Il mio fu un dio operaio
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Qui l’autore, insieme al resoconto della propria esistenza, traccia il percorso di un’esperienza religiosa, che parte dall’educazione convenzionale, prosegue con una fase di ateismo e la perdita di fiducia verso ogni idea di Trascendenza. Ma improvvisamente appaiono quelle esperienze numinose di cui aveva parlato Jung e rimettono tutto in discussione. Non si tratta più di avere una fede, ossia credere in qualcosa stabilito da una teologia. L’esperienza religiosa è vissuta adesso con il corpo (la più indubitabile delle nostre realtà). Si trova un senso all’esistenza. Gli orizzonti si ampliano. Si passa dal male al bene …
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Anteprima del libro
Il mio fu un dio operaio - Luciano Jolly
Luciano Jolly
Il mio fu un Dio operaio
Abel Books
Proprietà letteraria riservata
© 2013 Abel Books
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Le richieste per l’utilizzo della presente opera o di parte di essa in un contesto che non sia la lettura privata devono essere inviate a:
Abel Books
via Terme di Traiano, 25
00053 Civitavecchia (Roma)
ISBN 9788867520756
Indice
Un Dio scalzo
Presente e futuro
Tempo di arresti
Odori e sapori
Zii e maiali
La guerra di un ragazzo
La leggenda del santo bevitore
Il Padre celeste è licenziato
Frigidità sociale
Ascesa, caduta e lotta
Don Milani si laicizza
Nel paese delle meraviglie
Un terremoto nel cuore
Douce France
Vuoto e confusione
Si prepara il futuro
Amore e quasi morte
Verso la conclusione
Un Dio scalzo
Com’è diverso il Dio noto del borghese, rispetto a quello che si nasconde al proletario! Il primo è chiaro ed evidente come un pensiero di Cartesio. La sua gloria piove luminosa sulle navate delle sue chiese, sugli affari, sulle gemme degli alberi padronali e accende il mondo di una luce sempre vivida. Il secondo è un dio celato. Un bambino lo immagina di colore grigio come i nembi frastagliati che, certe sere, gettano ombre di piombo sul mondo: si sa che esiste (è un dio cattolico) ma trovare un luogo in cui si può parlare con lui è improbabile. Il suo è un cielo distante. Il dio borghese regala ai suoi adepti espansione, possibilità, soddisfazione: instilla nel loro sangue un orgoglio divino. Il secondo sembra suggerire ai bambini che bisogna arrangiarsi.
Il mio fu un Dio operaio. Era un dio scalzo, uno di quelli che si trovano a loro agio nelle stamberghe – nelle mangiatoie – nelle case con le piastrelle azzurre in cucina, ma allora non lo sapevo. In fondo mi portava fortuna, perché dietro il muro di cinta della salita arrancavano bambini più poveri di me. Erano gli anni ’30 del secolo scorso. Le primavere portavano anche a me cieli trasparenti e nell’orto delle suore francescane fiorivano, già a febbraio – candidi come nevicate improvvise – i mandorli conventuali.
Dentro la baracca di legno sconnesso, viveva con la famiglia il figlio dello spazzino austriaco. Suo padre era un prigioniero della prima guerra mondiale, quindi un perdente; si era fermato, appena tollerato, a scopare le strade di Genova. Dicevano che per fame mangiassero la cera delle candele e il bambino, dicevano, era talmente affamato che succhiava talvolta il muco che gli scendeva dal naso; io immaginavo che quella cosa morbida avesse un gusto salato. In quella famiglia non si sentiva mai gridare. Erano una specie di tappezzeria sbiadita sulle pareti del quartiere. Il loro bambino non partecipava ai nostri giochi di strada. Si nascondeva nella baracca e un giorno mi capitò di vederlo: lo ricordo bruno di sporcizia, con la canottiera lacerata ed era più vergognoso di me.
Mia madre mi aveva cucito un vestitino di velluto marrone. Portavo una frangetta castana e il vestito si accordava con il colore nocciola degli occhi e dei capelli. Ero fiero del mio aspetto ma imparai presto che Dio si sdoppiava in alcune categorie: c’erano i figli degli impiegati impettiti, la figlia di un dottore e poi c’ero io.
Mia madre era una stiratrice, mio padre un tintore che colorava i vestiti degli altri, ma rendeva grigia la nostra vita familiare. Entrambi avevano a che fare con gli abiti. Mio padre li tingeva, mia madre li stirava: era forse l’unico punto che avevano in comune. Si erano sposati in Francia nell’aprile del 1925, lo stesso anno in cui Mussolini aboliva le libertà in Italia. Poi erano rientrati. Mi avevano generato e adesso io ero lì, pronto a fare il mio salto nel mondo, senza conoscerne nulla.
Che non ero l’ultima ruota del carro lo sapevo. La mamma regalava i miei abiti smessi – calzoncini di panno e camicette ricamate a mano, rese pallide dall’uso – al bambino dello spazzino austriaco. Un giorno prendemmo la mia cartella di cuoio già consunta e la portammo nella baracca. Le assi erano sconnesse e d’inverno la tramontana doveva passarci attraverso. Anche il bambino aveva una mamma, ma la sua era più sporca della mia. Ricordo il colore grigio asciutto delle assi, i nodi nel legno, le linee sghembe delle pareti con le finestre piccole. Non dissero niente. Presero la cartella con un gesto che adesso potrei definire di rassegnazione. Nessuna voce. Nessuno sguardo. Uscii dall’orto delle suore col sentimento superiore che viene dal compiere le buone azioni.
La prima volta che sentii Dio allontanarsi fu sul letto di mia madre. Io avevo allora ventidue mesi e la mamma mi aveva allattato fino a quel momento. Eravamo entrambi seduti sulla sponda, uno vicino all’altra. Una luce rosea ed intima entrava dalla finestra primaverile, illuminava le mammelle della mia benefattrice. Non ricordo le parole che lei disse. Non ho però dimenticato il loro tono grave e irrevocabile, che suonò come un dolce sparo od un rimprovero: da quel momento perdevo il diritto al paradiso del seno.
A quell’età la mamma è il Dio. Lo sentii allontanarsi da me frusciando con quella ferma pacatezza. Tutto era compiuto, e la mia cacciata dall’Eden fu definitiva. Ogni mancanza della mia vita: di pace, di soldi, di completezza, di possibilità, deriva da quella prima carestia. Divenni adulto di colpo a ventidue mesi. Dio era tenero, mi teneva ancora compagnia incoraggiandomi a mangiare col cucchiaio. Il cibo era succulento. I semolini, e più tardi le patate fritte con la salsiccia, erano i surrogati più ambiti. Ma il gusto del seno, quella bellezza piena di grazia, quella rotondità e quella confidenza erano perduti per sempre. Tutta la mia vita di bambino-adulto fu un tentativo di recuperarli. Scoprii che il sentimento della nostalgia è la nostalgia di un paradiso perduto.
In cucina avevamo una stufa di ghisa scura. Conteneva la vaschetta di rame per l’acqua calda ed era l’unica fonte di calore in tutto l’appartamento: un bagno, una stanza da pranzo con la tovaglia di velluto sul tavolo (spessa e dai disegni elaborati), in cui non mangiavamo mai. L’abitazione finiva con la stanza dei miei genitori. Io passavo la notte in un lettino con le ringhiere celesti accanto al letto più grande. In una famiglia operaia si va a dormire molto presto: non c’è molto da dire, bisogna risparmiare la luce e al mattino i doveri incominciano subito.
L’appartamento dava sulla salita del Monte. Era una di quelle salite genovesi con bassi scalini su un lato e la mattonata nel centro. Il resto era erba, e attaccata al muro di cinta – uno di quegli alti muraglioni di cui parla Montale, con i cocci di bottiglia in cima per difendersi dai ladri – c’era la ringhiera tubolare, una sbarra di ferro alla quale si sorreggevano i vecchi che salgono ripidamente verso il Monte, o le donne che portano le sporte pesanti. Quando la mettevo su quella sbarra, un po’ fredda ma consistente, la mia mano rimaneva impregnata di un odore aspro che ho sempre collegato al metallo: era un gusto di ruggine e di pioggia, di aria gelida che circonda un corpo utile e immoto e che mi faceva sentire col naso pieno di vita.
La seconda tappa del viaggio intorno al mio Dio operaio fu in cucina. Essa è il luogo dove avvengono le cose sacre che servono alla vita: vi si accendono i fuochi che illuminano la sera dei poveri. C’è la bellezza della mamma davanti al ronfò, il latte che crea una spuma bianca e instabile, tendente a scappare; e d’inverno la stufa rombante e rovente. D’estate Zambì, la tartaruga, si sveglia dal letargo e scorrazza in cerca di pelli di pesca e di foglie di lattuga. In cucina alla sera entra papà con una rabbia strana e, nuovo Iuppiter irato, scaraventa le bistecche per terra.
Credo di aver imparato a camminare aggrappandomi ai calzoni di mio padre. Un bambino di due anni ha già un’idea circa l’economa politica. Non saprei dire da quali canali gli arrivino i messaggi, quali siano i termini del paragone. Ma in qualche modo misterioso ha imparato che il mondo ha una sua struttura, e che quella presente nella casa natia è la struttura della penuria, del limite e dell’ostilità. Dio non è ancora cattivo. Però rimane in silenzio e osserva senza parlare il papà che è un uomo alto, con gli occhi blandi e azzurri, il quale dal culmine della sua potenza fa avanzare la mano verso il piatto. Quella mano è nobile e segnata da una croce d’inchiostro blu sul dorso. Adesso scende nervosa, plana rapida al di sopra del piatto, si appropria della bistecca, la contiene, la solleva, la fa volteggiare in aria perché la mano di un papà è capace di fare le cose brutte. Il papà urla. Il bambino si aggrappa alla piega dei suoi calzoni supplicandolo di non farlo. A riempire la piccola cucina non vi è altro che quella voce imprecante. Il bambino ha appena il tempo di dire: Non fare così!
aggrappandosi ai calzoni di papà, quando il peccato si compie. La carne rugosa e bruna, la carne cucinata al burro con amore, la carne ancora tiepida e odorosa di fuoco, si sfracella sul pavimento davanti agli occhi del bimbo, spalancati sull’enormità della cosa.
Da quel momento il bambino lo saprà per sempre: il peccato è un fatto enorme, nella cui esistenza si stenta a credere. Eppure quella cosa inerte sul pavimento sembra morta ed è possibile guardarla: ha lasciato una traccia oleosa sul marmo e la cena è stata inghiottita da un gesto, da uno sbandamento del mondo che non si può rimediare più.
Dio nasce per me da quella bistecca: mi vuole male. Gli altri bambini – lo saprò tra qualche anno – possiedono un papà che li prende sulle ginocchia. Il mio non lo fa mai. È uno di quei padri evanescenti, un ectoplasma familiare che si aggira nelle stanze e non bacia mai la mamma. In realtà lei ha sposato un liquido rosso. Tutte le sere, di ritorno dalla tintoria, lui va a intrattenere l’oste e beve quel liquido rosso. L’osteria è proprio davanti alla finestra della cucina: per entrarci si devono salire tre scalini di marmo bianco e il muro della casa ha il colore dei mattoni e del vino rosso. Al piano superiore, due finestre finte sono disegnate sul muro, una a destra e l’altra a sinistra. Da grande imparerò che si chiamano trompe l’oeil. Ma il mio occhio non è ingannato dalle due persone finte appoggiate al disegno dei vetri. Un uomo finto guarda il mondo con uno sguardo finto. La donna finta ha una compostezza, una serenità finta. Per il mio occhio infantile nessuna immagine raggiungerà la potenza della verità quanto quelle due figure invariabili.
L’uomo sta alla propria finestra ed il suo mondo non muta mai. La donna guarda la salita del Monte dalla finestra parallela. Sono separati per l’eternità e guardano mio padre quando entra nell’osteria per amare la bottiglia dal liquido rosso. All’uscita, dopo aver amato la sua sposa di vetro che contiene il liquido rosso, papà cade. Il suo corpo rimane inerte sui ciottoli della salita del Monte e sui fili d’erba. I vicini di casa reali lo vedono dalle loro finestre reali. Come ha raccolto la bistecca da terra, la mamma scende in strada e raccoglie il marito. Lo scuote. Lo fa alzare. Gli mette un braccio intorno alla vita e lo porta a casa.
La vergogna è un sentimento penosamente utile. Ha lo stesso colore del vino: ti fa imporporare la faccia e certe volte la sbianca perché pietrifica l’essere. La vergogna ti lega con le sue corde e resta dentro di te, come un animale quieto, per anni. Provi vergogna per tutto: perché non sai dove appoggiare il piede, perché il tuo Dio operaio non ti ama, perché tremi ogni volta che il papà vacilla. Non soltanto è utile la vergogna, ma anche lenta. Si installa senza fretta. Prende dimora: non riesci più a sfrattarla. Si riscalda dietro le tue guance, entra nei muscoli delle gambe, risiede in una regione dello stomaco.
E quando sarò capace di leggere Così parlò Zarathustra, mi colpiranno come frustate le sue parole: Colui che conosce incede tra gli uomini in quanto bestie. Ma la definizione dell’uomo è, per Colui che conosce: la bestia dalle guance rosse. Come poté capitargli ciò? Non è forse perché ha dovuto vergognarsi troppo spesso? Amici: così parla colui che conosce: vergogna, vergogna, vergogna – questa è la storia dell’uomo! Per questo chi è nobile s’impone di non provocare vergogna: e a se tesso impone la vergogna per tutto quanto soffre
.
Ci sono lei, la vergogna rossa, e la mamma: lei diventa la tua compagna abituale. Devono passare molti anni. Un giorno scoprì che l’infanzia, la vita, il destino e Dio sono tenuti insieme da un elastico, come la gamba al corpo di certe bambole. Tutto è legato: in quel momento sembra che la vergogna si sciolga dal tuo corpo: forma un pozzetto liquido sul pavimento come la pipì dei cani. La guardi, dici: Sono guarito
. Il sentimento della vergogna è legato inoltre a quello della colpa. Per questo motivo se ti liberi di una di esse, sei esorcizzato anche dell’altra. Adesso credo che la sensazione della dignità personale abbia bisogno, almeno una volta nella vita, di passare attraverso lo stato della colpevolezza. In questo risiede la superiorità della risurrezione sulla nascita. Prima eri un bruco. La risurrezione, molto più della semplice nascita, ti mette sulle spalle un paio