Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I truffatori
I truffatori
I truffatori
E-book197 pagine2 ore

I truffatori

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

"“Non esiste un altro autore paragonabile: Thompson faceva storia a sé” - JOE R. LANSDALE

“Il maestro del romanzo americano che prende a calci in faccia” - VANITY FAIR

“Leggete Jim Thompson. Sarà come farvi un giro all’inferno” - CHICAGO TRIBUNE

Nel calcolo delle probabilità, l’imponderabile va sempre messo in conto. Ecco perché il trucchetto oliato e utilizzato un’infinità di volte con successo da Roy Dillon, truffatore spregiudicato e senza scrupoli, si dimostra un’arma a doppio taglio: il negoziante che lo smaschera non ci pensa due volte e gli assesta un colpo tremendo allo stomaco con una mazza da baseball.
Da questo momento, Dillon è costretto a nascondersi nella camera d’albergo di una località della California del sud e a leccarsi letteralmente le ferite. Almeno una cosa saggia l’ha fatta: ha cambiato residenza continuamente, per sfuggire alla rabbia delle vittime dei suoi raggiri e anche per eludere la sua giovane madre Lilly, che non vede da tempo. È proprio lei a presentarsi a sorpresa e a mettere a lui e alla sua odiosa fidanzata Moira i bastoni fra le ruote. È forse un modo per salvare il figlio da se stesso e da quella fidanzata che lei detesta?
L’ambiente dei biscazzieri è malsano e le insidie si celano ovunque. Malavitosi spietati, femmes fatales e miserie umane fanno il paio con una scelta di vita perennemente in bilico tra la legalità e un disperato bisogno di normalità.
Da questo romanzo, con il suo finale a sorpresa e il suo ritmo incalzante, intriso di humour nero, nel 1990 Stephen Frears ha tratto il film Rischiose abitudini, con un terzetto di attori formidabili come John Cusack, nei panni di Roy, Anjelica Huston, in quelli di Lilly, e Annette Bening, che interpreta Moira.
LinguaItaliano
Data di uscita6 ago 2020
ISBN9788830517714
I truffatori
Autore

Jim Thompson

Jim Thompson è nato a Anadarko, in Oklahoma, nel 1906. Ha cominciato a scrivere molto giovane, vendendo il suo primo racconto a True Detective quando aveva solo 14 anni. Ha scritto 29 romanzi e ha sceneggiato Rapina a mano armata e Orizzonti di gloria, capolavori di Stanley Kubrick. Da molti suoi libri sono stati tratti dei film, sia negli Stati Uniti sia in Europa. È morto a Hollywood nel 1977. Nonostante la sua opera abbia ricevuto sin dall’inizio alcuni riscontri critici positivi, la sua statura letteraria è stata pienamente riconosciuta solo a partire dagli anni ’80 del Novecento, quando si è affermato come uno dei grandi scrittori statunitensi e uno dei massimi maestri mondiali del noir e del genere hardboiled.

Leggi altro di Jim Thompson

Autori correlati

Correlato a I truffatori

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su I truffatori

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I truffatori - Jim Thompson

    1

    Roy Dillon uscì dal negozio barcollando, la faccia di un verde malaticcio, ogni respiro uno strazio indicibile. Una botta secca nelle budella può fare questo effetto, e Dillon se n’era beccata una bella forte. A colpirlo non era stato un pugno, che già sarebbe stata una faccenda non da poco, ma l’impugnatura di un pesante randello.

    In un modo o nell’altro arrivò alla sua macchina e riuscì a scivolare sul sedile. Ma questo fu tutto. Cambiando posizione, i crampi ai muscoli dello stomaco lo fecero gemere; poi, con un rantolo soffocato, si sporse dal finestrino.

    Mentre vomitava passarono sulla strada diverse auto, e i passeggeri sorridevano, aggrottavano la fronte con comprensione o distoglievano lo sguardo disgustati. Ma Roy Dillon stava troppo male per accorgersene o, eventualmente, curarsene. Quando finalmente lo stomaco fu vuoto, si sentì meglio, anche se non ancora in condizione di guidare. In quel momento, comunque, un’auto di pattuglia aveva accostato dietro di lui (esibiva lo stemma dello sceriffo, dato che si trovava nella contea di Los Angeles, più che in città) e un agente in uniforme marrone lo stava invitando a scendere.

    Dillon obbedì, traballante.

    «Uno di troppo, mister?»

    «Come?»

    «Lasci perdere.» Lo sbirro aveva già notato che non c’era odore di alcol nell’alito. «Vediamo la sua patente.»

    Dillon gliela mostrò, esibendo anche, con apparente disattenzione, un assortimento di carte di credito. Il sospetto sulla faccia dello sbirro si dissolse, cedendo il passo alla preoccupazione.

    «Sembra che lei stia piuttosto male, signor Dillon. Ha idea di cosa sia stato?»

    «Il pranzo, credo. Non è stato saggio da parte mia, lo so, ma ho preso un sandwich all’insalata di pollo e… mentre lo mangiavo non aveva un gran sapore… ma…» Lasciò che la voce gli si spegnesse, con un sorriso timido, mesto.

    «Mmm-hmm!» Lo sbirro annuì, serio. «Quella roba fa di questi effetti. Be’» un’occhiata acuta da capo a piedi, «si sente bene, ora? Vuole che la portiamo da un dottore?»

    «Oh, no, sono a posto.»

    «Abbiamo un responsabile del pronto soccorso, giù al distaccamento. Le diamo uno strappo fin là, nessun problema.»

    Roy rifiutò, gentile ma fermo. Qualsiasi contatto prolungato con gli sbirri avrebbe portato a un verbale, e qualsiasi genere di documento scritto era, nel migliore dei casi, una seccatura. Finora non ne aveva avute; i suoi raggiri lo avevano cacciato nei pasticci ma non l’avevano mai portato davanti agli sbirri. E così intendeva continuare.

    L’agente tornò all’auto di pattuglia e lui e il suo compagno se ne andarono via. Roy li salutò con la mano sorridendo e rimontò in macchina. Cautamente, con qualche smorfia, riuscì ad accendere una sigaretta. Poi, convinto di non avere più niente da vomitare, si costrinse ad appoggiarsi allo schienale.

    Era in un sobborgo di Los Angeles, uno dei tanti che resistono all’inglobamento nonostante la loro comune dipendenza e l’assenza di confini visibili. Da qui in città era un viaggio di quasi cinquanta chilometri, chilometri lunghissimi, a quest’ora del giorno. Aveva bisogno di rimettersi in una forma migliore, di riposare un po’, prima di lanciarsi contro l’onda del traffico serale in uscita. E, cosa più importante, aveva bisogno di ricostruire i dettagli del recente disastro, adesso che li aveva ancora freschi in mente.

    Chiuse gli occhi un istante. Li riaprì, puntandoli sulle luci cangianti del traffico. E all’improvviso, senza muoversi dall’auto (senza muoversi fisicamente di lì), si ritrovò dentro il negozio. A sorseggiare succo di lime al bancone, studiando l’ambiente con aria distaccata.

    Non era granché diverso da mille altri negozietti di Los Angeles, esercizi con un piccolo bancone delle bibite, una vetrina o due di sigari, sigarette e dolciumi, scaffali straripanti di riviste, tascabili e biglietti d’auguri. Sulla Costa Est posti del genere venivano chiamati cartolerie o pasticcerie. Qui, di solito, li chiamavano drogherie o semplicemente mescite.

    Dillon era l’unico cliente. Con lui c’era soltanto il commesso, un giovane grosso e bitorzoluto di diciannove, vent’anni. Mentre finiva la sua bibita, Dillon notò il modo di fare del ragazzo che toglieva il ghiaccio dalle vaschette nel congelatore, lavorando con un misto paradossale di diligenza e indifferenza. Sapeva esattamente cosa andava fatto, diceva la sua espressione, e col cavolo che avrebbe sprecato un minimo di sforzo extra. Niente per mettersi in mostra, per far colpo su qualcuno. Il figlio del capo, stabilì Dillon, posando il bicchiere e alzandosi dallo sgabello. Si avvicinò senza fretta alla cassa e il giovane posò la mazza da baseball segata su cui aveva fatto leva. Poi, asciugandosi le mani sul grembiule, si diresse anche lui alla cassa.

    «Dieci centesimi» disse.

    «E anche un pacchetto di queste mentine.»

    «Venti centesimi.»

    «Venti centesimi, hmm?» Roy cominciò a frugarsi nelle tasche mentre il commesso dava segni di impazienza. «Sono sicuro di avere degli spiccioli da qualche parte. Sicurissimo. Chissà dove diavolo…»

    Esasperato, scosse la testa e tirò fuori il portafogli. «Mi scusi. Le spiace cambiarmi venti?»

    Il commesso gli strappò quasi di mano la banconota. La schiaffò sul ripiano del registratore di cassa e prese il resto dal cassetto. Dillon lo ritirò distrattamente, continuando a frugarsi nelle tasche.

    «Insomma, non è seccante? Cioè, sai benissimo di avere una cosa, ma…» Si interruppe, spalancando gli occhi con un sorriso compiaciuto. «Eccole qua! Due monetine da dieci! Mi dia pure indietro i venti dollari, okay?»

    Il commesso afferrò le monetine e gli ridiede la banconota. Dillon si girò, disinvolto, verso la porta, fermandosi prima di uscire per dare uno sguardo indifferente alle riviste.

    Così, per la decima volta in quel giorno, aveva messo a segno il venti, uno dei tre trucchetti classici dei piccoli truffatori. Gli altri due sono lo schiaffo e il cubetto, in genere buoni per colpi più grossi ma decisamente non così veloci e sicuri. Certe vittime ci cascano ripetutamente, col venti, senza mai un sospetto.

    Dillon non vide il commesso girare intorno al banco. Di colpo, quel tipo era là, con un broncio ringhioso in faccia, e brandiva la mazza segata come un ariete.

    «Brutto imbroglione» nitrì rabbiosamente. «I brutti imbroglioni come te continuano a fregarmi, e poi pa’ mi strapazza!»

    L’impugnatura della mazza piombò nello stomaco di Dillon. L’effetto fece trasalire perfino il commesso. «Ehi, non è colpa mia, mister» balbettò. «Se l’è cercata. Io… io le do il resto di venti dollari e poi lei si fa restituire i venti e… e…» La sua certezza di essere nel giusto cominciava a crollare. «I… insomma, lei sa di averlo fatto, m… mister.»

    Roy non riusciva a pensare ad altro che al proprio dolore straziante. Rivolse al commesso occhi traboccanti, occhi inondati di stupore doloroso. Quello sguardo demolì completamente il giovane.

    «È s-stato s-solo un errore, mister. L-lei ha fatto un errore e io ho f-fatto un errore e… Mister!» Indietreggiò, terrorizzato. «N-non mi guardi così!»

    «Mi hai ammazzato» rantolò Dillon. «Mi hai ammazzato, sporco bastardo!»

    «No! P-per piacere non dica così, mister!»

    «Sto morendo» rantolò Dillon. E poi, in qualche modo, si era ritrovato fuori di lì.

    E ora, seduto nella sua macchina a riesaminare l’incidente, non vedeva motivo per rimproverarsi, non trovava debolezze nella sua tecnica. Era stata solo sfortuna. Aveva beccato un minchione, tutto qui, e i minchioni non puoi prevederli.

    Su questo aveva ragione. E aveva avuto ragione in qualcos’altro, anche se non lo sapeva.

    Mentre tornava a Los Angeles, continuando a frenare e accelerare nel traffico sempre più denso, fermandosi e ripartendo… ogni minuto che passava, stava morendo.

    La morte si sarebbe potuta prevenire, se lui si fosse curato adeguatamente. In caso contrario, non gli sarebbero rimasti più di tre giorni da vivere.

    2

    La madre di Roy Dillon veniva da una famiglia di poveri bifolchi. Aveva tredici anni quando sposò un operaio delle ferrovie trentenne, e neppure quattordici quando mise al mondo Roy. Circa un mese dopo la sua nascita, il marito ebbe un incidente che la lasciò vedova. Grazie alle circostanze dell’evento, la lasciò anche in buone condizioni economiche rispetto agli standard della comunità. Duecento bei dollari al mese da spendere per sé. Ed era proprio per sé che intendeva spenderli.

    La sua famiglia, a cui scaricò prontamente Roy, aveva altre idee. Tennero il bambino per tre anni, riuscendo di tanto in tanto a carpire pochi dollari alla figlia con qualche moina. Poi, un bel giorno, il nonno di Roy apparve in città, portandolo sotto un braccio e agitando un frustino con l’altra mano. E passò a una dimostrazione della teoria che sosteneva da sempre: una ragazza non è mai troppo grande per una frustata.

    Essendosi già forgiato da parecchio, il carattere di Lilly Dillon cambiò poco, dopo quella batosta. Però tenne con sé Roy, non avendo scelta, e spaventata dalla cupa promessa del padre di tenerla d’occhio si trasferì alla larga da lui.

    Stabilitasi a Baltimora, trovò un impiego lucroso e poco impegnativo come entraîneuse. O, per la precisione, era poco impegnativo per quanto la riguardava. Lilly Dillon non si metteva a disposizione di nessuno, almeno non per pochi dollari o qualche bicchiere. La sua apparente insensibilità spesso scoraggiava i clienti, ma attirava attenzioni interessate da parte dei suoi datori di lavoro. In fin dei conti, di sciacquette era pieno il mondo, puttane che si davano via per una parolina dolce o un bicchierino. Ma una tipa in gamba, una pupa che non soltanto aveva bellezza e classe ma era pure in gamba, be’, quella sì che può tornare utile.

    E infatti la impiegarono, in posizioni di sempre maggiore responsabilità. Come direttrice di sala, reclutatrice per una catena di locali, segnalatrice di dipendenti pasticcioni o dalle mani lunghe; come corriere, ufficiale di collegamento, talpa, come esattore e pagatore. E così via, salendo un gradino dopo l’altro… O dovrei dire scendendo? Piovevano soldi a palate, ma poca di quella pioggia cadeva su suo figlio.

    Decise di spedirlo in collegio per poi ripensarci, indignata, quando aveva sentito l’ammontare della retta. Un paio di migliaia di dollari l’anno, più un mucchio di extra, e solo per occuparsi di un ragazzino! Solo per tenerlo fuori dai guai! Cavolo, con quella somma poteva comprarsi una bella pelliccia di visone.

    Dovevano averla presa per un’idiota, decise. Era una bella seccatura, ma avrebbe badato lei stessa a Roy. E miseriaccia, era meglio che stesse fuori dai guai, altrimenti l’avrebbe spellato vivo.

    Lilly era, naturalmente, impregnata di certi istinti inestirpabili, per quanto corrosi e atrofizzati; aveva, quindi, i suoi rari momenti di coscienza. Inoltre c’erano cose che andavano fatte, per amore delle apparenze: per soffocare i sospetti di negligenza e i fastidi che ne conseguono. In ogni caso, ovviamente, come anche Roy sapeva d’istinto, tutto ciò che lei faceva, lo faceva per se stessa, per paura o per scaricarsi la coscienza.

    Generalmente, si comportava come una sorella maggiore egoista con un fratellino rompiscatole. Bisticciavano tra loro. Lei si divertiva un mondo a divorargli qualche ghiottoneria sotto il naso mentre lui le ballava attorno infuriato e impotente.

    «Sei cattiva! Sei una vecchia scrofa ingorda, ecco!»

    «Non insultare, moccioso!» E giù una sberla. «Ti imparo io!»

    «Imparami, imparami! Non sei neanche capace a dire ti insegno

    A scuola era bravissimo e la sua condotta era ottima. Imparava facilmente, e la condotta gli sembrava semplicemente una questione di buonsenso. Perché rischiare di cacciarsi nei guai quando non ci guadagnavi niente? Perché farsi trattenere a scuola oltre l’orario a perder tempo, quando potevi stare in giro a vendere giornali o far commissioni o qualche lavoretto? Il tempo era denaro, e il denaro faceva girare il mondo. Essendo il più sveglio e il più educato della classe, naturalmente si attirava le antipatie dei ragazzi di altro tipo. Ma per quanto crudeli e frequenti fossero gli attacchi subìti, Lilly non gli offriva che una partecipazione sardonica.

    «Soltanto un braccio?» diceva, se lui mostrava un braccio distorto e gonfio.

    Oppure, se gli avevano fatto saltare un dente: «Soltanto un dente?».

    E quando si prendeva un sacco di legnate, con spaventose minacce di un peggio che doveva ancora venire: «Be’, di cosa ti lamenti? Potranno anche ammazzarti, ma non possono mica mangiarti».

    Strano a dirsi, trovava un certo conforto in quei commenti equivoci. All’apparenza erano peggio di niente, soltanto beffe aggiunte al danno, ma sotto la superficie c’era una logica gelida e spietata. Una fatalistica filosofia del «fai quel che devi o va’ all’inferno» che poteva adattarsi a tutto fuorché all’oblio.

    Lilly non gli piaceva, ma finì per ammirarla. Non aveva mai fatto altro che rendergli la vita difficile, e questo era pressoché il massimo della sua generosità con chiunque. Ma se l’era cavata bene. Sapeva badare a se stessa.

    Non mostrò tenerezze per lui finché non entrò nell’adolescenza, un ragazzo bello e sano con capelli neri come il carbone e occhioni grigi. Allora Roy, con segreto piacere, cominciò a notare un sottile mutamento in sua madre, un addolcirsi della voce quando gli parlava e una fame repressa negli occhi quando lo guardava. E vedendola così, sapendo che cosa c’era dietro quel cambiamento, si divertiva un mondo a provocarla.

    Qualcosa non andava? Voleva che lui si levasse di torno per un po’ e la lasciasse sola?

    «Oh, no, Roy. Davvero. M-mi piace stare insieme a te.»

    «Su, Lilly, lo dici solo per educazione. Mi levo subito dai piedi.»

    «Per piacere, te-tesoro…» E si mordeva le labbra per essersi lasciata sfuggire quell’insolita espressione d’affetto, mentre un rossore imbarazzato le si spandeva sul bel volto. «Per piacere, resta con me. In fondo sono… sono tua m-madre.»

    Ma non lo era, non ricordava? Lo aveva sempre fatto passare per il suo fratellino, ed era troppo tardi per cambiare la storia.

    «Me ne vado subito, Lilly. So che lo desideri. Solo che non vuoi ferire i miei sentimenti.»

    Era maturato presto, com’era naturale. A diciassette anni, quasi diciotto, la primavera che aveva preso il diploma, era maturo come un uomo che ha passato da un pezzo i venti.

    La sera del diploma, disse a Lilly che intendeva partire. Sul serio.

    «Partire…?» Se l’era aspettato, pensò lui, ma non si era ancora rassegnata. «M-ma… ma non puoi! Devi andare

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1