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La minaccia
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E-book440 pagine6 ore

La minaccia

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Info su questo ebook

Lorenzo Gambini non ama le persone. Di solito lo annoiano e, spesso, lo irritano. D’altro canto, la maggior parte della gente non vuole avere a che fare con lui perché la sua pessima reputazione lo precede. Il suo volto parzialmente sfigurato, poi, lo ha reso simile al mostro delle fiabe, tanto da fargli guadagnare il soprannome di Scar. In ogni caso, qualunque sia il loro motivo, tutti tendono a stargli lontano.
Be’, non proprio tutti.
Morgan Myers è l’eccezione.
Una piacevole eccezione.
Con la sua lettera scarlatta incisa sul polso, un alone di mistero che la circonda e un carattere indomito, la ragazza non solo cattura l’attenzione di Lorenzo, ma dimostra di non temerlo.
Morgan però sembra essere in fuga da qualcosa o, forse, da qualcuno, e Lorenzo è determinato a scoprire tutta la verità su di lei.
 
 

Avvertenze.
La minaccia è il primo romanzo, non autoconclusivo, della dilogia “Cicatrici”.
Il secondo romanzo, intitolato Il dolore, concluderà la serie e verrà pubblicato il 25 marzo 2024.
Il personaggio di Lorenzo compare per la prima volta nella serie “Monster in his eyes”.
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2024
ISBN9788855317399
La minaccia
Autore

J.M. Darhower

J.M. Darhower lives in a tiny town in the Carolinas with her family.

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    Anteprima del libro

    La minaccia - J.M. Darhower

    Capitolo 1

    «Sveglia, raggio di sole» sussurrò una voce agitata, scuotendo la ragazzina e destandola da un sonno profondo e senza sogni. «Ti prego, svegliati, fallo per me.»

    La piccolina sbatté le palpebre diverse volte, poi aprì gli occhi assonnati e li puntò sul viso proteso verso di lei. «Mammina?»

    La madre sorrise, un sorriso pieno e gentile, ma che non portava con sé alcuna felicità. Fuori imperversava un tremendo acquazzone, la pioggia batteva incessante e violenta contro le finestre di casa facendo agitare le fronde degli alberi. Le loro ombre danzavano sul pavimento di legno, anche a causa della luce soffusa della lampada sul comodino. Alcuni colpi riecheggiarono per tutta la casa, così forti che, dal piano inferiore, raggiunsero l’ultima camera da letto al secondo piano. Sembrava che qualcosa stesse scardinando la porta d’ingresso, ma il rumore si confondeva con il boato dei tuoni in lontananza.

    Il vento ululò. No, un momento… Non era stato il vento. Il cuore martellò nel petto della bambina. Qualcuno stava urlando. La madre continuava imperterrita a sorridere alla ragazzina, mentre le scostava con delicatezza i capelli dal viso e le accarezzava una guancia.

    «Ora, dobbiamo giocare» disse la madre con voce tremante mentre le lacrime le abbandonavano gli occhi scuri e profondi. «Ne abbiamo parlato, ricordi? Giochiamo a nascondino. Tu e io.»

    La bambina si alzò a sedere sul suo letto. Aveva una strana sensazione. Non le andava di giocare. Scosse la testa, le manine si strinsero intorno al volto della madre e le strizzarono le guance, bagnandosi di lacrime. «No, mammina! No! Non voglio!»

    «Ne abbiamo parlato» ripeté lei con voce ferma mentre i colpi al piano di sotto si intensificavano. «Fidati di me, okay? Ti fidi di me? Vero, raggio di sole?»

    La ragazzina annuì.

    «Allora, nasconditi» disse la madre. «Proprio come ti ho spiegato. Nasconditi molto bene e fai come Woody e Buzz, ti ricordi? Se qualcuno ti si avvicina, non fiatare e non ti muovere per nessuna ragione al mondo, okay?»

    La piccolina sapeva che sua madre voleva sentirsi rispondere okay, ma lei non riuscì ad articolare la parola. La sua bocca non voleva pronunciarla. «Mammina, ho paura.»

    «Lo so, tesoro,» la incoraggiò lei «e va bene avere paura, ma ricordi che ne abbiamo discusso? Ricordi cosa ti ha detto di fare la mamma quando qualcosa ti spaventa?»

    «Di darle un nome» mormorò la bambina.

    «Esatto.» Il sorriso della madre si addolcì. «Se dai un nome al mostro gli toglierai tutto il potere, perché abbiamo sempre paura di ciò che non conosciamo. Se dai un nome alla tua paura, se la identifichi, puoi diventare più forte della paura stessa e allora potrai batterla. Quindi, asciugati le lacrime e affronta le tue paure, ricordi? Asciugati le lacrime e affronta le tue paure

    Il trambusto al piano di sotto si fece più assordante, un altro colpo riverberò per tutta la casa. Era un colpo diverso dagli altri.

    La madre fissò la soglia della camera da letto, e il suo sorriso sparì. Le urla erano sempre più vicine.

    Tornò a guardare la bambina, incapace di dissimulare la paura nello sguardo. «Nasconditi. Ti troverò. Lo prometto

    Premette le labbra morbide sulla fronte della ragazzina, le trattenne lì per un istante, non troppo a lungo in realtà, poi si scostò. Dopo un attimo, sparì fuggendo dalla camera da letto e lasciando sola la bambina.

    Nasconditi, pensò la ragazzina, così solo mammina potrà trovarti.

    Afferrando il suo orsacchiotto, la piccolina saltò giù dal letto e, a piedi nudi e con addosso la sua camicia da notte rosa preferita, corse fuori dalla camera. Avevano giocato a questo gioco moltissime volte, ma mai nel cuore della notte e mai durante una tempesta e, soprattutto. mai mentre qualcuno urlava al piano di sotto. Quelle lì erano state solo delle prove generali, come l’esercitazione antincendio che avevano eseguito all’asilo, in quel momento però si stava giocando sul serio.

    Si spostò di stanza in stanza, il baccano al piano di sotto le rendeva difficile pensare. La situazione stava precipitando. Sentiva la madre implorare: «Ti prego, non farlo… ti prego

    Pensa, pensa, pensa.

    La ragazzina si fermò davanti a un armadio a muro e decise di nascondersi lì. Si arrampicò su tutti i ripiani, non per la prima volta, fino all’ultima mensola, poi spostò di lato la roba per farsi spazio e raggomitolarsi all’interno. Si schiacciò contro la parete in fondo, dietro una pila di asciugamani, ma era troppo grande per sparire del tutto. L’ultima volta che si erano esercitate, però, sua madre ci aveva messo quasi un’ora per trovarla, e avevano giocato di giorno in quell’occasione quindi, magari, il buio l’avrebbe aiutata.

    Appena si sistemò nel suo nascondiglio, il rombo di un tuono echeggiò per tutto il vicinato, e la luce abbagliante di un lampo riverberò attraverso le finestre. Lo scoppio fece tremare l’intera casa mentre la madre lanciava un urlo straziante. Un attimo dopo, calò il silenzio.

    Tutto divenne tranquillo.

    Troppo tranquillo.

    Anche la corrente elettrica si arrese, e tutte le luci scomparvero.

    L’unica cosa che la ragazzina riusciva a sentire era il battito terrorizzato del suo cuore.

    «Asciugati le lacrime e affronta le tue paure» sussurrò a sé stessa, ripetendosi quelle parole più e più volte, mentre si teneva stretta al suo orsacchiotto. Asciugati le lacrime e affronta le tue paure. Asciugati le lacrime e affronta le tue paure.

    Sentiva rumore di passi risuonare per tutta la casa, ma non appartenevano a sua madre: erano troppo pesanti, troppo controllati. Sembravano appartenere a un robot.

    Aveva senso dato che lei lo chiamava l’Uomo di Latta.

    La bambina non sapeva se anche a lui mancasse davvero il cuore, come all’Uomo di Latta de Il Mago di Oz, ma sua madre lo definiva crudele, quindi lo riteneva possibile. Si chiedeva se la pioggia avrebbe potuto arrugginirlo, visto che stava diluviando. Forse, evitare la ruggine lo terrà occupato e non verrà a cercarmi.

    «Vieni fuori, vieni fuori, dovunque tu sia» la chiamò, cercandola per tutta casa. «So che sei qui, micetta. Non puoi nasconderti per sempre.»

    Questo è quello che pensi tu, Uomo di Latta.

    Era brava in quel gioco.

    Sua madre se n’era accertata personalmente.

    Lui superò l’armadio e percorse il corridoio, sgocciolando sul pavimento. Era bagnato a causa della tempesta, aveva i capelli scuri schiacciati sulla testa e la camicia bianca, incollata al petto, solo in parte inserita nei pantaloni, e per lo più strappata in diversi punti.

    Passò un’ora a cercarla in tutta casa. Alla bambina parve un’eternità. Quanto a lungo avrebbe continuato? Quando se ne sarebbe andato? Mai?

    «D’accordo, mi arrendo» dichiarò lui, alla fine. «Hai vinto, micetta. Game over

    Udì i suoi passi pesanti dirigersi al piano di sotto. Rimase tutto silenzioso finché l’elettricità non tornò, e la casa si rianimò. Intanto, il temporale all’esterno si stava attenuando. Game over.

    La piccolina aspettò ancora un paio di minuti, costretta nell’armadio, poi i muscoli iniziarono a farle male mentre lei diventava sempre più stanca. In silenzio, scivolò fuori dal suo nascondiglio e scese al piano di sotto, chiedendosi come mai sua madre non fosse andata a cercarla.

    Con una mano teneva ancora stretto il suo orso di pezza, con l’altra si aggrappava al corrimano di legno. Trovò la porta d’ingresso spalancata. I chiavistelli erano rotti, il pannello di legno rosso scheggiato in più punti, i cardini saltati. Oltrepassò la porta e, mentre la nausea le serrava lo stomaco, si bloccò sulla soglia della cucina. «Mammina?»

    La madre era sdraiata sul pavimento, con gli occhi chiusi, e non si muoveva. La ragazzina si sedette accanto a lei e le scostò alcune ciocche di capelli dal volto rigato di lacrime. Le guance della donna erano gonfie e perdeva sangue dalla testa. C’era un segno sul collo, come se qualcuno avesse impresso l’impronta di un dito sulla sua pelle candida.

    «Mammina» la chiamò la bambina, sottovoce, scuotendola. «Puoi svegliarti, ora. Non dobbiamo giocare più.»

    «Lasciala dormire, micetta.»

    La ragazzina si irrigidì, e il cuore accelerò. Quando guardò verso la soglia, vide fermo lì l’Uomo di Latta. Si immobilizzò e trattenne il fiato.

    Proprio come in Toy Story.

    Non si mosse, per nulla, ma non stava funzionando.

    L’Uomo di Latta si avvicinò e si inginocchiò, accarezzò il viso gonfio della madre, poi premette i polpastrelli sul suo collo. Sospirando, allontanò la mano, si chinò e le posò dei baci leggeri sulle labbra dischiuse e silenziose. Sembrava un gesto dolce, pieno d’amore, o almeno così pensò la ragazzina mentre osservava la scena che nulla aveva a che fare con la rabbia che aveva abbattuto la porta.

    Forse, lui ce l’aveva un cuore.

    Non ne era certa.

    «Avanti» la spronò, alzandosi. Senza dare alla bambina la possibilità di opporsi, la sollevò per un braccio e se la sistemò su una spalla. «Dobbiamo andare.»

    Le sirene risuonavano in lontananza.

    La ragazzina, spaventata, si divincolò, provando a liberarsi dalla presa dell’uomo, e le cadde di mano l’orsacchiotto. Quello precipitò al suolo, dritto sul pavimento della cucina, dove dormiva sua madre. La piccolina strillò, in preda al panico, mentre l’Uomo di Latta la trascinava al di là della porta d’ingresso, senza il suo orso di pezza.

    Appena misero piede fuori, sotto la pioggerellina sottile, l’Uomo di Latta disse: «È tempo di tornare a casa, micetta.»

    Capitolo 2

    Lorenzo

    Manhattan. Nel cuore dell’inverno.

    Fa così freddo che i miei testicoli hanno chiuso per ferie e sono partiti per le vacanze. Vacanze in Florida, a casa mia, dove in questo periodo dell’anno la colonnina di mercurio segna ventun fantastici gradi. Loro si stanno abbronzando sotto il meraviglioso sole del sud, mentre io sono bloccato qui, a congelarmi l’uccello nell’East River.

    Sono le due del mattino. Siamo sotto lo zero, e l’aria gelida penetra attraverso il mio piumino nero. Il cappuccio orlato di finta pelliccia non basta a tenermi caldo, mi si stanno per staccare le orecchie, mi cola il naso e fa un freddo cane. Ho la sensazione che mi stiano conficcando degli aghi nella pelle, più e più volte; spilli fastidiosi che continuano a pungermi e a formicolare.

    Preferirei essere pugnalato con un coltello piuttosto che avere a che fare col freddo.

    Cumuli di neve di una recente tempesta ricoprono il vecchio pontile di legno, nascondendo lastre di ghiaccio scivoloso… ghiaccio su cui, mentre attraversavo il molo, per poco non mi rompevo il sedere, non per due ma per ben tre volte. Il trekking sulla neve sciolta non fa per me, questo è poco ma sicuro. Ho gli stivali bagnati, e le dita dei piedi stanno per raggiungere i miei testicoli in vacanza.

    Bisogna essere dei fottuti idioti per starsene fuori, al gelo, a quest’ora della notte.

    Un fottuto idiota.

    Ecco cosa sono.

    Presente.

    Lorenzo Fottuto Idiota Gambini.

    Ripetetelo con me.

    Perché me ne sto qui, su questo pontile, con le mani affondate nelle tasche del giubbotto e le dita intorpidite a cercare di prestare attenzione al cretino che mi sta di fronte e che blatera della partita di carte truccata di ieri sera, come se me ne fregasse qualcosa di piccoli giocatori senza importanza che scommettono pochi spiccioli in una città ricca di, be’, ricchi veri.

    «Quindi, come ho ripetuto, il mio capo ha detto che l’accordo è…»

    Lui sta ancora parlando. Io sto battendo i denti.

    Come ho fatto a ridurmi così?

    «Sei un senzatetto?»

    La mia domanda viene fuori insieme a una nuvoletta del mio stesso respiro e resta sospesa tra di noi, come se le parole si fossero congelate a mezz’aria nella gelida notte invernale. Lui smette di sproloquiare e mi guarda per la prima volta da quando sono arrivato, i suoi occhi si spalancano per la sorpresa… o per l’orrore, forse.

    Dato che si tratta di me, direi che l’ultima ipotesi è la più probabile.

    Mi fissa il viso per un secondo di troppo e subito capisce l’errore, perché, prima che abbia il tempo di proferire parola, distoglie lo sguardo e lo fissa su una montagnola di neve ai suoi piedi. Poi, la scalcia, come un bambino monello che sa che sta per ricevere una strigliata.

    «No… Cioè… Perché credi che io…?»

    «Perché mi hai chiesto di incontrarti qui.» Tiro fuori una mano dalla tasca e la muovo in circolo, a indicare la zona infestata di graffiti e vagabondi che ci circonda. «Avremmo potuto incontrarci dovunque… in un bar, in un ristorante, in una lavanderia a gettoni aperta tutta la notte… ma no. Mi hai trascinato qui. E nessuno viene qui a meno che non abbia un altro posto dove andare. Quindi, dimmi, sei un senzatetto?»

    «No» risponde. «È solo che, sai, è più sicuro, qui.»

    «Più sicuro.» Sul serio? «Credi che sia più sicuro incontrarmi qui, vicino al fiume, quando c’è talmente tanto buio che potrei gettare il tuo corpo nell’acqua senza che nessuno si accorga di un cazzo?»

    «Ma il mio capo…»

    «È un fottuto idiota» affermo, interrompendolo di nuovo. «Più idiota di me che ho acconsentito a questa buffonata di incontro con un tirapiedi qualsiasi, mentre avrei potuto starmene a casa, nel mio letto, insieme alla bellissima biondina che mi stava cavalcando e che ho dovuto cacciare via un’ora fa per riuscire ad arrivare qui in tempo. Il che non è poco, sai, perché lo sto rivalutando come il secondo sbaglio più grande della mia vita e nemmeno mi piace, quella donna. Parla troppo.»

    Il ragazzo torna a guardarmi. È un’occhiata fugace, ma sufficiente per rivelarmi che da qualche parte, dentro di lui, è nascosto un certo coraggio. Ha le palle per non essersela già data a gambe. Il tipo di palle che possono sopportare questo dannato freddo. Palle d’acciaio.

    È qui per ordine del suo capo, un uomo che si chiama George Amello. Il buon vecchio Mello Yello è uno dei sedicenti boss spuntati dopo il grande Massacro della Mafia, ossia come i giornali hanno poeticamente definito l’esecuzione di tutti i capi delle Famiglie criminali di New York in una stanza di Long Island. Massacro che mi ha permesso di prendere il comando della città.

    La competizione, in questo momento? Piuttosto deludente.

    Sono così inesperti, così melodrammatici che sta diventando noioso. Sono convinti di giocare a Il Padrino, scimmiottano Michael Corleone, ma non sono mai stati niente di più di un debole Fredo. Sono delle femminucce e, in tutta onestà, mi sto stancando di avere a che fare con femminucce che non abbiano l’aspetto di donne vere. Le donne vere hanno una cosa che passerei la vita a venerare. Questi tizi? Sono solo dei buffoni.

    Non vale la pena perdere i miei testicoli per loro.

    Mi piacciono le mie palle. Esaltano alla perfezione il mio cazzo, sapete? Ve lo mostrerei, ma, be’… dovrete meritarvelo, prima. Quindi, prestate attenzione, okay? Abbiamo un lavoro da portare a termine.

    «Ascolta» cerco di farla breve, ne ho abbastanza di questa cazzo di atmosfera invernale. Alcuni fiocchi di neve prendono a cadere dal cielo, e questo è proprio il segnale che devo portare il culo al coperto. «C’è un bar alla fine della strada, si chiama Whistle o qualcosa di simile.»

    Qualcuno si schiarisce la voce alle mie spalle. «Whistle Binkie.»

    Mi ero quasi dimenticato di aver portato con me Sette, stanotte. È sempre presente e pronto a coprirmi le spalle, ma non ha l’abitudine di immischiarsi o essermi d’intralcio. Lo apprezzo. La gente che mi è di intralcio tende a fare una brutta fine, e mi dispiacerebbe far fare una brutta fine a uno dei miei uomini migliori. È un po’ più grande di me, sui quarantacinque, e considera le strade di questa città casa sua sin da quando era solo un ragazzino. Vestito di nero dalla testa ai piedi, si confonde con l’oscurità, proprio come è sua intenzione.

    Quell’uomo è la mia ombra.

    «Esattamente quello» confermo. «Vado a bermi un drink al Whistle Binkie prima che chiudano. Vuoi proseguire questa conversazione? Mi trovi lì, ma questo» indico di nuovo lo spazio che ci circonda. «Questo, toglitelo dalla testa, amico.»

    Il ragazzo se ne sta impalato, senza dire una parola, mentre io mi allontano, diretto alla mia auto parcheggiata vicina al molo. Sette mi segue adeguandosi alla mia andatura e non si scompone affatto quando slitto sul ghiaccio, rischiando di nuovo di finire col culo per terra. Odio l’inverno.

    Infastidito, mi infilo sul sedile del passeggero della mia bmw nera, ignorando volutamente la cintura di sicurezza. Si tratta di un isolato solo, dopotutto. Potrei anche camminare, ma ho il sospetto che più che una camminata sarebbe una pattinata sul ghiaccio, e io non pattino.

    Non se posso evitarlo, comunque.

    Sette guida. È stato abbastanza intelligente da indossare dei guanti, stanotte; guanti di pelle nera che gli aderiscono alle dita strette intorno al volante. Ha un passamontagna sollevato in cima alla testa, per lo più nascosto dal cappuccio ingombrante che tiene calato sulla fronte. Sette è un uomo di corporatura normale, alto più o meno quanto me e abbastanza magro, e con una pelle così olivastra da sembrare cuoio.

    Ferma l’auto in doppia fila davanti al Whistle Binkie e aziona le quattro frecce. «Hai bisogno che venga con te, capo?»

    «Noo, tranquillo» rispondo. «Cerca parcheggio, ti chiamerò appena sarò pronto ad andare. Non allontanarti troppo.»

    «Sì, capo.»

    Scendo, aggiro le macchine parcheggiate per salire sul marciapiede e mi fermo lì. Intanto, Sette riparte. Lui non beve. È contro la sua religione, dice. È cresciuto tra i mormoni e ancora aderisce ad alcuni dei loro principi, tipo non bere alcol o non scopare in giro. A quanto pare, però, non uccidere è un comandamento più negoziabile, per lui. Appena svoltato l’angolo, spingo la porta del bar ed entro.

    È abbastanza affollato, ma non è poi così sorprendente, giusto? È sabato sera nella città che non dorme mai, e la birra in questo locale è quasi regalata. Trovo uno sgabello libero al bancone e mi ci accomodo mentre chiamo con un cenno il barista, un giovanotto che a malapena ha l’età anagrafica per bere.

    Lui si avvicina senza staccarmi gli occhi di dosso, come se fossi un animale rabbioso pronto ad azzannarlo.

    Sono abituato a questo tipo di sguardo. Mi guardano così da quando, a sedici anni, il mio patrigno mi ha spaccato la faccia a metà con un badile. Un lato del mio viso, il destro, non si è mai risanato del tutto: una cicatrice lo solca in verticale dall’occhio alla guancia. Sono cieco da quell’occhio, ho un leucoma corneale, ossia una sorta di placca biancastra sulla cornea che rende la mia iride opaca e di un celeste più chiaro rispetto a quello con cui sono nato.

    Quindi, sapete, ci sono abituato. Ho avuto vent’anni per abituarmici. Per abituarmi ai commenti, alle occhiate malevole, alla repulsione. Agli estranei che mi fissano. Ai bambini che indietreggiano appena mi vedono. Molti hanno paura di guardarmi in faccia, neanche fossi uscito da uno dei loro peggiori incubi.

    Seppure ci sia abituato, non significa che mi piaccia, però. Non significa che non sia tentato di cavare loro gli occhi e poi chiedere come ci si senta.

    «Cosa posso portarle?» domanda il barista.

    «Rum» ordino.

    «Uno shot?»

    «Una bottiglia.»

    Il ragazzo tentenna, come se stesse pensando di non portarmela, e questo sarebbe un errore. Con l’umore che ho stasera, sarei capace di saltare al di là del bancone e prendermela da solo. Poi, però, mi accontenta risparmiandosi un sacco di problemi, considerando che sarei stato incline a fargli saltare un paio di denti se fossi stato costretto a servirmi da solo.

    Si china a recuperare una bottiglia di rum da sotto il bancone, me la fa scivolare di fronte e, finalmente, mi mette davanti un bicchierino da shot. Poi, va ad occuparsi di un altro cliente.

    Io mi riempio con attenzione il bicchiere e ne svuoto il contenuto in un colpo solo.

    Trasalisco. Brucia. Esofago e stomaco vanno a fuoco mentre continuo a buttare giù liquore. Sento che mi sta scaldando, cancella il freddo. È roba scadente, così sottomarca da non meritare neanche un posto tra le altre bottiglie sullo scaffale specchiato dietro al bar. In effetti fa così schifo che è probabile mi stia corrodendo le budella proprio ora, mentre chiacchieriamo.

    «Sarebbe meglio bere solvente per vernici» commenta una voce, giocosa e femminile, con un accento che mi fa pensare a casa. No, non parliamo così, in Florida, ma ha una tonalità che mi ricorda il caldo. Il sole. Le notti stellate e i cieli senza nuvole.

    È oltremodo sdolcinato, lo so.

    Non riferite a nessuno che ho detto una stronzata del genere.

    Seguo la direzione della voce e, in diagonale oltre il bancone, a un paio di sgabelli di distanza incrocio lo sguardo di una donna.

    È giovane, appena ventenne direi, con capelli castani e ribelli, di quelli spettinati a causa del continuo passaggio delle dita. È come se qualcuno li avessi stretti nel pugno e ci si fosse aggrappato mentre la scopava senza pietà. Il suo volto la tradisce, però, con quei suoi enormi occhi scuri, occhi innocenti, e quel sorriso particolare, quasi timido, che sembra curvarsi solo da un lato. Le sue labbra sono laccate di un rosso color sangue e si intonano al vestitino aderente e a manica lunga che indossa. O è una ragazza di classe, una specie di moderna Marilyn Monroe, oppure è il tipo disposto a succhiarmi il cazzo in un vicolo se le offro da bere.

    Ho scoperto che in questa città non esistono mezzi termini per donne che portano addosso così tanto rosso.

    «Sai come si dice» replico. «Se non ti uccide…»

    «Ti rende più forte» conclude lei.

    «Stavo per dire non si sta impegnando abbastanza, ma funziona anche la tua versione.»

    Il suo sorriso si allarga, e un divertimento sincero le si dipinge in viso, mentre mi guarda… mi guarda davvero.

    Non si sta voltando dall’altro lato. Mmm.

    Magari, questa nottata non sarà proprio da buttare.

    Fisso lei e lo squallido boccale che ha in mano, pieno per metà di quella che presumo sia birra alla spina. Non ha l’aspetto di una bevitrice di birra, sembra più una ragazza da tequila. Da margarita. Shottini bevuti direttamente dal suo corpo. Sale. E tutto il resto.

    «Allora, cosa ci fa una donna come te, tutta sola, a bere birra scadente in una bettola a quest’ora della notte?»

    Lei mi studia per un momento, prima di rispondere: «Cosa ti fa pensare che sia sola?»

    Guardo alla sua destra e alla sua sinistra. Il ragazzo alla sua sinistra, quello che sta in mezzo a noi, è così ubriaco che è svenuto sul posto. Alla sua destra, c’è uno sgabello vuoto. Ed è vuoto sin da quando sono entrato. Se non è qui sola, chiunque l’accompagna non è affatto preoccupato della sua incolumità. «Perché un ragazzo dovrebbe essere uno stupido a lasciarti seduta lì tutta sola, con l’aspetto che hai, rischiando di poterti perdere.»

    «Tu credi?»

    «Oh, senza dubbio. Io ti ruberei a lui in un istante.»

    Arrossisce. Le guance le si tingono di un rosa tenue messo ancora più in risalto dal cremisi delle sue labbra, e intanto prova a contenere un sorriso, ma fallisce… miseramente. «Raffinato. Di solito, questa battuta funziona?»

    «Ogni singola volta,» rispondo «ma non la definirei una battuta. È la verità. Se non ci si prende cura dei propri averi, qualcuno sarà ben più che felice di impossessarsene.»

    Lei ridacchia, scuote la testa e riporta la sua attenzione alla birra. «Non tocchiamo questo tasto.»

    Prima di poter proseguire la nostra conversazione, la porta del bar si apre, e il ragazzo del pontile fa il suo ingresso. Ci ha impiegato un po’. Iniziavo a pensare che non sarebbe venuto, che mi ero sbagliato sul fatto che avesse gli attributi, che il suo capo glieli avesse già tagliati.

    Per quanto sarebbe divertente giocare con la graziosa brunetta, ci sono degli affari che mi aspettano. Lo so, lo so, anche il mio cazzo si sta lamentando.

    Scivolo giù dallo sgabello, agguanto la bottiglia di rum e il bicchierino vuoto e, prima di raggiungere il ragazzo, faccio un cenno di saluto alla brunetta. Individuo un tavolino per due accanto alla porta, mi siedo su una sedia traballante e indico a lui di accomodarsi di fronte a me. «Siediti.»

    Mi ascolta, è obbediente. Probabilmente, si rotolerebbe per terra e mi implorerebbe se gli ordinassi di farlo, e tutto per compiacere il suo padrone. Ma quanto è bravo questo bambino?

    «Allora, come stavo dicendo» balbetta, riprendendo il discorso dal punto esatto in cui l’avevamo interrotto. «Queste partite a carte sono importanti per il mio capo. Le persone che ci giocano… anche loro sono importanti. Tutti questi incidenti e problemi che si stanno presentando stanno facendo scappare la gente, pertanto il mio capo vuole stringere un accordo con lei.»

    «Lui vuole un accordo con me» ripeto, riempiendomi il bicchiere e versando per sbaglio un po’ di liquore anche sul tavolo. «Di che tipo di accordo stiamo parlando?»

    «È disposto a darle una fetta dei profitti.»

    «Quanto?»

    «Il dieci percento.»

    Per poco non mi strozzo col rum, tossisco, e il bruciore mi fa mancare il respiro. Il dieci percento. L’idiota mi sta offrendo il dieci percento di poco e niente. Spiccioli. «Vediamo se ho capito bene. Il tuo capo ha un problemino con alcuni ladri che mandano a puttane le sue partite. Quindi, in cambio del dieci percento di quello che guadagna da queste partite, da me vorrebbe che cosa, di preciso? Che gli garantisca protezione? Sorveglianza? Non sono a capo di un fottuto servizio di sicurezza. Che cosa vuole da me?»

    Resta in silenzio per un attimo. «Vuole che lei smetta di derubarlo.»

    Lo fisso. Intensamente. Lo fisso finché non comincia ad agitarsi mentre aspetto che ritratti la sua accusa, ma non dice niente.

    «Mi stai accusando di essere un ladro?»

    «Io non la sto accusando di niente. Il mio capo, sì.»

    «Come ho detto, il tuo capo è fottuto idiota.» Tiro via il beccuccio dosatore in plastica dalla bottiglia di rum e lo getto sul tavolo, mandando al diavolo le buone maniere. Non che la gente se le aspetti da parte mia, dopotutto. Chi ha bisogno di modi ed educazione con una faccia come la mia? Si aspettano il peggio, e cosa posso dire? Non mi piace deluderli. «Non ho alcun interesse per le sue misere partite di rubamazzetto con i mocciosi con cui fa affari.»

    «Sì, gliel’ho detto» replica. «Gli ho detto che non è il suo modus operandi.»

    Bevo una sorsata di rum direttamente dalla bottiglia prima di puntarla verso di lui. «Cosa ne sai tu del mio modus operandi?»

    «So che non è una questione di soldi, per lei» spiega. «Il denaro è un valore aggiunto, ovvio, ma non è il motivo che la spinge ad agire. Per lei, si tratta di potere. Di rispetto. Non sprecherà mai energie per qualcosa che non ritiene all’altezza del suo nome.»

    Ci ha preso. Si dà il caso che sia un fan dei gesti eclatanti, di chi rischia il tutto per tutto. Va’ alla grande, oppure tornatene a casa. Potrebbe avere ancora più palle di quanto gli abbia concesso al pontile, ma è ovvio, guardandolo e ascoltandolo, che il suo capo lo dia per scontato. Georgie l’ha mandato qui, stanotte, sapendo che c’erano buone possibilità che non avrebbe visto il sorgere del sole. Lo considera sacrificabile, un semplice intermediario e, nonostante il luogo comune, tutti sanno che sono il tipo che spara al messaggero.

    «Dimmi una cosa.» Prendo un altro sorso di rum. «Quanto ti ha dato il tuo capo per venire qui? Come intende ricompensarti?»

    Lui esita. «Nessuna ricompensa.»

    «No?»

    «È il mio lavoro, sono qui perché è ciò che faccio.»

    «Consegni messaggi?»

    «Tra le altre cose.»

    Riesco a leggere il significato nascosto tra le sue parole. I messaggi che recapita non sono verbali. Non sono avvertimenti, non sono stupidi affarucci. Porta messaggi sotto forma di proiettili in un occhio che comunicano al mondo: Ti vedo, brutto figlio di puttana. Ti vedo.

    È un tipo intuitivo. Deve esserlo per forza, o non sarebbe stato in grado di interpretarmi. Sono qualità rare, al giorno d’oggi. Nessuno si fida più del proprio istinto, e invece bisognerebbe ascoltarlo. A volte, il cervello va in tilt, e tutto diventa caotico e confuso, e il cuore… be’, non ci si può fidare di quel figlio di cagna. Sarà sempre il primo a tradirti, ti farà credere che il mondo è un posto bellissimo e ti farà dimenticare tutta l’oscurità che l’avvolge. Ti farà sperare, avere fiducia, e poi ti distruggerà, proprio quando comincerai a pensare che forse va bene non essere così maledettamente freddi.

    E l’istinto? L’istinto lo sa. L’istinto ha memoria. Bisognerebbe sempre dargli ascolto.

    Dopo un altro sorso di rum, scosto la bottiglia di lato e mi protendo sul tavolo, accorciando la distanza tra noi. Lui sbianca. Cazzuto e perspicace, sì, ma il ragazzo è anche inquieto, nervoso per come andrà a finire, preoccupato che possa ucciderlo per le cose che ha detto.

    Non posso negare che il pensiero non mi abbia sfiorato, ma ho deciso che gli darò una chance, forse perché stasera mi sento magnanimo o, molto più probabilmente, perché sono un subdolo figlio di puttana. E poi, mi annoio. Stuzzicare il cane che dorme potrebbe essere divertente.

    «Ecco cosa succederà» esordisco. «Tu torni dal tuo capo e gli comunichi la mia controfferta, perché per me l’accordo che mi sta proponendo non funziona.»

    Lui abbassa lo sguardo sulle sue mani, incrociate sul tavolo in una posizione quasi di preghiera, e resta in silenzio per un attimo prima di domandare: «Qual è la sua controfferta?»

    Mi infilo una mano in tasca e tiro fuori il mio portafoglio, ormai usurato, in pelle. Scorro le banconote, solo pezzi da cento, e ne sbatto una sul tavolo per pagare il rum, poi mi rimetto il portafoglio in tasca.

    «Di’ al tuo capo che può succhiarmi il cazzo» dichiaro spingendo la sedia all’indietro per alzarmi. «Se sarà abbastanza bravo con la bocca, forse non gli farò saltare in aria il cervello per avermi dato del ladro.»

    Un brivido mi attraversa, mi formicola la pelle e mi si rizzano i peli sulle braccia per la scarica di adrenalina. Non sarei mai dovuto uscire di casa, non mi sarei mai dovuto prendere il disturbo di venire a questo incontro, non avrei mai dovuto concedere a questi coglioni una parte del mio tempo.

    Quando mi avvio verso l’uscita, sono quasi le tre del mattino ormai, il cielo è nero come la pece e ha pure ricominciato a nevicare forte. Voglio solo tornarmene a casa e dimenticarmi di essere stato così stupido da aver assecondato questa stronzata. Appena metto piede fuori, mastico un’imprecazione. Il freddo mi schiaffeggia la faccia e quasi mi toglie il fiato, allora mi sollevo il cappuccio sulla testa per provare a limitare l’aggressione del gelo.

    Recupero il cellulare e chiamo Sette, gli occhi fissi sulla strada silenziosa mentre cammino avanti e indietro sul marciapiede.

    Squilla una. Due. Tre volte.

    La porta del bar si apre proprio quando Sette risponde. Prima che abbia l’opportunità di dire qualsiasi cosa, qualcuno mi urta da dietro. Barcollo perdendo quasi l’equilibrio, pattino leggermente sul ghiaccio e mi cade il cellulare di mano.

    Merda.

    Rimbalza sul marciapiede e finisce su un cumulo di neve. Lo sollevo da terra e, tra un’imprecazione e l’altra, provo

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