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Quattro piccole ostriche
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E-book284 pagine4 ore

Quattro piccole ostriche

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Info su questo ebook

Un grande thriller internazionale. Il romanzo d’esordio del conduttore di Atlantide.
2019. Alpi Svizzere. Nell'albergo di lusso dove vive, un uomo di nome Wilhelm Lang riceve una lettera inattesa, una lettera che apre la porta su un passato che pensava sepolto, quando il suo nome era Markus Graf. Il mittente è Greta, la sua amante del tempo, la sua collega del tempo in cui era una spia della STASI.
Nello stesso momento, nel parco del Tiergarten di Berlino, un diplomatico russo viene ucciso da un colpo di pistola.
A indagare arriva Nina Barbaro, Kriminalhauptkommissar di origine italiana, che non crede che dietro il delitto ci sia l'ISIS, nonostante stia ricevendo forti pressioni politiche per chiudere in fretta il caso trovando i colpevoli più comodi.
Ma per risolvere il mistero si deve andare indietro nel tempo, tornare ai giorni della caduta del muro. Nella sera del 9 novembre 1989, mentre il mondo assiste commosso al fiume umano che da est cerca di passare a ovest, le strade di Berlino sono percorse proprio da Markus, Nina e Greta, chiamati a scelte decisive destinate a condizionare per sempre le loro vite. E non solo.
Intanto Yuri, un ambizioso agente del KGB destinato a diventare presidente della Russia, e Leo Kasprik, uno psichiatra esperto di ipnosi, cercano di impadronirsi dei dossier legati al progetto segreto cui hanno dedicato anni: il progetto “Walrus”, in onore del malvagio tricheco della canzone di John Lennon e Paul McCartney e dell'inquietante favola nera di Alice nel Paese delle Meraviglie. Un progetto che avrebbe dovuto creare quattro micidiali “agenti dormienti”, addestrati per uccidere e invincibili sul campo."
LinguaItaliano
Data di uscita27 giu 2019
ISBN9788858998373
Quattro piccole ostriche
Autore

Andrea Purgatori

ANDREA PURGATORI è uno dei più importanti sceneggiatori italiani. Tra le sue sceneggiature si ricordano, per il cinema Il muro di gomma (1991), Il Giudice ragazzino (1994), Fortapasc (2009), L’industriale (2011) e per la televisione Caravaggio (2008), Lo scandalo della Banca Romana (2010), Il Commissario Nardone (2012). Attualmente conduce la trasmissione Atlantide in onda su La7.

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    Anteprima del libro

    Quattro piccole ostriche - Andrea Purgatori

    1967

    31 OTTOBRE 2019

    Berlino

    Markus Graf era stato una spia. E da spia aveva tradito.

    In quel mondo di donne e uomini la cui vita è spesso doppia o tripla e che qualcuno chiama Circo, nessuno si è mai scandalizzato per questo. Tradire è uno degli eventi possibili. Come ingannare e uccidere. O essere uccisi. E chiunque abbia frequentato quel mondo sa quanto sia ininfluente che il tradimento venga consumato in nome di un ideale o per denaro, quanto lontano ci si nasconda o il tempo trascorso. Ciò che conta sono solo tre cose.

    La scelta compiuta.

    Il danno arrecato.

    Le sue conseguenze.

    Ma poi arriva sempre anche un conto da pagare.

    Nel caso di Markus, l’anticipo sul conto gli venne notificato, se così si può dire, a trent’anni dal suo tradimento e a 843 chilometri di distanza dalle montagne svizzere su cui si era felicemente esiliato.

    Esattamente in quella zona del parco del Tiergarten che si prolunga dalla Porta di Brandeburgo verso i quartieri occidentali della città. Dove sorgeva il Muro che aveva spaccato Berlino e l’Europa in due (un altro ricordo imbarazzante del passato, del quale i tedeschi avevano quasi fatto scomparire persino la polvere).

    Era l’ultimo giovedì del mese di ottobre, che annunciava un inverno precoce. Eppure l’uomo fasciato in un cappotto nero, con la faccia rosea e la testa rotonda infilata in uno zuccotto di lana, non aveva preso in considerazione l’ipotesi di arrendersi allo sfavore del meteo e rinunciare alla sua pausa pranzo.

    Aveva atteso quel momento con grande impazienza, fin dal momento in cui aveva messo piede in ufficio.

    Uscì sulla Unter den Linden alle tredici, lasciandosi alle spalle il rumore del cancello di ferro che si richiudeva, sotto gli occhi di uno specnaz in borghese addetto alla sicurezza. Poi, con un guizzo, scartò due giapponesi che stavano scattando delle fotografie alla facciata del palazzo di epoca zarista, riuscendo a non farsi inquadrare.

    Per arrivare alla Porta di Brandeburgo, normalmente impiegava circa trecentocinquanta passi e quasi quattrocento per raggiungere il monumento ai soldati dell’Armata rossa (talvolta le abitudini si contano). Ma siccome aveva sempre tarato il ritmo sull’appetito, quella mattina gli riuscì di ridurre il totale a meno di settecento, camminando col fiatone e lo sguardo dritto avanti a sé.

    Sfilò davanti alla farmacia, a un negozio di orrendi souvenir e accanto alle vetrate scure del Quarré, il ristorante dell’Adlon Hotel che segnava l’estremità ovest della Unter den Linden e, sul lato di Pariser Platz, affacciava sull’Akademie der Künste, l’Accademia delle Arti, e l’ambasciata degli Stati Uniti.

    A quel punto tagliò la piazza con una diagonale, fendendo un crocchio di turisti francesi che ascoltava ridendo le poesie di un neohippy, che si era denudato lasciandosi addosso soltanto un perizoma e declamava versi surreali in equilibrio precario sul suo triciclo.

    Si limitò a sbirciarli, passò sotto l’arco di destra della Porta, attraversò Platz des 18. März scavalcando la doppia fila di pietre sull’asfalto che indicavano il perimetro del Muro che non c’era più e imboccò la Strasse des 17. Juni, dando un bel pestone sulla faccia dell’ex presidente americano Ronald Reagan incisa su una lastra di bronzo incastonata nel marciapiede, insieme all’esortazione con cui nel 1987 si era rivolto all’allora segretario del Partito comunista sovietico, Michail Gorbačëv: «Tear down this wall», butti giù questo Muro. Una frase storica, ma che si era convinto portasse solo sfortuna.

    Quando arrivò davanti al monumento, costeggiò la base di pietra su cui c’era uno dei due carri armati conservati a ricordo della liberazione di Berlino, salì i gradini, diede un sobrio sguardo a quel tempio in onore del passato eroico della sua nazione, ci girò intorno e, appena fu dietro, poggiò come sempre una copia del Die Welt sul muretto che guardava il parco. Poi ci sistemò sopra il suo culo flaccido, tirò fuori un döner incartato nella stagnola e spalancò la bocca dentro cui luccicavano due molari d’oro.

    Ecco, adesso era finalmente pronto a divorare il premio concesso dal suo diabetologo per la costanza nel rispettare la terribile dieta che gli aveva prescritto, e «concludere il mese con un sorriso».

    L’uomo si chiamava Egor Abalin. Ufficialmente era il quarto consigliere politico dell’ambasciata della Federazione russa. Ma con quella copertura, anche il referente a Berlino dell’FSB, il servizio segreto che aveva ereditato compiti e struttura dal disciolto KGB.

    Abalin aveva appena compiuto sessantun anni ed era molto goloso. La sua carriera diplomatica e di spia si stava ormai spegnendo senza troppi rimpianti. La fame, no.

    Da quando l’avevano assegnato alla sede di Berlino, era diventato devoto di un certo Birûsk: un curdo che odiava il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan e naturalmente faceva il tifo per i separatisti del PKK.

    Come molti immigrati di quel popolo perseguitato, Birûsk aveva aperto un döner kebab. Il suo si trovava a Kreuzberg, proprio sotto l’abitazione del consigliere. Era un locale fumoso e fetente ma, nei suoi deliri bulimici, Abalin considerava Birûsk un maestro nell’esercizio dell’arte sublime di mettere insieme nelle proporzioni giuste cinque fettine di vitella arrosto e peperoni con un contorno di potente salsa piccante a base di ketchup.

    In quel momento, nel raggio di una trentina di metri, c’era solo una babysitter olandese di ventotto anni, tale Angelica Joos. Stava spingendo oltre la siepe che separava il monumento da uno dei viali alberati del parco la carrozzina di Sophie, una bambina di nove mesi figlia di un broker e di una disegnatrice d’interni di Basilea.

    Angelica fu l’unica a notare l’uomo con un berretto da baseball calato sopra la fronte, gli occhiali da sole, un bomber nero e una busta di plastica in mano, che si stava avvicinando al consigliere Abalin. Ma distolse lo sguardo per controllare se la piccola Sophie stesse dormendo.

    In quell’attimo udì un colpo.

    Le sembrò lo scoppio di un petardo, avrebbe poi detto alla polizia. Ma non era l’ultimo giorno dell’anno.

    Flims, nei Grigioni

    Quella stessa mattina, Markus aveva sceso i gradini della spa alle sette e quarantacinque in punto. Come al solito, indossava solo un accappatoio bianco di spugna con il logo del Waldhaus Hotel ricamato sul taschino.

    Pochi minuti dopo era disteso sul lettino di una delle sale massaggi, a occhi chiusi e pancia in giù. Ancora un’ora, un’ora e mezza doccia compresa, e se ne sarebbe andato a fare una bella passeggiata fino al Caumasee ghiacciato. Magari dopo aver goduto della lingua o del sesso di Claudia, l’amante numero due delle quattro con cui divideva il tempo in quella fortunata stagione della sua nuova esistenza.

    Dagli altoparlanti incassati nel muro filtrava una bava di musica ambient, di cui gli alberghi svizzeri facevano un uso smodato. Hall, ascensori, corridoi, ristoranti, saune, piscine. Markus l’aveva sempre trovata irritante. Tuttavia, un po’ alla volta aveva imparato a tollerarla.

    Quando sentì la porta che si apriva lasciando entrare un refolo d’aria più fresca, le sue mucose catturarono il profumo di lavanda di Claudia che anticipava il contatto delle sue mani sulla schiena.

    Come ogni mattina. Ma non quella mattina.

    Markus attese in silenzio.

    Il profumo di lavanda permaneva nella sala, ma non succedeva niente.

    Allora aprì gli occhi e girò la testa.

    Claudia se ne stava seduta vicino a un tavolo d’acciaio e vetro su cui erano allineate le creme e gli unguenti. E lo stava fissando.

    Markus la osservò. Era l’incarnazione perfetta di quella tipologia di donna svizzera che, secondo una sua spericolatissima teoria, s’incontra soltanto sopra i milleduecento metri sul livello del mare: un mix di pelle naturalmente levigata e tonicità che lo faceva impazzire.

    Le sorrise.

    «È finito l’olio al mughetto?»

    Claudia stranamente non rispose.

    Allora Markus fece una torsione col busto, poggiando il gomito sinistro sul lettino. Nonostante i cinquantasette anni, era in uno stato di forma eccellente e gli piaceva mostrarla anche con un banale movimento. Piccole soddisfazioni di un allenamento costante agli attrezzi.

    La guardò un po’ sorpreso.

    «Che c’è che non va, Schatzi

    Claudia continuò a fissarlo ancora per qualche istante. In silenzio. Poi disse quello che doveva dirgli. In due parole.

    «Sono incinta.»

    Markus sperò di non aver capito bene. Anzi, per un attimo avrebbe persino gradito che qualcuno avesse alzato a tutto volume quello schifo di musica ambient che rantolava dagli altoparlanti.

    Il punto è che aveva capito benissimo.

    «Sei cosa?»

    «Aspetto un bambino, Willi. Da te.»

    La notte precedente aveva nevicato. L’aria era frizzante, piena di ossigeno. Gli unici rumori che rompevano il silenzio erano le cascate intermittenti di grumi di fiocchi bianchi, che i rami non riuscivano a trattenere.

    I doposci di cervo, morbidi e ingrassati come piaceva a lui, affondavano croccando in un manto di dieci centimetri di neve con uno stridio leggero. Una sensazione che l’aveva sempre messo di buonumore.

    Ma non quella mattina.

    Markus tirò dritto fino alla porta girevole del Waldhaus Hotel ma decise che sarebbe entrato da quella accanto, utilizzata dagli sciatori per imboccare le scale che conducevano allo Skiraum.

    Ingenuamente sperava che, invertendo l’ordine delle abitudini, la ruota delle brutte notizie avrebbe cominciato a girare al contrario.

    Non fu così.

    I segnali negativi erano persino nell’aria densa della grande hall dell’albergo che odorava di neve bagnata, vapori di cucina e cuoio di stivali, e come sempre era riscaldata con elvetica generosità.

    Tuttavia, Markus trovò che il calore era davvero insopportabile. E mentre si avvicinava stranito al banco della reception, cominciò a sbottonarsi il soprabito.

    Stetter aveva già pronta la mazzetta dei giornali, ma la sua faccia tirata a lucido da chissà quale dopobarba non era la solita.

    A volte anche gli svizzeri non ce la fanno a dissimulare.

    «Buongiorno, Herr Lang. Oggi il barometro è dalla nostra parte» disse con entusiasmo ma senza strafare.

    «Proprio così, Herr Stetter. Neve fresca e alta pressione» rispose Markus meccanicamente. «Era ora.»

    E prese i giornali.

    Ma Stetter allungò subito l’altra mano.

    «C’è anche questa per lei.»

    Gli stava porgendo una busta commerciale di circa venti centimetri per venti e contemporaneamente non lo mollava con lo sguardo.

    Markus capì subito il perché. Quella era la prima corrispondenza affrancata con francobolli tedeschi che riceveva da trent’anni. Cioè, da quando si era trasferito a Flims e aveva acquistato in contanti un bellissimo attico in una delle palazzine più esclusive disseminate nel fitto bosco di proprietà del Waldhaus. Il che all’epoca gli aveva permesso di diventare socio dell’albergo, e in un certo senso di trasformare Stetter in un suo dipendente.

    Comunque, fece finta di non raccogliere quel gesto malizioso. Si aggrappò addirittura alla possibilità di un errore, pur sapendo che il concierge di un hotel a cinque stelle arroccato nei Grigioni non sbaglia praticamente mai. Soprattutto se si è diplomato alla scuola alberghiera di Zurigo e ha quarant’anni di carriera alle spalle.

    «Per me?» domandò con aria sorpresa.

    «Jawohl, Herr Lang. C’è il suo nome, infatti.»

    Due avvenimenti tanto destabilizzanti e ravvicinati che convinsero Markus che decisamente non si trattava di una buona giornata. Ma prese lo stesso la busta, abbozzando persino un sorriso.

    «Grazie.»

    «A sua disposizione, Herr Lang.»

    Mentre tornava alla porta, Stetter si piegò di nuovo sul banco a lavorare di matita e di gomma sul quadro delle prenotazioni. Nella hall faceva caldo ma, stretta nella mano, a Markus sembrò che quella busta stesse addirittura bruciando.

    Una volta nell’attico, entrò in bagno, accese la luce e si guardò allo specchio. Non fu un colpo d’occhio esaltante. Gli sembrava che la pelle del viso si fosse raggrinzita. Ma, cercando di non fissarsi su quella immagine, tirò fuori un kleenex dalla scatola e poggiò la busta sul piano del lavandino.

    I tre francobolli da 55 centesimi dell’affrancatura col faccione dell’ex cancelliere Helmut Kohl erano stati emessi dalla Deutsche Bundespost nel 2012. Sopra c’era il timbro dell’ufficio postale di Berlino, con la data del 29 ottobre 2019. Due giorni prima. E nome e cognome del destinatario – Wilhelm Lang – erano certamente stati scritti a macchina. Come l’indirizzo del Waldhaus.

    Gli era bastata un’occhiata per accorgersene, mentre Stetter gliela passava. Perché le sbavature intorno alle lettere erano tipiche di un nastro inchiostrato. E nel 2019 chi si sarebbe messo a scrivere a macchina un indirizzo su una busta, ignorando la lista dei caratteri di Microsoft Word, dalla A di Abadi alla Z di Zapfino, che persino l’ultimo dei software poteva offrire con un paio di clic?

    La somma di quei dettagli lo fece inquietare ancora di più. E la prima e unica cosa che gli venne in mente fu Greta.

    Un automatismo che credeva di avere rimosso.

    Non si sbagliava. Lei aveva sempre adorato provocarlo con quel genere di sfide. Sosteneva che fossero parte di un gioco segreto al quale potevano partecipare solo loro due.

    Ma quel gioco risaliva a molti anni prima. Trent’anni prima. E tutto poteva aspettarsi, meno che avesse ricominciato spedendogli una lettera dove non avrebbe mai dovuto sapere che si era nascosto.

    Markus la considerava un capitolo morto e sepolto della sua vita precedente. È vero, l’aveva mollata da un momento all’altro, senza il coraggio di annunciarle che sarebbe sparito da lei, da Berlino e dal mondo. Ma proprio per questo motivo immaginava che lei lo avesse prima odiato, poi cancellato per sempre dalla sua memoria.

    Invece, no. E questo gli fece tornare su una montagna di rimozioni e sensi di colpa. Perché Markus non aveva tradito solo da spia, lo aveva fatto anche come uomo.

    Tutto era avvenuto nel terzo anno della loro storia, quando i ruoli si erano di colpo ribaltati. Ed era Greta a inseguirlo disperatamente, dopo due anni in cui era stato lui a fare l’impossibile per convincerla ad amarlo.

    Ma ormai erano avviluppati in un vortice di sospetti reciproci e recuperare il lato più sano del loro rapporto era diventata un’impresa praticamente impossibile.

    Prima di frequentarlo, Greta era stata infiltrata dal servizio a Ovest col compito di sedurre due parlamentari del Bundestag ed estorcergli il maggior numero di informazioni con gli strumenti del sesso. Una pratica che, a giudizio di Markus, le riusciva in modo spettacolare.

    Ecco cosa lo aveva stregato fin dall’inizio.

    La conseguenza di quella missione era stata che, per il tempo in cui erano rimasti insieme contravvenendo a una delle regole più severe ma anche più infrante che proibiva rapporti sessuali tra agenti, non era riuscito a dare una risposta certa al dubbio che lo tormentava: con lui, Greta recitava gli orgasmi o li provava davvero?

    Quel dubbio, unito ai racconti che gli faceva sulle abitudini sessuali dei suoi amanti del passato, cercati o subiti, gli aveva fatto perdere progressivamente l’equilibrio, fino a renderlo così geloso da cercare ogni volta la conferma che con i suoi ex non ci fosse partita.

    La differenza, le diceva ogni giorno, poggiava solo sul sentimento. Nel senso che lui la amava, e loro l’avevano usata come un giocattolo erotico di eccellente qualità.

    Un’aggravante era che Greta gli aveva raccontato che, pur di giustificare con se stessa quelle frequentazioni che invece si consumavano solo nella ripetitività del sesso, s’aggrappava sempre a un autoinganno. All’illusione di vivere qualcosa di speciale. Ma, una volta presa coscienza che di speciale non c’era proprio nulla, si irrigidiva, prendeva le distanze e alla fine spariva.

    Ecco l’altro dubbio al quale Markus non aveva saputo dare una risposta: considerava anche la storia con lui un autoinganno al pari dei precedenti, incapace com’era di controllare i suoi continui sbalzi d’umore che lo disorientavano e lo facevano soffrire?

    Così, dopo due anni, dopo essere stato lasciato e ripreso almeno una volta al mese e dopo essersi consumato tra sospetti e gelosie, Markus aveva deciso di mollare quella donna egoista e ripiegata su se stessa che lo stava consumando.

    Ma proprio nel momento in cui lei avrebbe invece desiderato continuare insieme per tutta la vita.

    I tempi dell’amore non sempre coincidono e le cause di ogni mancata coincidenza andrebbero equamente ripartite. Cosa che però Greta non era abituata ad accettare. Infatti, aveva cominciato a scaricargli addosso la sua negatività, accusandolo di essere pronto a sedurre ogni donna che incontrava, senza rendersi conto che così lo stava inesorabilmente allontanando ancora di più.

    Infine, insieme al tarlo della gelosia che aveva traslocato nella sua testa, Greta aveva commesso un altro grave errore: quello di umiliarlo nel lavoro, che invece svolgeva egregiamente, nel tentativo di abbassarlo a un livello di mediocrità che, ne era convinta, le avrebbe permesso di tenerlo più facilmente stretto a sé.

    Insomma, amore e psiche seguono percorsi tortuosi e talvolta distruttivi anche tra le spie. E come conseguenza, persino i fiori (quelli che Markus le regalava, merce rara da trovare a Berlino Est) perdono i loro colori e rendono maleodorante l’acqua del vaso nel quale finiscono.

    Ma non erano solo quelli i motivi per cui era scappato.

    Markus aprì l’armadietto, prese le forbici da unghie e, tenendo la busta ben ferma sotto il kleenex (aveva già seminato troppe impronte con i polpastrelli inumiditi dalla tensione), tagliò una striscia di un paio di millimetri su uno dei bordi e ne estrasse il contenuto.

    Era un’altra busta, stavolta indirizzata a Markus Graf. Cioè, il suo vero nome. L’identità che trent’anni di esilio avrebbero dovuto cancellare dalla memoria di chi l’aveva conosciuto quando era un rampante capitano del servizio segreto della Repubblica democratica. La Stasi, per il popolo dell’Est. L’Azienda, per tutti i suoi agenti e informatori.

    Invece, no. Quell’intestazione scritta a macchina sulla busta provava che Markus Graf non era affatto morto per fare posto a Wilhelm Lang.

    Markus Graf esisteva ancora.

    Aprì il frigobar nel soggiorno, si versò mezzo bicchiere di vodka Bajika e la mandò giù in una sorsata, nonostante fosse a digiuno. Poi tornò nel bagno, aprì la seconda busta e capì tutto.

    Dentro c’era la custodia di un vecchio 45 giri: la colonna sonora di Magical Mystery Tour dei Beatles.

    La copertina era un cielo di stelle colorate a formare un arcobaleno sul titolo del disco con una foto di John Lennon travestito da ippopotamo, Ringo Starr da gallo, George Harrison da coniglio, e Paul McCartney da tricheco.

    Il tricheco che nella leggenda è portatore di sventura.

    C’era anche dell’altro però: uno zero tagliato da una diagonale, tracciati con un pennarello nero.

    Appena lo vide, Markus ebbe una vertigine. Come se gli si fosse scaraventata addosso a tutta velocità quella vita di cui credeva di essersi liberato per sempre. La prima vita.

    Walrus era il progetto più folle al quale lui e Greta avevano lavorato nel Dipartimento K dell’Hauptverwaltung Aufklärung (HVA), la divisione della Stasi per lo spionaggio all’estero, fino al giorno della caduta del Muro e della sua fuga. Un Dipartimento creato ad hoc, che non appariva in alcuna pianta o documento ufficiale del servizio.

    E nel codice obsoleto degli agenti segreti della Germania orientale e del KGB, il servizio dell’ex Unione sovietica che si serviva della Stasi per molte delle operazioni più sporche, lo zero barrato significava solo una cosa: emergenza.

    Insomma, dopo l’annuncio di Claudia, che lo aveva inchiodato al lettino della spa, quello fu il secondo avvenimento destabilizzante di una giornata che ormai poteva considerare spaventosa.

    Il terzo glielo consegnarono le immagini della CNN dal Tiergarten (prima delle solite sparate con la bocca a culo di pollo del presidente americano, contro l’Iran degli ayatollah): una serie di inquadrature del cadavere del consigliere Egor Abalin, abbandonato sul muretto dietro al monumento ai soldati dell’Armata rossa.

    Dunque, primo: Greta conosceva l’identità dietro cui si era nascosto per tutto quel tempo.

    Secondo: aveva scoperto il suo rifugio da chissà quanto.

    Terzo: gli aveva spedito quella busta, sapendo con due giorni d’anticipo che sarebbe accaduto qualcosa di grave.

    Quarto: per fargli muovere il culo da Flims e costringerlo a tornare a Berlino, aveva scelto un simbolo che avrebbe immediatamente saputo decifrare.

    Infatti, per quanto fosse strano, lo zero barrato, la copertina e quel russo morto ammazzato stavano perfettamente insieme. E Greta sapeva che solo lui sarebbe stato in grado di capire come e perché.

    Markus ragionò velocemente.

    Per salvare la sua seconda vita e quello che aveva costruito, doveva scoprire perché avesse deciso di tirarlo per i capelli dentro un delitto che anche a distanza di ottocento chilometri puzzava di regolamento di conti tra spie.

    Certo, aveva abbandonato il Circo nel modo peggiore: scappando. E aveva tradito nel modo peggiore: rubando i fondi neri del servizio. Ma coinvolgerlo dopo trent’anni in quella faccenda che senso aveva?

    Per quanto fosse protetto dal massimo livello di segretezza, oltre a lui c’era almeno una mezza dozzina di

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