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L'assassino che è in me
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E-book238 pagine3 ore

L'assassino che è in me

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Info su questo ebook

Cosa c’è nella mente del più feroce degli assassini?
Il vicesceriffo Lou Ford è il pilastro della comunità della piccola cittadina del Texas di Central City. Stimato da tutti, paziente e riflessivo. Qualcuno in città crede che la cosa peggiore che si possa dire di lui è che è noioso e non particolarmente sveglio. Ma nessuno sa che c’è qualcosa di molto sbagliato in lui, qualcosa che lui chiama “la mia malattia” e che l’ha quasi portato alla rovina da giovane. Qualcosa che sembra riaccendersi il giorno in cui Lou Ford conosce Joyce Lakeland, una prostituta. La donna risveglia quello che si era assopito e le conseguenze sono devastanti e brutali.
Uno dei primi romanzi moderni in cui l'autore si cala nella mente dell'assassino: considerato il capolavoro di Jim Thompson, è diventato un film diretto da Michael Winterbottom.
“Il più grande romanzo su una mente criminale che sia mai stato scritto” - Stanley KubrickL'assassino che è me è un classico americano; è un romanzo che merita di stare sullo scaffale a fianco di Moby Dick, Huckleberry Finn, Fiesta e Mentre morivo” - Dalla prefazione di Stephen King
LinguaItaliano
Data di uscita30 gen 2020
ISBN9788830509580
L'assassino che è in me
Autore

Jim Thompson

Jim Thompson è nato a Anadarko, in Oklahoma, nel 1906. Ha cominciato a scrivere molto giovane, vendendo il suo primo racconto a True Detective quando aveva solo 14 anni. Ha scritto 29 romanzi e ha sceneggiato Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, capolavori di Stanley Kubrick. Da molti suoi libri sono stati tratti dei film, sia negli Stati Uniti sia in Europa. È morto a Hollywood nel 1977. Nonostante la sua opera abbia ricevuto sin dall’inizio alcuni riscontri critici positivi, la sua statura letteraria è stata pienamente riconosciuta solo a partire dagli anni ’80 del Novecento, quando si è affermato come uno dei grandi scrittori statunitensi e uno dei massimi maestri mondiali del noir e del genere hardboiled.

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    Anteprima del libro

    L'assassino che è in me - Jim Thompson

    1

    Avevo finito la torta e stavo prendendo una seconda tazza di caffè quando lo vidi. Il treno merci di mezzanotte era arrivato da pochi minuti e lui stava sbirciando dentro il ristorante da un lato della vetrina, quello più vicino alla stazione, riparandosi gli occhi con la mano e battendo le palpebre per la luce. Vide che lo guardavo e il suo volto tornò a svanire nell’oscurità. Ma sapevo che era ancora lì. Sapevo che stava aspettando. I barboni mi prendono sempre per un bersaglio facile.

    Accesi un sigaro e scivolai via dallo sgabello. La cameriera, una ragazza arrivata di fresco da Dallas, mi osservò mentre mi abbottonavo la giacca. «Ma come, non ha nemmeno una pistola!» disse, come se mi stesse comunicando una notizia.

    «No» sorrisi. «Nessuna pistola, nessun manganello, niente del genere. Perché dovrei?»

    «Ma lei è un piedipiatti… Un vicesceriffo, cioè. E se qualche mascalzone cerca di spararle?»

    «Di mascalzoni non ne abbiamo molti qui a Central City, signorina» risposi. «Comunque le persone sono sempre persone, anche quando vanno a finire un po’ fuori strada. Se tu non fai male a loro, loro non ne fanno a te. Ascoltano la voce della ragione.»

    Lei scosse la testa, gli occhi spalancati pieni di rispetto e soggezione, e io mi diressi con calma verso l’uscita. Il proprietario rifiutò i miei soldi e ci piazzò sopra un paio di sigari. Mi ringraziò di nuovo per essermi preso a cuore suo figlio.

    «Ora è un ragazzo diverso, Lou» disse, pronunciando le parole una in fila all’altra come fanno gli stranieri. «La notte sta a casa; a scuola se la cava bene. E parla sempre di te: che brav’uomo che è il vicesceriffo Lou Ford.»

    «Non ho fatto niente» commentai. «Gli ho soltanto parlato. Mostrato un po’ d’interesse. Chiunque avrebbe potuto fare altrettanto.»

    «No, solo tu» ribatté. «Dato che tu sei un buono, fai diventare buoni anche gli altri.» E con questo era pronto a chiudere il discorso, ma io no. Appoggiai un gomito sul bancone, incrociai un piede dietro l’altro e aspirai una lunga, lenta boccata dal sigaro. Quel tipo mi piaceva (almeno quanto mi piace la gente in genere) ma era troppo buono per lasciarlo così. Educato, intelligente: quei tipi sono il mio pane.

    «Be’, ascolta» feci con voce strascicata. «Per come la vedo io, uno dalla vita non ricava più di quanto ci mette.»

    «Uhm» fece lui, irrequieto. «Penso che tu abbia ragione, Lou.»

    «Ci pensavo l’altro giorno, Max; e all’improvviso mi è venuto un pensiero stramaledetto. Chiaro come il cielo sereno: il bambino è il padre dell’uomo. Proprio così. Il bambino è il padre dell’uomo.»

    Sul suo volto il sorriso cominciò a farsi teso. Sentivo le sue scarpe scricchiolare mentre si contorceva. Se c’è qualcosa di peggio di un seccatore, è un seccatore sentenzioso. Ma come si fa a cacciar via una persona gentile e cordiale che ti darebbe anche la camicia, se gliela chiedessi?

    «Credo che avrei dovuto fare il professore universitario o qualcosa del genere» dissi. «Perfino quando dormo penso a risolvere problemi. Prendi quell’ondata di caldo di qualche settimana fa; un sacco di gente pensa che sia colpa del calore. Ma non è così, Max. Non è il calore, è l’umidità. Scommetto che non lo sapevi, eh?»

    Si schiarì la gola e borbottò qualcosa sul fatto che era desiderato in cucina. Finsi di non averlo sentito.

    «Un’altra cosa, a proposito del tempo» continuai. «Tutti ne parlano, ma nessuno fa niente. Ma forse è meglio così. Non tutti i mali vengono per nuocere, almeno così la penso io. Cioè, se non ci fosse la pioggia non ci sarebbero gli arcobaleni, dico bene?»

    «Lou…»

    «Be’» dissi, «forse è meglio se mi levo di torno. Ho un bel po’ di giri da fare e non mi va di correre. Chi va piano va sano e va lontano, secondo me. Mi piace riflettere prima di agire.»

    Le stavo tirando dentro per i capelli, ma non potevo trattenermi. Colpire la gente in quel modo è quasi come farlo nell’altro, quello vero. Il modo in cui avevo lottato per dimenticare (e avevo quasi dimenticato) finché non l’avevo incontrata.

    Stavo pensando a lei quando uscii nella fresca notte del Texas occidentale e vidi il barbone che mi aspettava.

    2

    Central City fu fondata nel 1870, ma ha raggiunto le dimensioni di una città solo una dozzina d’anni fa. Era un punto di spedizione di un bel po’ di bestiame e di un po’ di cotone; e Chester Conway, che ci era nato, ne aveva fatto il quartier generale della Conway Construction Company. Ma ancora non era molto più di uno slargo su una strada del Texas. Poi venne il boom del petrolio e la popolazione balzò a 48.000 abitanti praticamente nel giro di una notte. Be’, la città era stata costruita in una piccola valle tra tante colline. Non c’era proprio spazio per i nuovi arrivati, sicché questi si sparpagliarono dappertutto con le loro case e le loro attività e ora sono disseminati su un terzo della contea. Non è una situazione insolita, nello Stato del boom petrolifero: se passate da queste parti vedrete un mucchio di città come la nostra. Non hanno regolari forze di polizia cittadina, solo un paio di agenti. L’ufficio dello sceriffo si occupa del mantenimento dell’ordine sia per la città, sia per la contea.

    Ce la caviamo piuttosto bene, almeno a nostro modo di vedere. Ma qualche volta le cose ci scappano un po’ di mano, e organizziamo un repulisti. Fu durante un repulisti, tre mesi fa, che la incontrai.

    «Nome, Joyce Lakeland» mi disse il vecchio Bob Maples, lo sceriffo. «Abita sei o sette chilometri fuori dalla città, sulla Derrick Road, subito dopo la vecchia fattoria Branch. Si è fatta una bella villetta lassù dietro un boschetto di querce nere.»

    «Credo di conoscere il posto» dissi. «Fa il mestiere, la signora, Bob?»

    «Mmm-be’, penso di sì, ma nel modo più decoroso. Non si dà troppo da fare e non se la fa con gli operai degli impianti petroliferi o coi pecorai. Se qualcuno di quei predicatori qui in città non mi stesse dando il tormento, la lascerei in pace.»

    Mi domandai se ne avesse approfittato anche lui e decisi di no. Magari non era proprio un genio, ma Bob Maples era a posto. «Allora come mi comporto con questa Joyce Lakeland?» chiesi. «Le dico di star tranquilla per un po’, o di cambiare aria?»

    «Mmm-be’» si grattò la testa, accigliandosi. «Non so, Lou. Be’, tu vai là e fatti un’opinione, poi prendi la tua decisione. So che sarai gentile, più gentile e cortese che puoi. E so che sai essere deciso, se è il caso. Perciò va’ e guarda come ti sembra. Qualunque cosa decidi, io sarò dalla tua.»

    Erano circa le dieci del mattino quando arrivai. Fermai la macchina nel giardino, girandola per poter poi uscire facilmente. Le targhe della contea non si vedevano, ma non era fatto di proposito. Era soltanto come doveva essere. Salii con calma sulla veranda, bussai alla porta e feci un passo indietro, levandomi lo Stetson.

    Mi sentivo un po’ a disagio. Non sapevo proprio che cosa le avrei detto. Forse è perché siamo un po’ all’antica, ma le nostre norme di comportamento non sono uguali, mettiamo, a quelle dell’Est o del Midwest. Da queste parti si dice sissignora e nossignora a qualsiasi cosa che abbia addosso una gonna; qualsiasi cosa bianca, cioè. Da queste parti, se sorprendi un uomo con le braghe calate, chiedi scusa… Anche se dopo lo devi arrestare. Da queste parti devi essere un uomo, e un gentiluomo, altrimenti non sei niente. E in tal caso, Dio t’aiuti.

    La porta si aprì di qualche centimetro. Poi si spalancò e lei era lì, a guardarmi.

    «Sì?» chiese freddamente.

    Indossava calzoncini corti da notte e un pullover di lana; i capelli castani erano arruffati come un codino d’agnello e il viso senza trucco era tirato per il sonno. Ma nulla di tutto questo aveva importanza. Non avrebbe avuto importanza neppure se fosse strisciata fuori da un pantano con un sacco di iuta addosso. Aveva qualcosa in più.

    Sbadigliò apertamente e ripeté: «Sì?» ma io non riuscivo ancora a parlare. Credo di essere rimasto a fissarla a bocca aperta come un ragazzotto di campagna. È successo tre mesi fa, ricordatevelo, ed erano quasi quindici anni che non avevo quella malattia. Da quando avevo quattordici anni.

    Non superava di molto il metro e cinquanta e i quarantacinque chili e aveva collo e caviglie un po’ ossuti. Ma andava bene così. Andava alla perfezione. Il buon Dio aveva saputo piazzare la polpa esattamente là dove serviva sul serio.

    «Oh, cielo!» rise all’improvviso. «Entra pure. Di solito non esercito al mattino così presto, ma…» Tenne aperta la porta a rete e mi fece cenno. Entrai e lei richiuse la porta a chiave.

    «Spiacente, signora» cominciai, «ma…»

    «D’accordo. Ma prima devo prendere un po’ di caffè.

    Vai pure, è là in fondo.»

    Attraversai il piccolo corridoio che portava alla camera da letto, a disagio, ascoltandola mentre faceva scorrere l’acqua per il caffè. Mi ero comportato come uno scimunito. Sarebbe stato difficile fare il duro con lei dopo un inizio simile, e qualcosa mi diceva che avrei dovuto. Non sapevo perché; non lo so ancora. Ma lo seppi fin dal principio. Ecco qua una signorinella che otteneva quello che voleva, e chi se ne frega dell’etichetta del prezzo.

    Be’, però, diavolo: era solo un’impressione. Lei si era comportata bene e aveva un bel posticino tranquillo. Decisi che l’avrei lasciata campare, almeno per il momento. Perché no? E poi per caso gettai uno sguardo alla specchiera e seppi perché no. Seppi che non potevo. Il primo cassetto del mobile era socchiuso e lo specchio era lievemente inclinato. E una cosa sono le donne che fanno il mestiere, un’altra cosa sono le donne con la pistola.

    La tirai fuori dal cassetto, una calibro 32 automatica, proprio mentre lei entrava con il vassoio del caffè. Gli occhi le lampeggiarono e sbatté il vassoio sul tavolo. «Cosa ci fai con quella?» sbottò.

    Aprii la giacca e le mostrai il distintivo. «Ufficio dello sceriffo, signora. Cosa ci fa lei, con questa?»

    Non disse nulla. Si limitò a prendere la borsetta dalla specchiera, aprirla ed estrarne un porto d’armi. Era stato rilasciato a Fort Worth, ma era perfettamente legale. Queste cose di solito sono accettate anche in città diverse.

    «Soddisfatto, sbirro?» disse.

    «Mi pare che sia tutto a posto, signorina» risposi. «E mi chiamo Ford, non sbirro.» Le rivolsi un largo sorriso, che non fu ricambiato. La sensazione che avevo avuto riguardo a lei era assolutamente esatta. Un minuto prima era bella e pronta a sdraiarsi, e probabilmente non avrebbe fatto alcuna differenza se io non avessi avuto un soldo. Adesso era bella e pronta a qualcos’altro, e che io fossi un piedipiatti o Gesù Cristo, nemmeno questo avrebbe fatto alcuna differenza.

    Mi domandai come avesse fatto a vivere così tanto.

    «Gesù!» esclamò in tono canzonatorio. «Il tipo più carino che abbia mai visto, e viene fuori che sei uno schifoso sbirro ficcanaso. Quanto voglio? Non me li faccio, i piedipiatti.»

    Sentii il rossore salirmi al volto. «Signora» dissi, «non è molto gentile. Sono venuto solo per fare due chiacchiere.»

    «Stupido bastardo» strillò lei. «Ti ho chiesto cosa volevi.»

    «Dato che la mette così» risposi, «glielo dirò. La voglio fuori da Central City prima del tramonto. Se dopo la becco ancora qui, la arresto per prostituzione.»

    Mi calcai il cappello sulla testa e mi diressi verso la porta. Mi si piazzò davanti, bloccandomi.

    «Schifoso figlio di puttana. Sei…»

    «Non mi chiami così» le intimai. «Non lo faccia, signora.»

    «Ti ho chiamato così! E ti ci chiamo di nuovo! Sei un figlio di puttana, bastardo, pappone…»

    Cercai di spingerla via. Dovevo uscire di lì. Sapevo cosa sarebbe successo se non fossi uscito, e sapevo di non potermi permettere che accadesse. Avrei potuto ucciderla. Avrebbe potuto far tornare la malattia. E anche se non l’avessi fatto e non fosse successo, per me sarebbe finita. Lei avrebbe parlato. Avrebbe strillato fino a sgolarsi. E la gente avrebbe cominciato a pensare, a pensare e a chiedersi di quella volta, quindici anni fa.

    Mi schiaffeggiò così forte da farmi ronzare le orecchie, prima da una parte e poi dall’altra. Mi colpì, continuava a menar colpi. Il mio cappello volò via. Mi chinai per raccoglierlo e lei mi diede una ginocchiata sul mento.

    Caddi all’indietro e mi ritrovai seduto per terra. Sentii una risata cattiva, poi un’altra che suonava vagamente dispiaciuta. «Diamine, sceriffo» disse, «non avevo intenzione di… Mi ha fatto talmente perdere le staffe che…»

    «Certo» feci, con un gran sorriso. La vista mi si schiarì e ritrovai la voce. «Certo, signora, so come succede. Capitava anche a me. Mi dia una mano, le spiace?»

    «N-non mi farà del male?»

    «Io? Oh, nooo, signora.»

    «No» ripeté, quasi con disappunto. «Non lo farà, lo so. Lei è troppo bonaccione, lo vedrebbe chiunque.» Mi si avvicinò lentamente e mi porse le mani.

    Mi tirai su. Le strinsi i polsi con una mano e colpii. Quasi la tramortì; non volevo che perdesse i sensi. Volevo che capisse quanto le stava succedendo.

    «No, bellezza.» Ritrassi le labbra scoprendo i denti. «Non voglio farti del male. Non ci penso neanche. Voglio soltanto farti il culo a strisce.»

    L’ho detto e dicevo sul serio e per la miseria, l’ho quasi fatto.

    Le ho tirato la maglia sopra la faccia e l’ho chiusa con un nodo. L’ho scagliata sul letto, le ho strappato i calzoncini e li ho usati per legarle i piedi.

    Mi sono levato la cintura e l’ho sollevata sopra la testa… Non so quanto sono andato avanti prima di fermarmi, prima di tornare in me. So solo che il braccio mi faceva un male cane e lei aveva il posteriore tutto livido, e avevo un terrore folle, tutto il terrore che uno può avere senza crepare.

    Le liberai i piedi e le mani e le tirai via la maglia dalla faccia. Inzuppai un asciugamano nell’acqua fredda e lo usai per lavarla. Le versai del caffè tra le labbra. E non smettevo di parlare, implorandola di perdonarmi, dicendole quanto mi dispiaceva.

    Mi misi in ginocchio accanto al letto, supplicando e chiedendo scusa. Finalmente batté le ciglia e gli occhi si aprirono.

    «N-non…» sussurrò.

    «No» dissi. «Giuro su Dio, signora, non lo farò mai…»

    «Non parlare.» Mi sfiorò le labbra con le sue. «Non scusarti.»

    Mi baciò ancora. Cominciò a ciancicarmi la cravatta, la camicia; si mise a spogliarmi dopo che l’avevo quasi scuoiata viva.

    Tornai il giorno dopo e quello dopo ancora. Continuavo a tornare. E fu come un vento che soffia su un fuoco morente. Cominciai a punzecchiare la gente in quel modo imperturbabile, punzecchiare per non fare qualcos’altro. Cominciai a pensare di regolare i conti con Chester Conway, della Conway Construction Company.

    Non dico che non ci avessi già pensato. Forse ero rimasto a Central City per tutti quegli anni esclusivamente con la speranza di rendergli la pariglia. Ma non fosse stato per lei, non credo che avrei mai fatto niente. Lei aveva riacceso la vecchia fiamma. Mi ha perfino mostrato come chiudere con Conway.

    Lei non lo sapeva, ma mi ha dato la risposta. È stato un giorno, anzi una notte, circa sei settimane dopo il nostro primo incontro.

    «Lou» disse, «non voglio andare avanti così. Andiamo via da questo schifo di città, solo io e te.»

    «Dico, sei pazza?» le risposi. Lo dissi prima di riuscire a fermarmi. «Credi che io potrei…?»

    «Continua, Lou. Fammi sentire. Dimmi» cominciò a parlare con lo strascico «che famiglia perbeene che siete voi Ford. Dimmelo: noi Ford, signoora, non ci sogneremmo mai di vivere con una di voi miserabili puttane. Noi Ford mica siamo fatti così, signoora

    Questo era un aspetto della faccenda, un aspetto notevole. Ma non il principale. Sapevo che lei mi stava rendendo peggiore; sapevo che se non ci davo un taglio in fretta, non ci sarei riuscito più. Sarei finito in gabbia o sulla sedia

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