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Miale il figlio della Contonera
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E-book291 pagine4 ore

Miale il figlio della Contonera

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Info su questo ebook

...vedeva che gli sguardi delle persone erano pieni di inimicizia, di ostilità e di derisione… si sentiva umiliato soprattutto quando lo chiamavano con disprezzo “il figlio della contonera.”…
…anche a Samuele, ma era ancora troppo piccolo, era solo un bambino di cinque anni quando lo hanno ucciso dentro casa insieme alla madre. E io ero in campagna a custodire, a proteggere il gregge…
…l’istituto di pena era situato su un altopiano all’interno della Sardegna …i condannati appartenevano ad una categoria di criminali con un alto indice di pericolosità, tutti avevano commesso gravissimi reati…
…si era alzata dal giaciglio… dove dormiva con le quattro sorelline, ma il padre non cercava l’acqua… le prese la mano facendogliela scivolare sotto le coperte, poi la fece coricare al suo fianco…
…la Barbagia era lì, sotto i grandi occhi di Annica, bellissima ed affascinante nei suoi colori, misteriosa ed inquietante negli anfratti delle rocce di granito e nelle bocche scure delle grotte che, come la parte più intima dell’animo umano, nascondevano gelosamente profondi segreti…
…Vergogna! Sequestrata una donna…in dispregio di quelle norme non scritte del codice d’onore dei banditi barbaricini, che sino adesso avevano sempre rispettato le donne e i bambini…
…quante volte, mentre scavava nelle viscere della terra, aveva sognato quel cielo, il fruscio delle fronde degli alberi mosse dal vento e il profumo delle erbe, dei fiori, delle essenze… l’odore delle capre di Antioco era meglio della polvere di carbone, di cui sentiva ancora il sapore amaro in gola…
LinguaItaliano
Data di uscita18 ott 2013
ISBN9788888278797
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    Anteprima del libro

    Miale il figlio della Contonera - Angelo Serra

    storia.

    Capitolo 1

    Il primo giorno di scuola

    Miale sentiva il cuore che gli batteva forte nel petto. Aveva atteso a lungo quel momento, fra gioia e preoccupazione, fantasticando su quanto la sorella maggiore gli aveva raccontato.

    Col mese di ottobre era finalmente arrivato il primo giorno di scuola.

    Aveva trascorso la notte svegliandosi in continuazione. Alla luce di un raggio di luna che filtrava dalla finestra, guardava sulla sedia il grembiule nero, la cartella di cartone pressato nuova fiammante ed il colletto rigido bianco con un appariscente nastro azzurro. Era la prova che non era un sogno e il giorno tanto atteso era arrivato.

    A Ruone, un agglomerato di piccole case su un altopiano a circa venti chilometri da Nuoro, in piena Barbagia(1), non esisteva un edificio scolastico. Ad aule scolastiche erano state adibite alcune case del paese, adattate alla meglio ed utilizzate di mattino e di pomeriggio per ospitare due classi delle elementari con il sistema dei doppi turni.

    L’aula designata per le lezioni della prima elementare era uno stanzone, in una casa al centro del paese, col pavimento di cemento e le pareti imbiancate con la calce; la porta d’ingresso e le due finestre si affacciavano su uno spiazzo sterrato. Sul soffitto altissimo, le vecchie canne intrecciate fra le robuste assi di legno erano annerite dal tempo e dal fumo del camino che veniva utilizzato nelle fredde giornate d’inverno per riscaldare il locale. L’arredamento consisteva in tre file di banchi di legno scuro di fronte ad una pedana, su cui era stato collocato un tavolo con le gambe troppo fini rispetto allo spessore del piano. Le lettere dell’alfabeto segnate su fogli di carta con i disegni degli oggetti più comuni conosciuti dai bambini, appese alle pareti, completavano l’aula.

    La maestra aveva iniziato l’appello ed i piccoli alunni man mano che erano chiamati si alzavano e rispondevano alle sue domande. Miale capì che presto sarebbe toccato a lui e si mordeva il labbro per l’emozione.

    — Satta Miale. Chi è Satta Miale? Ah, sei tu. Devi rispondere presente.

    Un brusio di risate trattenute a stento si levò non appena l’insegnante pronunciò quel nome.

    Il bambino si era alzato e non riusciva a parlare. Quella parola, così facile da pronunciare, non gli usciva dalla gola. Un brivido freddo gli percorse la schiena. Vedeva gli sguardi dei suoi compagni pieni di ostilità. I piccoli occhi tutti puntati su di lui lo deridevano e lo umiliavano. Allora la paura prese il posto dell’ansia. Era terrorizzato. Stringeva con forza fra le mani la stoffa del grembiule e con la testa bassa fissava la punta dei suoi piedi.

    — Non fa niente, lo dirai domani. E voi, perché ridete? Il nome del vostro compagno vi sembra strano perché non lo avete mai sentito, ma al suo paese è molto comune, ed è anche un bel nome. Miale vuol dire Michele. Ora però vieni più avanti, siediti nel banco vicino a Nicolò. Perché ti sei messo così lontano?

    Miale obbedì e si sedette dove gli aveva indicato la maestra. Aveva una grande confusione e sentiva la voce dell’insegnante come se provenisse da molto lontano. Rivolse lo sguardo verso il compagno di banco che lo ricambiò con una boccaccia. Nicolò, un bambino grassoccio, non aveva il grembiule. Indossava pantaloni di velluto nero ed una giacchetta di morbida stoffa sopra una candida camicia; il suo viso era unto di crema e le guance rosse gli luccicavano. Anche i capelli neri erano tutti impomatati e perfettamente pettinati con una riga in mezzo.

    La maestra parlava ai bambini e alcuni, vinta la timidezza dei primi momenti, rispondevano in coro allegramente alle sue domande, dimostrando di aver superato l’infantile diffidenza e di sentirsi già a loro agio.

    Per Miale quelle voci erano suoni gutturali incomprensibili. Per la prima volta nella sua vita si trovava al cospetto di persone sconosciute da solo, senza il conforto dei genitori e della sorella. Era come un animaletto selvatico, tremante e confuso. E proprio come un animale selvatico, voleva scappare lontano da quei bambini, dalla maestra, da quel luogo che non sentiva suo, dove niente gli apparteneva. La voglia di piangere era forte e un nodo gli attanagliava la gola. Sebbene avesse solamente sei anni, aveva imparato a controllare le sue emozioni. Ripeté dentro di sé le parole che gli diceva il padre, ogni volta che il pianto aveva avuto il sopravvento.

    Non bisognava piangere. Mai! Se proprio sentiva che non sarebbe riuscito a trattenersi, doveva rifugiarsi in un posto dove nessuno potesse scorgerlo. A nessuno doveva dare la soddisfazione di vederlo piangere. Non poteva scappare da quella stanza e doveva trovare la forza di ricacciare il pianto dentro di sé, proprio in fondo allo stomaco. C’era riuscito altre volte e doveva farcela anche in quel momento. Rivolse la sua attenzione verso i panni stesi sul terrazzo della casa di fronte, che il forte vento faceva sventolare come per strapparli dal filo dove erano stati appesi. Il rumore del vento gli piaceva e nelle giornate in cui era particolarmente impetuoso, fantasticava sognando di lasciarsi trasportare dalle sue ali invisibili in luoghi dove non era mai stato, ma che aveva conosciuto attraverso i racconti dei genitori.

    Non sentiva più le parole della maestra né il brusio degli altri bambini. Quelle lenzuola bianche si erano trasformate nelle vele di una nave che solcava i mari, e lui era il capitano che la guidava verso mondi sconosciuti… il nodo alla gola si sciolse lentamente e la voglia di piangere scomparve piano, piano.

    Un forte dolore alla gamba lo fece sobbalzare. Nicolò aveva arrotolato e annodato in più punti un fazzoletto trasformandolo in una piccola frusta e lo aveva colpito. Miale, sorpreso, rimase immobile mentre il compagno lo guardava beffeggiante. La maestra passeggiava nell’aula fra le file dei banchi. Appena superato quello dei due piccoli scolari, Nicolò lo colpì ancora con un’altra sferzata accompagnata da una serie di smorfie e sberleffi. Sentì una vampata di calore attraversargli tutto il corpo. Quel bambino lo stava picchiando senza che lui gli avesse fatto niente.

    Il primo impulso fu di saltargli addosso e colpirlo con quanta forza aveva, ma la presenza della maestra lo bloccò. I lineamenti del suo viso si alterarono, la bocca si aprì quel tanto che bastava per far vedere i denti stretti. Tutto il volto aveva assunto una smorfia minacciosa. Gli occhi, quei piccoli occhi neri, erano socchiusi e come da una fessura fissavano minacciosamente il compagno di banco con una freddezza che solo gli adulti riescono ad esprimere. Erano immobili, fissi su quel nemico, come accesi da una luce sinistra. Con la mano destra afferrò la penna stringendola come fosse un pugnale, si avvicinò sfiorandogli il viso con la fronte e gli sussurrò:

    — Quando esci fuori ti ammazzo!

    Miale scandì lentamente la sua minaccia con gli occhi sempre piantati in quelli del compagno.

    Per fargli capire in che modo intendeva mettere in pratica la minaccia, schiacciò la penna sul piano del banco riducendola in pezzi. Lo scatto fu talmente fulmineo che né gli altri bambini né l’insegnante si accorsero dell’accaduto. Nicolò con le guance ancora più arrossate e visibilmente impaurito mise immediatamente in tasca il fazzoletto e si poggiò al muro, per stare il più lontano possibile dal compagno.

    Appena la maestra diede il via, tutti i bambini urlando si precipitarono verso la porta spingendosi l’uno con l’altro, senza badare ai suoi inviti alla calma.

    Miale appena fuori si guardò attorno. Il vento fece volare un nugolo di foglie ingiallite, mentre il sole faceva capolino di tanto in tanto fra le nuvole che si rincorrevano come impazzite. Nella piazzetta le mamme attendevano i loro bambini che appena fuori si precipitarono fra le loro braccia.

    — Miale, sono qui!

    Grazia alzò la mano per farsi vedere dal fratellino. I suoi grandi occhi castani si erano fatti largo in mezzo a quelle mamme e lo avevano finalmente scorto. Con un sorriso giocondo si diresse velocemente verso di lui; l’andatura quasi scoordinata le sollevò il modesto vestitino a fiori bianchi e gialli scoprendole le gambe molto magre. I capelli di un castano più chiaro degli occhi, raccolti in due trecce, facevano risaltare ancora di più il suo volto di giovinetta. Appena lo raggiunse, lo baciò teneramente sulla guancia e dopo avergli posato una mano sulla spalla si incamminarono verso casa.

    — Dai, raccontami com’è andata. Come sono i tuoi compagni? La maestra è brava? Mi hanno detto che non sgrida mai nessuno. Sei adirato? Perché non mi rispondi?

    Miale, visibilmente imbronciato anziché rispondere a quelle domande chiese:

    — Come mai ci sono tutte quelle mamme? Perché non c’è la nostra mamma? A te chi è venuta a prenderti il primo giorno di scuola?

    — Lo sai che la mamma fa fatica a camminare e da casa nostra la scuola è troppo lontana. Poi deve lavorare…

    Dopo un istante, abbandonata l’aria gioiosa con un velo di tristezza proseguì:

    — La mamma non poteva venire… lei deve fare il pane… A prendermi venne la signora Giuseppina. Tu non sei contento che sono venuta io? Preferivi forse la signora Giuseppina?

    Quest’ultima frase Grazia la pronunciò con tono risentito.

    — No, ma dai! Sì che sono contento che sia venuta tu.— ed appoggiò affettuosamente il capo sul fianco della sorella.

    I due ora si tenevano per mano ed erano giunti alle ultime case del paese. La strada da quel punto iniziava ad inerpicarsi verso la collina che l’autunno aveva colorato di giallo. Camminavano curvi in avanti mentre le raffiche di vento, che adesso soffiava con maggiore forza, sembravano voler contrastare il loro cammino.

    — Miale, ma cosa fai, piangi?

    Grazia si fermò di colpo e si accovacciò vicino al fratello che aveva il volto rigato da due grosse lacrime.

    — Perché piangi? Cosa ti è successo?

    Miale le buttò le braccia al collo e liberò il pianto che aveva trattenuto tanto a lungo. Singhiozzava convulsamente stretto alla sorella che delicatamente gli accarezzava i capelli in silenzio, aspettando la fine dello sfogo, mentre il vento sollevando nuvole di polvere si accaniva contro le due creature raggomitolate al lato della strada.

    — Quel bambino mi ha dato le botte e io non gli avevo fatto niente. Domani quando lo incontro l’ammazzo. Gli faccio volare tutti i denti. Oggi stavo per dargli una stoccata con la penna, ma mi sono trattenuto perché avevo paura della maestra. Domani però… prima di entrare a scuola vedrai cosa gli faccio!

    Miale in preda all’ira raccontò alla sorella lo scontro con Nicolò.

    — Io non ci vado più a scuola. Quando la maestra mi ha chiamato ho sentito tanta vergogna perché tutti gli altri bambini mi guardavano per prendermi in giro. Poi quel Nicolò… ma vedrai domani… Vero che domani lo debbo picchiare?

    Grazia ascoltava il fratello e come un adulto, per tranquillizzarlo, annuiva.

    Quando Miale si calmò si rimisero in cammino; le case non si vedevano ormai più e la strada si era addentrata nel bosco trasformandosi in una galleria, coperta dalla fitta vegetazione di lecci e querce. Non incontrarono nessuno e camminavano silenziosi come assorti nei loro pensieri. Uno stormo di cornacchie si sollevò in volo dalla cima di un leccio secolare battendo rumorosamente le ali e gracchiando sinistramente.

    — Vaffanculo, uccellacci del malaugurio! — urlò Grazia al loro indirizzo.

    — Ma hai detto una parolaccia! E a me dici sempre che non bisogna essere scostumati…. — rispose Miale scoppiando a ridere.

    — Hai ragione, mi è scappata, ma non mi ha sentito nessuno. E tu non lo dici in giro, vero?

    Il bambino non rispose, si portò attorno al collo il braccio della sorella e, avvicinandosi a lei il più possibile, le cinse la vita aggrappandosi al suo vestito.

    Dopo una curva la strada proseguiva con un breve rettilineo e la vegetazione era più rada. Le rocce di granito grigio chiaro emergevano dal terreno delimitando i verdi prati erbosi ed assumendo forme diverse. All’orizzonte una catena di alte montagne scure con le cime coperte dalle nuvole, dove il sole si rifugiava al tramonto, si alzava maestosa sino a toccare il cielo. In fondo a quel rettilineo, fiancheggiato da alti alberi d’acacia, c’era una vecchia casa cantoniera. Sulla facciata screpolata erano rimasti attaccati solamente pochi pezzi d’intonaco quasi per volerne ricordare l’originario colore grigio e i muri, costruiti con grossi massi di granito, avevano sfidato il tempo senza perdere la loro solidità. Sul tetto le vecchie tegole erano coperte di muschio e di ciuffi d’erba ed un intenso fumo biancastro usciva dal comignolo tracciando una scia che si alzava verso il cielo. Davanti alla casa, in un fazzoletto di terra ben pulito, c’erano diverse varietà di fiori con al centro una bellissima ortensia con larghe foglie verdi. Un pesante portone scuro sbarrava l’ingresso, sovrastato da una lastra di marmo spezzata con la scritta Cantoniera di Fontana…

    Miale lasciò la sorella e si precipitò urlando verso casa.

    — Mamma, mamma siamo tornati!

    Un attimo dopo era fra le braccia protettive della madre.

    Capitolo 2

    La Contonera

    Dopo l’esperienza negativa del primo giorno, Miale a scuola riuscì, piano piano, a vincere l’ansia e la timidezza che lo avevano bloccato ed iniziò a rispondere alle domande della maestra. Sempre guardingo partecipava ai giochi di gruppo con gli altri bambini, anche se la sensazione di essere deriso e preso in giro non lo abbandonava mai. Quando aveva il sospetto che qualcuno dei compagni lo schernisse reagiva violentemente, il sorriso si trasformava in una smorfia e i suoi occhi diventavano di ghiaccio. Gli infantili lineamenti del volto assumevano un’espressione di sofferenza e di tristezza prima di diventare duri e minacciosi. Le sue reazioni provocavano furibonde zuffe dalle quali, trovandosi da solo contro tutti, usciva sempre malconcio. Nonostante queste prevedibili conseguenze il suo temperamento lo portava sempre a reagire con violenza. Era l’unica arma che conosceva per ribellarsi ai compagni che lo consideravano diverso da loro.

    Nel banco era rimasto da solo. Nicolò dal secondo giorno di scuola si era trasferito nella fila più lontana e si guardava bene dall’avvicinarsi.

    Un giorno, all’uscita dalla scuola, si recò con Grazia in un negozio di generi alimentari del paese. Era loro intenzione spendere i pochi spiccioli avuti in regalo dalla mamma per l’acquisto di liquirizie. Una signora, mentre attendevano il loro turno, si rivolse a Grazia.

    — Che bel bambino! Ha degli occhi meravigliosi. Chi è, tuo fratello? Di chi siete figli?

    La donna dietro al banco, una vecchia con i capelli bianchi scarmigliati e con la bocca sdentata, anticipò la risposta.

    — Sono i figli della contonera (2). Vedi, quello piccolo è identico a suo padre e ti guarda come se volesse fulminarti. Sì, ha proprio lo stesso sguardo del padre.

    — Nostra madre si chiama Francesca Sanna, non contonera!

    Replicò Grazia con tono fiero. Nel pronunciare la parola contonera imitò la voce della donna imprimendole un tono dispregiativo e facendole il verso con una smorfia di disgusto.

    — Però… Hai visto la ragazzina che sfrontata. Non si risponde con quel tono ai grandi. Bisogna essere più rispettosi. I tuoi genitori non ti hanno insegnato l’educazione…

    Grazia neanche sentì le ultime parole; era uscita, trascinando fuori il fratello e sbattendo la porta .

    — Vaffanculo, vecchia strega rimbambita— mormorò fra sé e sé. —Oggi non compriamo niente. Questi soldini ce li conserviamo e quando ne abbiamo altri compriamo un grande pacco di biscotti. Quelli farciti di crema e cioccolata che piacciono a te. —Continuò rivolgendosi al fratello che era rimasto in silenzio.

    Miale ogni giorno appena usciva dalla scuola imboccava subito la strada di casa. Percorreva i tre chilometri di corsa, senza mai fermarsi; soltanto quando giungeva sotto il fico davanti a casa, faceva una sosta per riprendere fiato e per non farsi vedere affannato dalla madre.

    — Vorrei sapere perché devi sempre correre! Sembra che scappi da qualcuno che ti rincorre. Così sudato rischi di buscarti un raffreddore.

    Queste erano però raccomandazioni inutili. Uscito da scuola lui non voleva incontrare nessuno. Si sentiva umiliato soprattutto quando lo chiamavano con disprezzo il figlio della contonera. In queste occasioni avvertiva una vampata di calore che gli arrossava il viso e le tempie pulsavano freneticamente.

    Per questo doveva scappare e rifugiarsi subito a casa.

    Si sentiva al sicuro e protetto solamente fra quelle mura, dove non c’erano estranei e le rare volte che qualcuno veniva a far visita ai genitori, si nascondeva nell’orto.

    Il padre usciva da casa all’alba e rientrava la sera. Tutti i giorni si recava nei boschi circostanti dove faceva il taglialegna, appezzando i tronchi degli alberi secchi che poi rivendeva come legna da ardere. Gli abitanti del paese, dopo un primo periodo di diffidenza, trovarono conveniente acquistare da lui la legna per i camini. Molto spesso, per far fronte alle numerose richieste, era costretto a lavorare anche i giorni festivi.

    Antonio Satta, questo era il suo nome, era comparso dal nulla a Ruone. Da circa un mese, giorno e notte, aveva iniziato a restaurare l’interno di una vecchia casa cantoniera, composta di tre stanze senza servizi igienici e senza corrente elettrica, abbandonata da anni, che gli abitanti del posto, proprio per la sua originaria destinazione, chiamavano contonera. Sin dai primi giorni quest’uomo taciturno intorno ai cinquanta anni, attirò la curiosità di tutti. Chi era, da dove veniva, perché si era stabilito proprio a Ruone? Tutti volevano sapere chi fosse quello straniero e sul suo conto iniziarono a correre le voci più disparate.

    Un giorno, mentre era intento a sistemare dei lastroni di granito che avrebbero costituito il pavimento della sua cucina, si presentò un vecchio che camminava faticosamente appoggiandosi ad un bastone di ferula. Indossava il tradizionale costume sardo di orbace. La berrita(3) nera calata sulla testa gli dava un’aria austera. In una larga cintura di cuoio, incisa con motivi floreali che gli cingeva la vita, aveva infilato la leppa(4) chiamata anche pattadesa, da Pattada, il nome del paese che aveva reso famosi in tutta la Sardegna gli artigiani che la fabbricavano. Questo era un indispensabile arnese da lavoro per i pastori, che lo utilizzavano anche per effettuare piccoli interventi chirurgici, necessari per salvare la vita alle loro pecore. La leppa era tristemente famosa perché spesso, nel corso delle risse, si traformava in un’arma micidiale e chi veniva raggiunto da una stoccata difficilmente si salvava.

    — Salute, istrangiu(5), avresti un bicchiere d’acqua da dare ad un vecchio assetato?

    — Salute e grano a voi! Se lo desiderate posso offrirvi un buon bicchiere di Nepente di Oliena(6), che certamente è meglio dell’acqua.

    — Sei gentile, istrangiu, e ti ringrazio ma mi accontento solo di un po’ d’acqua. Sai, da queste parti il vino si beve fra amici, e noi non ci conosciamo

    — Avete ragione!

    Senza aggiungere altro Antonio gli porse un bicchiere di sughero colmo d’acqua.

    Il vecchio portò il bicchiere con mano tremante alla bocca e ne sorseggiò lentamente il contenuto sino in fondo. Dopo, con gesti lenti, si asciugò la lunga barba bianca con un fazzoletto variopinto e sollevando lo sguardo verso le pareti della casa, scuotendo la testa in segno di approvazione disse:

    — Bravo, stai facendo veramente un buon lavoro! In questa vecchia contonera prima del tuo arrivo non si ricoveravano più neanche gli animali. — Poi, indicando la stuoia in un angolo della stanza, aggiunse — Adesso è diventata un casa per cristiani.

    Antonio, che sino a quel momento aveva continuato ad armeggiare attorno ad una grossa lastra, lasciò cadere il pesante martello e si sedette su un tronco appoggiato ad una parete. Il vecchio, curvo sul suo bastone, gli stava proprio di fronte.

    — Vedete, ziu… non so nemmeno come vi chiamate, ma la vostra barba bianca mi dice che comprenderete quello che sto per dirvi. Se volevate offendermi ed umiliarmi dicendo che anche gli animali hanno rifiutato il posto dove farò vivere la mia famiglia, non ci siete riuscito. Sapete bene che è il destino che decide se dobbiamo vivere in una reggia o in una caverna, indipendentemente dai nostri meriti o dalle nostre colpe. Gli uomini si giudicano soprattutto dall’onestà, dall’integrità morale e dalla loro dignità. Io sono stato sempre onesto con tutti. Le mie colpe vi giuro le ho pagate e le sto ancora pagando. Oltre alla mia famiglia non c’è nessun altro che sta pagando o ha pagato per me.

    Il vecchio prima di rispondere si sedette faticosamente a fianco di Antonio.

    — Le tue parole sono sagge e mi dispiace se sono stato frainteso. Non era mia intenzione offenderti. Volevo anzi congratularmi per come hai trasformato questo rudere lavorando da solo. Io sono Pompeo De Palmas e senza presunzione ti dico che godo della stima di tutti. Quando arrivi alla mia età o sei diventato un vecchio saggio, e ti ascoltano e apprezzano, o sei rimbambito e allora tutti ti deridono.

    Prima di continuare gli brillarono gli occhi, il suo volto sereno assunse un’espressione dura, mentre sulla fronte corrugata delle profonde rughe sembravano larghi solchi.

    — Ti dico che nessuno si è mai permesso di mancare

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