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Campanello d'allarme: eLit
Campanello d'allarme: eLit
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E-book336 pagine4 ore

Campanello d'allarme: eLit

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Info su questo ebook

In una piccola scuola di campagna, sette alunne di prima elementare fanno parte, per un'ora alla settimana, di una classe speciale per bambine particolarmente dotate. In seguito a un incendio, la scuola viene chiusa e le allieve si separano. Alcune restano in contatto, altre si perdono di vista... ma una ventina di anni dopo sei di loro muoiono suicide nel giro di pochi mesi. Unico elemento in comune: ciascuna ha ricevuto una telefonata poco prima di morire. A quel punto per l'ultima superstite, Ginny Shapiro, il telefono diventa il nemico più mortale. Riuscirà, con l'aiuto di un affascinante agente dell'FBI, a rimanere in vita e a scoprire che si cela dietro quelle morti misteriose?

LinguaItaliano
Data di uscita31 ago 2015
ISBN9788858937143
Campanello d'allarme: eLit

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    Anteprima del libro

    Campanello d'allarme - Dinah Mccall

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Storm Warning

    Mira Books

    © 2001 Sharon Sala

    Traduzione di Marina Boagno

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    © 2003 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-5893-714-3

    www.harlequinmondadori.it

    Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

    Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

    Prologo

    Stato di New York, 1979

    Edward Fontaine era in piedi sulla soglia a osservare le bambine nel campo giochi, mentre teneva d’occhio il tempo. Nella sua qualità di direttore della Montgomery Academy, una piccola scuola privata, e-ra un suo preciso dovere sovrintendere a ogni aspetto della routine quotidiana, compresa la sicurezza delle allieve.

    Certo, gli insegnanti facevano la loro parte nel sorvegliare il campo giochi, ma Edward aveva una visuale di gran lunga migliore, dall’alto dei gradini. Mentre osservava la scena, avvertì un cambiamento nel vento e guardò il cielo. Le nuvolette leggere e soffici di poco prima stavano diventando sempre più grandi e più scure. Benché l’orario dei giochi non fosse ancora finito, non voleva correre il rischio che una bambina venisse colpita da un fulmine, perciò corse nel suo ufficio a suonare la campanella. Il suono riecheggiò per tutto l’edificio e nel giardino, e anche dall’interno Edward poté sentire il coro di proteste delle alunne.

    Mentre tornava in cima ai gradini, il primo rombo di tuono che preannunciava l’arrivo imminente del temporale fece tremare le finestre. La riluttanza delle bambine a porre fine ai loro giochi fu sostituita in men che non si dica dalla frenesia di mettersi al riparo. Gli insegnanti le radunarono e le ricondussero all’interno della scuola.

    «Svelte, svelte!» gridò Edward, richiamando le bambine più piccole, all’estremità più lontana del giardino. «Sta per scoppiare un temporale. Dovete rientrare!»

    Virginia Shapiro e la sua migliore amica, Georgia, erano in cima allo scivolo, quando aveva iniziato a squillare la prima campanella. Le due bambine avevano solo sei anni e, giunte a quel punto, il loro dilemma era diventato se tornare indietro scendendo la scaletta o lasciarsi scivolare, con il rischio di essere accusate dalle loro compagne di avere continuato il loro bel gioco mentre avevano ricevuto l’ordine di rientrare.

    Quando il secondo tuono rombò sopra di loro, Virginia cominciò a piangere. Georgia la prese per mano, incerta sul da farsi.

    Edward capì all’istante il loro problema e balzò giù dagli scalini. Mentre correva, pensò che avrebbe dovuto mantenersi un po’ più in forma, ma quel pensiero sparì rapidamente alle prime gocce di pioggia.

    «Venite, bambine, venite» si affrettò a sollecitarle, posizionandosi in fondo allo scivolo incriminato. «Va tutto bene, anzi benissimo. Ora lasciatevi scivolare. Rientreremo insieme.»

    Georgia strinse la mano di Virginia, scoccandole un sorriso coraggioso.

    «Su, Ginny... adesso noi due scenderemo insieme, come sempre...» mormorò con fare rassicurante.

    A quel punto Ginny tirò su col naso e annuì, e un momento dopo stavano scivolando lungo la liscia superficie metallica, finendo dritte nelle braccia del signor Fontaine.

    «Siete state molto brave, bambine mie...» mormorò lui, prendendole entrambe per mano. «Ma adesso dobbiamo correre. Scommetto che riesco a battervi, anche se sono molto più vecchio di voi.»

    Le piccole strillarono e si liberarono dalle sue mani, spiccando la corsa attraverso il campo giochi. Con un sospiro di sollievo, lui le seguì, a passo più lento, pur sapendo che sarebbe stato fradicio prima di arrivare al riparo.

    Se n’era quasi dimenticato. Era giovedì. La classe speciale per le allieve che erano particolarmente dotate si riuniva il giovedì. Non per la prima volta, una punta di dubbio gli attraversò la mente, mentre guardava la porta chiudersi alle loro spalle. Non che stesse permettendo a qualcuno di fare loro del male. Al contrario, anzi. Quelle particolari sette bambine avevano in comune una cosa che aveva assicurato loro l’ammissione a quella classe. E il denaro che lui aveva ricevuto in abbondanza come contribuito speciale per permettere la formazione di quel gruppo non era un elemento da trascurare. Il fatto che i genitori non fossero al corrente della natura della classe lo turbava, ma sapeva che le bambine non subivano alcun danno. Inoltre, quel che era fatto, era fatto.

    Una cortina di pioggia, portata da una forte raffica di vento, lo investì, inducendolo a pensieri più pratici. Chiuse rapidamente le porte dell’entrata principale e andò nel suo ufficio. C’erano sempre delle scartoffie noiose, e al contempo importanti, da evadere.

    Nell’ultima aula a sinistra, sette bambine sedevano in silenzio nei rispettivi banchi, aspettando che l’insegnante iniziasse la sua lezione. Le finestre di quel locale tremavano a ogni tuono, ma loro non sentivano la pioggia che tamburellava sui vetri, né vedevano i lampi accecanti. I loro occhi erano fissi sul maestro, le loro menti concentrate sul suono della sua voce.

    Quella notte, molto tempo dopo che le bambine della Montgomery Academy erano tornate a casa, il temporale infuriava ancora. Gli alberi, percossi senza un attimo di sosta dal vento, si piegavano fino a terra e i loro rami si contorcevano sotto la furia della tempesta.

    Poco prima di mezzanotte, una grande saetta piombò dal cielo, mandando in frantumi legno e tegole, mentre penetrava attraverso il tetto della scuola. Prima che qualcuno riuscisse ad accorgersene, il povero edificio era già completamente avvolto dalle fiamme. Al mattino non ne restava più nulla, a parte un muro perimetrale e un enorme mucchio di travi fumanti.

    Edward Fontaine, in piedi sul margine del campo giochi, guardava con un’espressione incredula dipinta in volto i miseri resti di quella che fino a poche ore prima era stata la sua scuola. Non possedeva le risorse per ricominciare da capo, e non gli sembrava neppure possibile tornare al suo lavoro di insegnante. Il sogno della sua vita era finito per sempre. Il suo cuore spezzato una volta per tutte.

    Nel giro di una settimana, tutte le allieve erano state trasferite in altre scuole, pubbliche o private che fossero. Le sette bambine che erano state scelte per la classe speciale finirono in tre diversi distretti, e la vita continuò. Impararono. Crebbero. E ogni sera i loro genitori le mettevano a letto, del tutto inconsapevoli della terribile bomba a tempo che ticchettava nella loro testa.

    1

    Seattle, Washington, ai giorni nostri

    «Mamma, mamma, ho fame. Dammi un bicotto

    Emily Jackson, giovane mamma ventisettenne, alzò gli occhi dal computer e lanciò uno sguardo all’orologio a muro. Spalancò gli occhi, sgomenta, mentre balzava dalla sedia per correre a occuparsi del suo bambino di due anni. Certo che aveva fame. Erano le dodici e mezzo. Essere mamma a tempo pieno e nello stesso tempo conservare il lavoro di commercialista non era stato facile come aveva immaginato al principio, anche se poter usare il computer per tenersi in contatto con i clienti era un vero dono del cielo.

    «Solo un momento, tesoro mio...» gli assicurò, porgendogli un biscotto a forma di animale e scoccandogli un bacio mentre correva al frigorifero. C’era una quantità di avanzi, e suo figlio mangiava praticamente di tutto, ormai. Non ci sarebbe voluto più di qualche minuto per riscaldare qualcosa nel microonde.

    Aveva posato tre ciotole coperte e il biberon sul piano di lavoro, e stava prendendo dal frigorifero una quarta ciotola quando il telefono squillò.

    «Sempre così...» brontolò a quel punto, sollevando il ricevitore. «Casa Jackson... Sì, sono Emily. Chi parla, prego?»

    Ci fu un attimo di silenzio all’altro capo della linea, poi Emily sentì un lontano rombo di tuono e una serie di tintinnii simili a quelli di un elaborato campanello per la porta. A quel suono, ogni suo pensiero razionale cessò. Si voltò verso il muro con il telefono ancora all’orecchio. L’aria fredda che usciva dal frigorifero le avvolse le gambe, ma lei non la sentì. Nella sua mente, se n’era già andata.

    Pochi attimi dopo, posò il telefono sul piano di lavoro, prese la scatola dei biscotti e il biberon di latte per il bambino, poi lo sollevò fra le braccia. Lo portò nel suo lettino, gli diede la scatola e il biberon e uscì senza voltarsi indietro.

    L’insolito spuntino bastò a placare l’appetito del piccolo. Mentre lui mangiava i biscotti, Emily stava salendo in macchina e uscendo in retromarcia dal vialetto. Una vicina, dall’altra parte della strada, le fece un cenno di saluto, ma lei non diede segno di averla vista. La donna era già tornata alle sue faccende, senza dare importanza alla cosa, quando notò che la porta di casa di Emily era socchiusa.

    «Oh, santo cielo!» esclamò, poi si affrettò ad attraversare la strada per compiere il suo dovere di buon vicinato.

    Quando raggiunse il portico, fu colta da un brutto attacco di curiosità. Anziché chiudere semplicemente la porta, pensò di dare un’occhiata all’interno. Che male c’era? Solo una sbirciatina.

    Dopo un’occhiata colpevole da sopra la spalla, entrò e chiuse la porta. Rimase per un momento ad ammirare l’armonia di colori e i soffici divani del soggiorno alla sua destra. Poi fece un altro paio di passi avanti per ammirare anche la vista attraverso le porte del patio. In quel momento sentì un rumore proveniente dalle camere da letto. Che stupida. Solo perché Emily era uscita, non significava che la casa fosse vuota. Suo marito, Joe, che era un controllore di volo, doveva avere la giornata libera.

    «Joe! Joe, sono io, Helen. Emily ha dimenticato aperta la porta di casa, e sono venuta a chiuderla.»

    Nessuno rispose. Eppure si sentiva un suono di voci in sottofondo.

    «Joe? Sono io, Helen. Sei presentabile?»

    Una vocina acuta la fece sobbalzare. Fu allora che pensò al bambino. Aveva dato per scontato che fosse in macchina con Emily, che raramente usciva senza di lui. Imboccò il corridoio, timorosa che da un momento all’altro il suo vicino sbucasse da una stanza e le domandasse che cosa diavolo stava facendo. Ma più si inoltrava, più si persuadeva che Joe non era in casa. E quando entrò nella camera del bambino, sussultò. Il piccolo era seduto in mezzo al lettino, con una scatola di biscotti in una mano e il biberon nell’altra.

    «Bicotto?» le chiese il bambino, offrendole subito la scatola.

    «Oh, mio Dio» borbottò Helen, prendendolo in braccio.

    Doveva pur esserci una spiegazione. Emily non era certo il tipo da andarsene fuori di casa come se niente fosse, lasciando suo figlio incustodito.

    Con il bambino in braccio, passò da una stanza all’altra. Quando arrivò in cucina, seppe che doveva essere successo qualcosa di grave. C’erano delle ciotole di cibo sul piano di lavoro, il telefono era staccato e il frigorifero aperto. Fece per rimettere le cose a posto, ma poi qualcosa le disse che era meglio non toccare nulla. Invece, prese una provvista di pannolini e portò il bambino con sé.

    Quando Helen arrivò a casa sua con l’intenzione di telefonare a Joe al lavoro, Emily Jackson era in rotta di collisione con il destino.

    Emily guidò attraverso il traffico della caotica Seattle senza darsi alcun pensiero della sicurezza, passando semafori rossi e abbordando le curve su due ruote. Quando raggiunse il Narrows Bridge, la fila di macchine della polizia che la tallonava uguagliava, se non superava, quella che, a Los Angeles, aveva seguito la famigerata fuga di O. J. Simpson.

    La polizia non lo sapeva ancora, ma Emily era ormai giunta alla sua destinazione. Un cordone di autopattuglie era posizionato all’altra estremità del ponte, bloccando il traffico per diversi isolati.

    Ma Emily non arrivò all’altra estremità. Circa a metà del ponte, fermò bruscamente la macchina. Scese e iniziò a camminare in fretta prima che le auto della polizia che la seguivano si fermassero. E quando gli agenti balzarono giù, gridandole di fermarsi, lei era salita sul parapetto. Dopo, tutto accadde come al rallentatore.

    Indistintamente tutti i presenti le gridavano di non buttarsi dal ponte, facendo promesse che peraltro non avrebbero mai potuto mantenere, ma Emily non sentiva altro che un rombo nelle orecchie. Sollevò le braccia ai lati del corpo, come se fosse stata un uccello in procinto di spiccare il volo, alzò il viso verso il cielo, e poi si lanciò.

    Precipitò senza un grido, con il vento che le fischiava nelle orecchie... facendo quello che le era stato ordinato.

    Il trauma della sua morte si ripercosse per tutta Seattle per tre interi giorni, fino a quando non fu rimpiazzato da un’altra storia ugualmente tragica. Emily lasciò dietro di sé un marito desolato che non sarebbe mai riuscito a capire il motivo del suo gesto e un bambino che piangeva, chiamando la mamma che non sarebbe mai più tornata a casa.

    Amarillo, Texas, una settimana dopo

    Josephine Henley, Jo-Jo per i clienti dell’Haley’s Bar, stava schivando pacche e distribuendo bibite quando Raleigh, il barista, la chiamò attraverso la sala.

    «Ehi, Jo-Jo, telefono!»

    Lei gli fece un cenno per dirgli che aveva capito, mentre intascava la mancia da un paio di camionisti sbronzi, che continuavano a chiederle un bacio.

    «Via, Jo-Jo, solo uno prima di rimetterci in strada» la supplicò uno dei due.

    «Niente da fare, Henry. Sei sposato» ribatté lei.

    «Sì, ma mi sento solo.»

    «Be’, la cosa non mi riguarda.»

    «Allora, restituiscimi i miei cinque dollari» scherzò Henry.

    «Oh, no, quelli me li sono guadagnati. Inoltre, portarmi a letto ti costerebbe molto più di cinque dollari.»

    «Quanto?» chiese lui, interessato.

    «Non hai abbastanza soldi per comprarmi, amico. E ora, piantala. Devo rispondere a una telefonata.»

    Jo-Jo sfuggì all’uomo e attraversò la sala per raggiungere il telefono.

    «Un bourbon con acqua...» borbottò, passando una nuova ordinazione, poi raccolse il ricevitore che penzolava dal telefono a muro e se lo portò subito all’orecchio.

    «Pronto? Pronto?»

    Non riusciva a sentire nulla, in tutto quel frastuono, e mise una mano sul microfono, voltandosi verso la sala.

    «Abbassate un po’ il volume!» gridò. «Non sento neppure la mia voce.» Ritentò. «Pronto... Sì, parla Josephine Henley.»

    Mentre aspettava, credette di sentire un tuono e si voltò di scatto, cercando di ricordare se aveva chiuso i finestrini della macchina. Poi, ci fu un altro suono, e il solco fra le sue sopracciglia si spianò e il mento si abbassò verso il petto, quasi come se lei si fosse addormentata. Rimase così, senza parlare, con gli occhi chiusi. Raleigh lo notò e corrugò la fronte. Non era da lei stare così ferma. Le toccò una spalla.

    «Ehi, è successo qualcosa?»

    Lei non rispose, ma lasciò cadere bruscamente il telefono e cercò di allontanarsi, passandogli accanto.

    «Ecco il tuo bourbon con acqua» disse il barista, porgendole il vassoio.

    Ma Jo-Jo lo spinse bruscamente da parte, facendo cadere il vassoio.

    «Ehi, quello era il mio drink?» gridò qualcuno.

    «Chiudi il becco» ribatté Raleigh, e afferrò Jo-Jo per un braccio. «Che cosa ti prende? Non hai sentito quello che ho detto?»

    Poi la vide in faccia e l’espressione dei suoi occhi lo fece sussultare. Più tardi, avrebbe detto che era stato come guardare in una stanza dove non c’era nessuno.

    Jo-Jo stava per raggiungere l’uscita del locale quando Raleigh, colto dal panico, gridò ai clienti di fermarla. Ma l’ordine si perse nel vocio generale.

    «Ehi, Jo-Jo, che succede? Torna indietro!» urlò.

    Schizzò fuori da dietro il banco e la seguì, mentre i presenti finalmente cominciavano ad accorgersi che stava succedendo qualcosa. Quando Raleigh giunse alla porta, più di metà dei clienti lo seguiva.

    Lui si fermò appena fuori, scrutando il posteggio gremito per capire dov’era andata. La sua macchina era ancora ferma vicino al muro, sul lato nord dell’edificio, perciò, ovunque fosse diretta, c’era andata a piedi. Il barista cominciò ad aggirarsi fra macchine e camion, gridando il suo nome.

    «Jo-Jo! Jo-Jo! Torna dentro, dolcezza. Se ti senti male, ti farò accompagnare subito a casa da uno dei ragazzi.»

    Lei non rispose, e lui non riuscì a vederla. Ormai, una dozzina di uomini stava correndo fra i veicoli posteggiati, chiamandola a gran voce. Raleigh stava quasi per classificare l’accaduto come un qualche tipo di capriccio femminile quando sentì qualcuno urlare il nome di Jo-Jo.

    Il terrore in quella voce gli gelò il sangue. Si mise a correre, superando una linea di macchine e infilandosi fra due camion, e sbucò sul margine dell’autostrada. Fu allora che la vide.

    Stava correndo nella corsia veloce dell’autostrada, con le braccia aperte ai lati del corpo, come una bambina che fingesse di volare, e più correva, più si avvicinava ai fari di un camion che stava sopraggiungendo.

    «Gesù...» mormorò Raleigh, e subito dopo riprese a correre, anche se sapeva che sarebbe giunto troppo tardi.

    L’odore di gomma bruciata riempì l’aria quando il camionista inchiodò, ma la ragazza era sbucata dal nulla, e gli era stato impossibile fermarsi. Lo stridio acuto dei freni superò il tonfo del corpo di Jo-Jo contro il camion. Ora, lei stava volando in aria come una bambola rotta, e ripiombò sulla riga mediana della strada con un tonfo sordo.

    Gli uomini fissavano la scena, sbalorditi. Raleigh si rivolse al più vicino.

    «Chiama un’ambulanza!» gridò, e poi cominciò a fare segnalazioni alle macchine perché rallentassero, in modo da poter attraversare la strada.

    Il detective che si occupò delle indagini, archiviò l’accaduto come suicidio. Caso chiuso.

    Tranne che per un barista di nome Raleigh, che continuava a ripetere che Jo-Jo era stata benissimo finché non aveva ricevuto quella telefonata.

    Chicago, Illinois, due giorni dopo

    A ventotto anni, Lynn Goldberg aveva raggiunto un punto chiave della sua carriera come avvocato penalista. Per tutta la vita le avevano detto a più riprese che era troppo carina per essere presa sul serio come avvocato, ma lei aveva ignorato i pessimisti e seguito il cuore. Quel giorno aveva dimostrato che non era solo una ragazza carina fra le tante. Aveva vinto il suo primo caso di omicidio, ed era una bella soddisfazione. La cosa migliore, comunque, era la convinzione che l’uomo che aveva fatto assolvere era davvero innocente, il che, nella professione che aveva scelto, non succedeva sempre.

    Gettò nella sua valigetta portadocumenti alcune pratiche che voleva rivedere prima dell’indomani mattina e la chiuse con un colpo secco. Aveva trentasei minuti per attraversare la città e incontrarsi con suo marito per la cena. Lui non lo sapeva ancora, ma quella sera offriva lei. Era impaziente di vedere la sua faccia quando gli avesse detto che aveva vinto.

    Guardandosi un’ultima volta intorno nell’ufficio, prese il telefono e chiamò un taxi. Ora che fosse scesa dal quindicesimo piano dov’era ubicato lo studio legale, il taxi sarebbe dovuto essere già arrivato. Si rassettò il suo completo scuro gessato, si appoggiò l’impermeabile sul braccio e, mentre stava per prendere la valigetta, il telefono squillò.

    «Niente da fare. La mia giornata è finita» brontolò, avviandosi alla porta.

    Lo squillo continuava, e Lynn pensò che potesse essere Jonathan. Sarebbe stato spiacevole attraversare tutta la città solo per scoprire che lui aveva dovuto annullare il loro appuntamento. Con quel pensiero in mente, corse alla scrivania e sollevò il ricevitore.

    «Pronto?... Sì, parla Lynn Goldberg.»

    Ci fu un momento di silenzio, e poi il rombo lontano di un tuono. Lynn rabbrividì e lanciò un’occhiata alle finestre, ringraziando il cielo per avere portato l’impermeabile. Poi, un altro suono si sovrappose a quello del tuono... una sorta di tintinnio lontano di campanelle che venivano percosse in lenta successione. Nell’attimo stesso in cui identificò il suono, i suoi occhi si chiusero e il mento si piegò sul petto.

    Sul telefono, la luce cominciò a lampeggiare, annunciando un’altra chiamata in arrivo, ma lei non la vide, e comunque sarebbe stata incapace di prendere la decisione di rispondere. Invece, depose lentamente il ricevitore e uscì dall’ufficio, diretta all’ascensore.

    Gregory Mitchell, un collega, alzò gli occhi quando passò davanti alla sua scrivania.

    «Ehi, Lynn, non sapevo che fossi ancora qui. Congratulazioni per la vittoria.»

    Fu come se lei non l’avesse sentito. Perplesso per quel comportamento, Gregory la seguì con lo sguardo mentre usciva dall’ufficio, ma non si preoccupò più di tanto fino a che non si accorse che aveva lasciato la valigetta e l’impermeabile sul pavimento, vicino alla porta. Sapendo che avrebbe dovuto risalire quindici piani per tornare a prenderli, la rincorse, pensando di raggiungerla all’ascensore. Si sarebbero fatti una bella risata, e dopo lei avrebbe proseguito per la sua strada.

    Ma, quando arrivò all’ascensore, la cabina stava salendo, anziché scendendo, il che non aveva senso. L’ultimo piano dell’edificio era vuoto, e in corso di ristrutturazione.

    «Maledizione, Lynn, dove hai la testa?» borbottò, aspettando che la cabina scendesse, e immaginando di vederla uscire, sorridendo della propria distrazione. Ma, quando arrivò, l’ascensore era vuoto.

    Soffocando una punta d’ansia, Gregory entrò nella cabina e salì a sua volta, ripetendosi per tutto il tempo che doveva esserci una spiegazione razionale per ciò che Lynn aveva fatto. Quando le porte si aprirono e uscì nel corridoio, sentì solo il vento che sibilava attraverso le aperture coperte di plastica dove non erano ancora state installate le finestre.

    «Lynn? Lynn? Dove sei? Sono io, Greg!»

    Sentì una specie di fruscio in fondo al corridoio, e si mosse in quella direzione, aspettandosi di vederla uscire da dietro le impalcature tentando di giustificare la sua distrazione. Invece, entrò in un grande ufficio d’angolo, ma lo trovò vuoto. Frustrato, stava per tornare indietro quando credette di cogliere un movimento con la coda dell’occhio. Si avvicinò all’angolo riparato dalla plastica dove ci sarebbe dovuta essere una vetrata, e si rese conto all’improvviso che, dietro la plastica, c’era qualcuno sull’impalcatura.

    «Non può essere» borbottò, ma scattò ugualmente in quella direzione. L’istinto gli diceva che non poteva trattarsi di nessun altro.

    Strappò la plastica e si fermò di colpo, incredulo. Lynn era in piedi su una trave d’acciaio, sedici piani sopra la città. Il vento le incollava gli indumenti al corpo.

    «Mio Dio, Lynn! Che cosa stai facendo? Torna subito dentro, prima di cadere!»

    Ancora una volta, lei parve sorda alla sua voce. Con orrore, Gregory la vide sollevare le braccia ai lati del corpo, come un direttore che imponesse alla sua orchestra di aspettare. Fu sommerso da un’ondata di panico. La situazione era incontrollabile. Si frugò in tasca alla ricerca del cellulare, ma ricordò di averlo lasciato sulla scrivania. Era spaventato come mai in vita sua, e tuttavia non poteva starsene là senza fare niente. A quel punto cominciò a strisciare fuori della finestra, parlando con calma, mentre in realtà avrebbe voluto urlare.

    «Lynn, guarda solo me. Non guardare giù, okay? Adesso, prenderai la mia mano e torneremo

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