosa che lo accomunasse al mio paese, fissavo la strada bianca e polverosa quasi deserta perdersi all’orizzonte.

    Piccoli paesi quanto il pugno della mano disseminati a poca distanza l’uno dall’altro.

    Il pensiero che in quella direzione c’era il mio paese, casa mia, mi faceva stare male, con gli occhi del cuore lirividi.: Vico Nenni dove sono nato, i bambini scorrazzare felici nella piazza, vidi mia madre dritta sulla porta di casa che mi aspettava… mentre mi sgorgavanolacrime sul viso.

    Coluccia, sei appena entrato e già piangi? Era la voce della mia maestra, che avvicinandosi mi fece una carezza, poi ritornò alla cattedra scuotendo il capo,mormorando qualcosa.

    Capitolo terzo

    Ricordate il primo giorno di scuola,quanto erano belli i bambini, soprattutto le bambine, tuttecon il grembiule bianco e con quanta tenerezza le mamme le accompagnavano e come si preoccupavano che il fiocco fosse sfavillante.

    Era un piacere vederle entrare, sentirle cicalare tenendosi stretto il panierino della colazione, erano simili a bomboniere.

    A scuola si restava in piedi, dritti come soldatini per cantare l’inno di Mameli sotto la guida della maestra che batteva il tempo, non capivo le parole, però sentivo nel cuore una strana emozione, come se fossi diventato grande in una volta sola.

    Un solo quaderno a quadretti con penna e calamaio fisso sul banco facendo attenzione anon sporcare il foglio immacolato, le aste non sempre riuscivano dritte, il più delle volte sembravano uncini.

    Il bravo della maestra,al termine del primo giorno, mi riempì di orgoglio.

    Vidi il suo sguardo seguirmi, quando, incolonnandoci per due, le suore ci riportarono in orfanotrofio.

    Era stato il primo giorno di scuola e il sorriso della maestra il primo sorriso ricevuto.

    Mi allontanai da leicon un senso di vuoto allo stomaco; maestra, che tanto peso avrebbe avuto in seguito.

    L’essere orfano è una condizione che portiamo dentro per sempre nel cuore e negli occhi tristi.

    La permanenza nell’orfanotrofio influirà nella formazione del carattere, sulla sensibilità quasi femminea o in atavismo patologico.

    Mi facevano rabbia gli sguardi compassionevoli della gente quando passavamo, quale gusto provavano ad osservare le disgrazie altrui?

    Lentamente cominciarono a scorrere i giorni, sempre uguali, sempre sul chi va là, lottando per la solita fetta di pane.

    In quei luoghi vige la legge, consentita, del più forte e del più furbo e chi, per caratteristiche naturali non è un lupo, o lo diventa per non soccombere o deve diventare volpe.

    Parranno cose inverosimili, ma chi ha soggiornato in quei luoghi e in quel periodo post bellico, può darne conferma.

    Non toglierò né aggiungerò neppure una virgola alle situazioni ed ai fatti.

    L’unica differenza nell’orfanotrofio era il giorno festivo: la fetta di pane era croccante.

    Il pranzo consisteva in una ciotola di pasta senza formaggio a cui veniva aggiuntoun formaggino detto della guerra, perché lasciati dagli americani.

    Le proibizioni non rispettate venivano punite con severità.

    La proibizione era il non poter uscire in giardino dalle tredici alle quattordici e dalle diciotto alle diciannove, era vietare la torta a un bambino dopo avergliela fatta vedere.

    Spinto dal carattere, desideroso di fare qualcosa per salire la scala gerarchica di quella repubblica delle banane, nonché attratto dal profumo, decisi di trasgredire e convinsi il piccolo Giacinto a seguirmi.

    Quatti quatti, e seguiti dallo sguardo del capo branco, lasciammo il refettorio, attraversammo la siepe di rosmarino e spingendo Giacinto che non ne voleva sapere, guardai attraverso il vetro di una finestra, meraviglia ! Pane in abbondanza sul tavolo, maccheroni con tanto formaggio e diverse zuppiere chiuse, mi leccai le labbra mentre Giacinto era rimasto con la bocca aperta, era il refettorio delle monache.

    Passarono pochi minuti, mi sentì afferrare da braccia vigorose e sollevare come un fuscello e prima di toccare terra sentì il primo schiaffo. Ci presero e trascinandoci per le orecchie ci riportarono al

    centro del refettorio, tra due ali di ragazzi che muti dovevano guardare. Ci abbassarono i pantaloncini e…le bacchettate cominciarono a piovere sul culo e sulle gambe,

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