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Disintegrati
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E-book121 pagine1 ora

Disintegrati

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Info su questo ebook

Sentirsi disintegrati è una sensazione che chi lavora con la disabilità conosce bene: la favola dell’inclusione, del non lasciare indietro nessuno, sembra ancora ben lontana dal diventare realtà. In queste pagine, storie di disabilità, di incontri e di emozioni si intrecciano con i vissuti di chi la disabilità la osserva solo dall’esterno, restandone segnato: un piccolo viaggio tra quelle vite e quei bisogni che troppo spesso vogliamo “normalizzare”, anziché accettare per quello che sono.
LinguaItaliano
Data di uscita24 lug 2020
ISBN9788833466637
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    Anteprima del libro

    Disintegrati - Elisabetta Votta

    Gioia

    Premessa

    La nascita di un libro non è mai casuale: c’è un momento preciso in cui nella testa scatta qualcosa e tutte le esperienze si allineano e si dispongono in un’unica storia, comprensibile non solo a noi, ma anche agli altri. Si riesce, finalmente, a trovare un senso a ciò che è accaduto nel corso degli anni, guardandolo dal di fuori.

    Ciò può avvenire quando c’è un distacco fra te e le cose, non quando sei tra le cose.

    «O si scrive o si vive», qualcuno ha detto. Adesso è tempo di scrivere, di metabolizzare l’esperienza. Scrivere delle storie che ho incontrato, e, in conseguenza, scrivere di me.

    Dialogare con la sofferenza altrui è stato un modo per esorcizzare le mie paure, per canalizzare le mie ansie, per andare oltre i confini di quanto è già stato scritto ed è già stato detto.

    Ho sempre voluto scrivere dell’handicap; non qualcosa di scientifico, ma parlare di emozioni, che sono la vera dimensione dei rapporti attraverso i quali si attua ogni intervento didattico, educativo e terapeutico.

    Emozioni di noi che lavoriamo nel sociale, medici, psicologi, operatori, insegnanti.

    Emozioni dei ragazzi disabili, visti nella loro interezza e non dall’handicap.

    Emozioni di chi ha subito e subisce ogni giorno la legge del più forte o la casualità.

    Se penso a questi anni, passati a Roma, devo legare inscindibilmente il mio nome all’handicap. E devo dire, senza ombra di dubbio, che sono una persona che ha sempre lavorato nel sociale: termine ambiguo che indica, in realtà, che in varie situazioni e con diversi ruoli mi sono sempre occupata dei deboli e su questo ho costruito la mia identità lavorativa.

    Su questo lavoro posso dire tante cose, forse che all’inizio non ne avevo voglia, ma poi, una volta che mi ci son trovata, mi sono coinvolta ed è stato utile per me e per gli altri.

    Posso dire forse di aver dato e di aver avuto. Ma quello che posso dire con certezza è come sono adesso, dopo quindici anni: disintegrata, così come lo sono, probabilmente, le persone che ho assistito, quelle a cui insegno, quelle che ho ascoltato, nella parcellizzazione continua cui vengono sottoposte, nell’ipocrisia di barriere che non si possono superare.

    Raccontare come ciò sia avvenuto vuol dire ricostruire un puzzle, mettere in luce le contraddizioni insite nell’approccio a tali problematiche partendo dalle storie delle persone che ho incontrato, attraverso le quali ho costruito la mia storia: storie di emozioni, vissute da dentro.

    L’handicap dell’anima, è questo ciò che provo adesso. È il burn out, fenomeno che porta – c’è scritto sui libri – chi lavora nel settore a ritirare l’investimento emotivo sul lavoro e a sperimentare sentimenti di fallimento e di impotenza.

    Io questo, oltre che impararlo sui libri, l’ho vissuto sulla pelle.

    Un conto è leggerle, le cose, un conto è viverle… il fuoco è passato e ha lasciato rami secchi che non danno frutti.

    Passione, voglia, dedizione, professionalità, coinvolgimento, rabbia, impotenza, rassegnazione, vuoto… distanza tra te e quello che, fino a poco tempo fa, era il tuo mondo.

    È andare in pezzi e non riuscire più a trovare un senso al tuo agire.

    Dopo qualche anno sono gli operatori del sociale a diventare handicappati perché chiusi nell’immobilità e soprattutto oppressi da un modo di pensare e di sentire, nella società, molto lontano dal considerare realmente alcune situazioni.

    Vivere sempre sulle barricate per abbattere barriere visibili e invisibili: questo è il destino di chi lavora con la disabilità, con il disagio, e porta nell’anima tante lacerazioni, perché non sempre si riesce ad aiutare, perché a un certo punto tutta la sofferenza che hai visto ti cade addosso, perché ci si prosciuga nel dare e non si ha più la forza di vivere la propria vita.

    L’entusiasmo iniziale si cristallizza in gesti e parole uguali, si diventa mummie di se stessi.

    Prima c’è la rabbia, lava che avanza, inarrestabile, che travolge e distrugge; poi il distacco: devi allontanarti per recuperare i tuoi spazi, per vivere.

    Dopo, c’è il silenzio.

    È il silenzio ad aver sancito la fine di ogni esperienza emotiva e lavorativa.

    Quando tutto è stato detto e tutto è stato fatto, le mura ti riversano addosso echi di parole che furono, dilatate nel cuore e nella mente e poi svanite, in virtù del loro essersi espanse oltremisura.

    È il non sapere, né volere spezzare le catene.

    Il silenzio si fa spazio dove prima c’erano le grida.

    L’inizio

    Uscita dalla metropolitana, Roma mi buttava addosso il sole sfacciato di giugno.

    È bella, Roma, alle soglie dell’estate: frigge di vita e brulica di sogni, che si vanno a perdere nel blu profondo delle notti e nell’eco lontana di grilli e di cicale.

    Mancavano pochi mesi alla laurea e l’attesa dell’estate si mescolava all’attesa del futuro da inventare.

    Con il sole in faccia e la testa leggera mi ero avviata verso una fila di alti palazzi, anacronistici nella loro monumentalità, signorili e perbene, tipiche abitazioni di chi Roma la vive da sempre, non di chi è di passaggio, come quelle a cui ero abituata.

    Avevo suonato toccando il campanello in punta di dita e mi era venuta ad aprire una signora dai lunghi capelli e dal fisico snello, che senza parlare mi aveva condotto in fondo a un corridoio lucido.

    In una stanza che l’altezza del soffitto dilatava a dismisura, su un tappetino blu, giaceva Lia, un mucchietto rattrappito di ossa che emetteva suoni disarticolati e che stringeva con tutta la forza possibile il dito di una ragazza seduta vicino a lei.

    Quello è stato il primo incontro con l’handicap per me che di handicap non avevo sentito parlare mai: nella vita spensierata condotta fino a quel momento non esisteva questa dimensione che ora entrava, in modo violento, nel mio campo visivo e vitale.

    A pensarci adesso, è strano che fino a ventitré anni non avessi mai visto un disabile: forse, nella cittadina di provincia in cui ho vissuto, li tenevano a casa, questi ragazzi, e fuori non se ne vedevano, come qui a Roma, e ce ne sono tanti che spiano la vita da una finestra.

    Fuori da quella porta era rimasta la mia innocenza: non può più essere la stessa vita di chi ha visto il grumo di dolore che c’è in alcune case, uno sprazzo della tragicità dell’esistenza che nascondiamo dietro mille luci colorate. Avevo sentito, dentro di me, una sensazione strana che ancora oggi non so definire, una mescolanza di paura ed esaltazione: quello che era certo era che i libri che avevo letto non sarebbero bastati.

    Lia era qualcosa a cui avvicinarsi con circospezione: avevo paura di toccarla, come se le sue ossa potessero andare in pezzi, mi sentivo stupida a parlare, sapendo che non potevano esserci risposte. Ma mi ero accorta, subito, che le risposte c’erano, bastava cercarle: nonostante fosse completamente paralizzata, i suoi occhi esprimevano tutto il dolore e il piacere del mondo, se riuscivi a leggerci dentro.

    Quegli occhi diventarono, ben presto, lo specchio delle mie emozioni, dei miei sentimenti, e nei pomeriggi che trascorrevo a casa sua mi sentivo messa a nudo da quello sguardo, di fronte a me stessa come non era mai successo.

    Lia era la personificazione di tutto ciò che è handicap: impotenza, vuoto, frustrazione di ore, esaltazione di un minuto.

    La madre, quella dal corpo snello e dai capelli lunghi, era incredibile: seguiva la figlia con dedizione inesauribile, pronta a spiare ogni cambiamento, pronta a combattere, per quella figlia che, senza volerlo, le aveva cambiato l’esistenza.

    Questa è

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