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Dove la terra trema
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E-book194 pagine2 ore

Dove la terra trema

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Info su questo ebook

Una passione torbida, un omicidio brutale, un segreto che ritorna inesorabile dal passato.
Il romanzo che ha ispirato il grande film Netflix con Alicia Vikander, prodotto da Ridley Scott.

Quando la notte inghiotte pure la luce dei lampioni e il verso metallico di un uccello notturno si fa strada nel silenzio, Lucy Fly sa che la terra sta per tremare. Anche il giorno in cui viene arrestata, Tokyo si è risvegliata con una scossa di terremoto. Non è certo una cosa inusuale, nella capitale giapponese, eppure Lucy la vede come una metafora di ciò che le sta accadendo. La sua nuova vita nella immensa città nipponica è stata meticolosamente ricostruita per fuggire dai tragici segreti che oscurano la sua esistenza e il suo passato in Inghilterra. Ha scelto l’anonimato, un tranquillo lavoro da traduttrice, poche amicizie e un solo uomo, Teiji, un fotografo giapponese a cui è legata da una passione totalizzante. Eppure, di nuovo, tutto sta per sgretolarsi sotto i suoi piedi. Mentre viene trascinata in commissariato per un fitto interrogatorio, Lucy ha ben chiaro cosa vogliono sapere da lei. Come mai Lily Bridges, sua amica, inglese come lei, è stata vista per l’ultima volta viva vicino a casa sua, mentre litigavano, e poi il suo corpo è stato ritrovato smembrato, al largo della baia? Perché da quel giorno Teiji, il suo affascinante fidanzato, che amava fare scatti rubati a entrambe le amiche, è scomparso senza lasciare traccia? Ma soprattutto, chi è e cosa sa davvero Lucy Fly?
Ambientato in una Tokyo vertiginosa e convulsa, Dove la terra trema è un thriller inquietante e oscuro, che ci trascina nella mente di una donna vulnerabile e allo stesso tempo astuta come un animale intrappolato.
Da questo romanzo, tradotto in oltre venti paesi e vincitore di numerosi importanti premi per crime e thriller, è stata tratta una prestigiosa produzione Netflix e Ridley Scott, con il premio Oscar Alicia Vikander.

“Un viaggio allucinante nella mente di una donna sola e braccata. Lascia un brivido lungo la schiena anche dopo l’ultima pagina” - Observer
LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2019
ISBN9788830505513
Dove la terra trema
Autore

Susanna Jones

Susanna Jones, Cresciuta nello Yorkshire, ha studiato drammaturgia alla London University, dove ha cominciato a interessarsi alla cultura giapponese studiando il teatro No. Ha vissuto in Giappone per diversi anni, lavorando in radio. Oggi vive a Brighton.

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    Anteprima del libro

    Dove la terra trema - Susanna Jones

    successivo.

    1

    Questa mattina presto, alcune ora prima del mio arresto, sono stata svegliata da una scossa sussultoria. Se ne parlo, non è per insinuare che tra i due fatti esista un collegamento – cioè che i piani di faglia della mia esistenza si siano scontrati dando vita a un paio di poliziotti – perché a Tokyo di questi terremoti ne abbiamo uno al mese, a volte anche di più, e la scossa di questa mattina non era niente di speciale. Sto solo raccontando i fatti nella sequenza in cui sono avvenuti. È stata una giornata strana e non vorrei dimenticare nulla.

    Dormivo profondamente sotto la trapunta del futon e a svegliarmi è stato il frastuono degli appendiabiti che sbattevano contro le pareti dell’armadio. Dalla cucina proveniva fracasso di piatti e il pavimento scricchiolava. Benché l’oscillazione mi desse la nausea, non mi sono accorta subito che mi stavo muovendo. È stato solo quando dall’esterno mi è giunto il suono familiare che ho capito. Una voce metallica gemeva lugubre nel vento, lontana. Mi sono raddrizzata a sedere, tremando.

    Da quando Lily è morta e Teiji è scomparso, mi innervosisco facilmente. Ho spalancato l’armadio e ho strisciato sotto gli appendiabiti. Mi sono infilata il casco da ciclista, ho afferrato la torcia che avevo fissato con lo scotch a un’anta e mi sono rannicchiata in un angolo. Ho acceso la pila e controllato che il fischietto e la borraccia con l’acqua per l’emergenza terremoto fossero al loro posto. C’erano. Uno scarafaggio è passato veloce sulla mia gamba nuda e ha deciso di fermarsi accanto a me.

    «Va’ via» ho sussurrato. «Sparisci. Hai capito? Non ti voglio qui dentro.»

    Ho visto le sue antenne nere vibrare leggermente nella mia direzione, poi è scomparso luccicando in una fessura invisibile del muro.

    Mi ci è voluto qualche momento prima di rendermi conto che l’armadio non si muoveva più. Il terremoto era finito. La notte era di nuovo tranquilla.

    Sono tornata carponi al calduccio del mio futon, però non sono più riuscita a prendere sonno. Adesso sapevo di non essere sola in casa. Ho ripiegato il cuscino sotto la testa e mi sono rannicchiata su un fianco. Conosco molti trucchi per tenere a bada i fantasmi e l’insonnia. Uno di questi consiste nel sottoporre me stessa a un esame di giapponese. Ho preso la parola terremoto, jishin, e ho cercato di farmene venire in mente altre che si pronunciano nello stesso modo ma si scrivono con un ideogramma diverso. Mettendo insieme ji, che vuol dire sé, e shin, che significa fiducia, si ottiene sicurezza. Scrivendolo con caratteri diversi, un terremoto può diventare la lancetta dell’orologio, un ago magnetico, o semplicemente se stesso, me stessa. Qui mi sono fermata, a corto di idee. Se c’erano altre parole, ora non mi venivano in mente. In genere prima di cedere al sonno sono in grado di elencarne sette o otto, invece questa mattina il gioco non funzionava.

    Ho tentato una strategia diversa. Ho immaginato di avere Teiji accanto a me nel letto, di essere tra le sue braccia magre mentre mi culla per farmi addormentare, come succedeva nei giorni felici in cui dormivamo tenendoci stretti. Un tempo i terremoti piacevano a tutti e due, come i temporali e i tifoni. Il ricordo ha avuto un effetto confortante e credo di essermi appisolata per un’altra mezz’ora. Quando mi sono risvegliata, la luce aveva invaso la stanza. Ho piegato il futon e l’ho spinto con un calcio nell’armadio. Ho afferrato un pacchetto di spaghetti precotti per il pranzo e ingollato una tazza di tè. Alle sette in punto sono uscita per andare a lavoro non sentendomi né più stanca né peggio di come mi fossi sentita nelle ultime settimane. Prevedevo una giornata uguale alle altre, in ufficio.

    La polizia è venuta a prendermi nel pomeriggio. Seduta alla mia scrivania, lavoravo alla traduzione di un nuovo modello di pompa di bicicletta. Ero molto concentrata e non ho notato l’arrivo dei visitatori. Non si trattava di un compito particolarmente difficile – mi vengono sempre affidati noiosi documenti tecnici e me la cavo piuttosto bene – ma riusciva a distogliere i miei pensieri dai recenti avvenimenti disastrosi. All’improvviso mi sono resa conto che i miei colleghi avevano smesso di lavorare e guardavano verso la porta. Ho alzato la testa. Sulla soglia c’erano due poliziotti. La cosa non mi ha sorpreso. Nessuno è rimasto sorpreso. Volgevano tutti lo sguardo dai poliziotti a me e viceversa.

    Essere arrestata proprio in ufficio, davanti a un pubblico ostile, era un’umiliazione che non volevo subire. Mi sono alzata con un balzo, nella speranza di anticipare la mossa dei due agenti.

    «Sono venuti per me» ho farfugliato. «Credo che vogliano farmi ancora qualche domanda. Nessun problema.»

    E, prima che riuscissi ad attraversare la stanza, mi sono sentita chiedere: «Lei è la signorina Fly? Dobbiamo accompagnarla alla centrale di polizia per interrogarla in merito alla scomparsa di Lily Bridges. Porti con sé il permesso di soggiorno».

    Ero in piedi davanti alle due uniformi blu e cercavo di guidarle verso l’uscita.

    «Ce l’ho in tasca. Lo porto sempre con me. Ma ho già risposto a molte domande. Non riesco a immaginare che cos’altro potrei dirvi.»

    «Ci sono stati nuovi sviluppi. Vorremmo che lei ci seguisse.»

    Ero nervosa. Riuscivo a immaginare un solo potenziale sviluppo, ma non osavo chiedere. Avevano trovato le parti mancanti del corpo di Lily? A quel punto il mare poteva averle restituite, oppure erano finite nelle reti dei pescatori che uscivano di notte. Forse la polizia era riuscita a ricomporre il corpo e a procedere a un’identificazione ufficiale. In questo caso sarebbe stata una semplice formalità. Secondo i giornali la polizia era già sicura che si trattasse di Lily.

    La vita in ufficio non era stata più la stessa, da quella mattina di un paio di settimane prima. Qualcuno aveva portato il Daily Yomiuri, facendolo passare da una scrivania all’altra senza dare nell’occhio fino a quando, nel pomeriggio, era arrivato sulla mia. Il titolo diceva: Ripescato nella baia di Tokyo il busto di una donna. Sembra trattarsi dell’inglese scomparsa, la barista Lily Bridges.

    Dopodiché nessuno mi aveva più guardata in modo normale. Non sapevo se evitassero di guardarmi e parlare con me perché credevano che fossi un’assassina o perché l’orrore della morte di Lily li metteva troppo in imbarazzo.

    I poliziotti mi hanno condotta fuori – come se non conoscessi la strada – e poi verso l’automobile parcheggiata lì sotto. Non ho alzato la testa per guardare su. Sapevo che i miei colleghi stavano osservando la scena dalla finestra, ma fare ciao con la mano mi sembrava eccessivo.

    Probabilmente non avrei più rivisto nessuno di loro. Avrei sentito la mancanza della mia amica Natsuko. Era stata l’unica a sforzarsi di credere in me, ma il titolo sul giornale era stato troppo anche per lei e alla fine mi aveva abbandonata.

    In quanto a me, avevo reagito alla notizia pensando che Lily non avrebbe approvato la scelta delle parole, per quanto stringate. Aveva lavorato come barista soltanto in Giappone. A casa, a Hull, era un’infermiera. Una brava infermiera, come avevo avuto modo di scoprire durante la gita nella prefettura di Yamanashi, quand’ero scivolata cadendo lungo la scarpata. Mi aveva aiutata ad arrivare a valle e fasciato la caviglia con una premura e una maestria tali da farmi quasi piangere. Invece dietro il bancone del bar era goffa e maldestra. Aveva un tono di voce così acuto e piagnucoloso che faceva venir voglia ai clienti di saltare dietro il bancone e servirsi da soli. Ma quello era solo un impiego temporaneo.

    Adesso Lily è morta e io sono alla centrale di polizia. È la prima volta, a parte qualche domanda paternalistica che mi hanno fatto subito dopo la sua scomparsa, che vengo in contatto con il sistema giudiziario giapponese. Non so cosa vogliano questa volta, però la faccenda sembra seria.

    Mi hanno fatta sedere su una panca in corridoio. I due poliziotti che mi hanno portata qui se ne sono andati, ma poco lontano ce ne sono altri due. Uno è vecchio e grasso e l’altro giovane e magro. Quello grasso sta cercando di convincere il magro a parlarmi in inglese, per scoprire se parlo giapponese. Io non mi sono scomodata dicendo che parlo fluentemente la loro lingua, che sono una traduttrice professionista. Dovrebbero saperlo, ammesso che la polizia sappia mai qualcosa. Ecco, hanno raggiunto un accordo. Tocca a quello magro affrontarmi.

    «Buongiorno. Io sarò l’interprete.» Il suo inglese è lento, esitante.

    «Buongiorno.»

    «Potrebbe dirmi il suo nome per esteso, per favore?»

    «È scritto sul permesso di soggiorno che ho consegnato a non so chi.»

    L’informazione viene trasmessa in giapponese all’altro poliziotto. La risposta arriva prima in giapponese e poi tradotta in inglese.

    «Che fine abbia fatto il suo permesso di soggiorno non mi riguarda. Ci dica il suo nome per esteso.»

    «Lucy Fly.»

    Quello grasso aggrotta la fronte.

    «Rooshy Furai» pronuncio alla giapponese, sforzandomi di collaborare.

    Durante l’interrogatorio precedente il mio amico Bob mi aveva consigliato di comportarmi da persona normale, anche se non mi è congeniale, perciò cerco di sembrare il più disponibile possibile.

    «Ho trentaquattro anni.»

    Lui non dice niente.

    «Sono nata nell’anno del Serpente.»

    «E lavora a Tokyo, a Shibuya» dice in giapponese il poliziotto vecchio e grasso. Quando l’affermazione viene tradotta in inglese rispondo: «Esatto».

    «Come si chiama la società per cui lavora?»

    Aspetto ancora la traduzione prima di rispondere: «Sasagawa».

    «Lavora come redattrice?»

    Il mio giovane e magro amico trasforma obbediente la frase per me.

    «Lavoro come traduttrice. Dal giapponese all’inglese.» Mi aspetto che facciano due più due, invece non succede niente.

    «Da quanto tempo lavora per Sasagawa?»

    «Circa quattro anni.»

    «Allora parla giapponese.»

    L’interprete traduce: «Allora parla giapponese».

    «Sì» dico. Pensando: finalmente.

    «Sì, parla giapponese.»

    Il poliziotto mi guarda. È un’occhiata sospettosa e ostile che non credo di meritare. Non ancora.

    «Pera pera» dico. Fluentemente.

    «Non ce l’aveva detto.»

    «Non mi è stato chiesto.»

    L’interprete se ne va sdegnato. Sono contenta di essermi liberata di lui. Non avevo una grande opinione del suo accento. Rimango con il poliziotto vecchio e grasso.

    Il mio carceriere mi fa entrare in una stanzetta e mi indica una sedia. Si siede di fronte a me e guarda dappertutto fuorché nella mia direzione. Non me ne lamento. Perché dovrebbe guardarmi? Lucy non è così bella, come sanno tutti quelli che l’hanno vista. Però quando sono comodamente seduta si sforza di guardarmi in faccia, e allora si rende conto di non poter più smettere. C’è qualcosa nei miei occhi, lo so.

    «Voglio che mi parli della notte in cui è scomparsa Lily Bridges-san.»

    «Si sa di preciso quando è scomparsa?»

    «La notte in cui è stata vista per l’ultima volta. Secondo le informazioni in nostro possesso, l’ultima a parlarle è stata proprio lei.»

    «Questo ve l’ho già detto.»

    «Vorrei che me lo ripetesse.»

    «Ero a casa. Hanno suonato il campanello. Sono andata ad aprire. Era Lily. Abbiamo parlato e dopo circa un minuto se n’è andata.»

    «E poi?»

    «Poi sono rientrata in casa.»

    «Che cosa è successo, dopo?»

    «Niente. Non ricordo. Quando Lily ha suonato alla mia porta stavo riportando dentro il bucato. Probabilmente mi sono rimessa a fare quello.»

    «Una vicina dice di averla vista sul passaggio pedonale davanti alla porta d’ingresso mentre parlava con Bridges-san.»

    Alzai gli occhi al cielo. «Allora probabilmente ha visto la scena che le ho appena descritto.»

    Mi guarda fisso. Come un maestro che aspetta con pazienza la confessione dell’alunno, ben sapendo che arriverà, prima o poi.

    «D’accordo. Cinque minuti dopo l’ho seguita. Avevo dimenticato di dirle una cosa.»

    «Quindi le ha parlato ancora?»

    «No. Non l’ho trovata.»

    «Ha pensato che fosse diretta alla stazione?»

    «Sì. Non sapevo dove altro avrebbe potuto andare. Non conosceva bene la zona dove abito.»

    «Dal suo appartamento alla stazione la strada è quasi tutta diritta, vero? E le strade sono ben illuminate di notte?»

    «Sì, è così, però non l’ho trovata lo stesso. Non so dove si sia diretta.»

    «Mi potrebbe dire la natura della conversazione che avete avuto davanti alla porta d’ingresso?»

    Scuoto la testa.

    «Non ricorda?»

    «Sì, ricordo.»

    «Allora condivida questo ricordo con me, per favore.»

    «No.»

    «Secondo la sua vicina lei era arrabbiata. Gridava contro Bridges-san.»

    «Non grido mai.»

    «Non era arrabbiata?»

    «Sì, ero arrabbiata.»

    «Secondo la sua vicina lei aveva qualcosa in mano, una specie di involto.»

    Sbuffo. «Chi sarebbe questa vicina? Miss Marple?»

    So benissimo che si tratta della mia vicina che passa l’aspirapolvere in continuazione. Mi è sempre sembrata dotata di una fervida immaginazione. Passa l’aspirapolvere tutti i giorni per ore e ore in modo aggressivo e a volte lo fa anche nel cuore della notte. Deve avere qualche rotella fuori posto. Inoltre è la mia unica vicina, perché sopra la pompa di benzina ci sono soltanto due appartamenti e uno lo occupo io. È un vero peccato che non siamo mai diventate amiche, ma a questo punto direi che è troppo tardi.

    La faccia del poliziotto rimane indecifrabile.

    «Non avevo niente in mano. Proprio niente.»

    Lui mi fissa. «Rifletta, per favore.»

    Ci penso bene, per educazione, ma sono stanca.

    «Come le ho detto stavo portando dentro il bucato. È possibile che sia andata ad aprire la porta con un indumento in mano. Ma non sono così distratta da esserle corsa dietro agitando qualcosa. Se mi fossi trovata per strada con un paio di mutande tra le mani me ne ricorderei.»

    «Mi chiedo cosa possa aver visto la sua vicina.»

    «Non avevo niente in mano.»

    «Bridges-san era sua amica?»

    Aspetto un momento prima di rispondere: «Sì».

    «Mi parli della vostra amicizia.»

    «No.»

    «Lily era la sua migliore amica, vero?»

    «Eravamo diventate amiche. La conoscevo da poco.»

    «Altre amicizie?»

    «Mie o di Lily?»

    «Le sue.»

    Non ho nessuna intenzione di raccontargli di Teiji, il più caro di tutte le persone a me care.

    «Natsuko. Lavora con me. Bob. È americano. L’ho conosciuto nella sala d’attesa del dentista. Gli ho insegnato a dire un dolore insopportabile in giapponese. Insegna inglese e non parla bene il giapponese. E poi la signora Yamamoto. Dirigeva il quartetto d’archi in cui suonavo. Anche la signora Ide e la signora Katoh. Secondo violino e viola.»

    «Lily Bridges conosceva queste persone?»

    «Solo Natsuko e Bob. La signora Yamamoto è morta prima che Lily venisse in Giappone. Non aveva mai incontrato la signora Ide né la signora Katoh.»

    «Perché era venuta in Giappone, Lily Bridges? Secondo lei, per quale ragione?»

    «Le piaceva Hello Kitty

    Alza gli occhi, sospettoso.

    «Non so perché sia venuta in Giappone.»

    Invece lo so. Non racconterò al poliziotto di Andy, il fidanzato di Lily, di come la seguiva e le infilava microfoni nella borsetta e picchiava l’operaio addetto al lavaggio dei vetri perché con la scala era arrivato fino alla finestra della camera da letto dove lei si stava cambiando la maglietta, come se avesse potuto saperlo. Non

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