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Prokeitai: Dentro la luce
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Prokeitai: Dentro la luce
E-book456 pagine5 ore

Prokeitai: Dentro la luce

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Info su questo ebook

Un unico lampo accecante solca i secoli, dalle colonie dell’antica Grecia al Medioevo, dalla Seconda Guerra Mondiale fino all’alba del nuovo millennio, celando segreti che forse l’umanità non è ancora pronta ad accogliere. Una misteriosa iscrizione e il fortuito ritrovamento di un libro spingono Marco, sommozzatore professionista e appassionato di Storia, a indagare, approfittando di un lavoro che gli viene offerto a Procida: la stupenda isola sembra infatti l’unico punto d’unione tra alcuni strani episodi, accaduti in epoche diverse. Spingersi sempre più a fondo, sia nel mare, da lui tanto amato, sia nella ricerca della verità, diviene così per il protagonista una vera e propria ossessione, che lo condurrà a incredibili sorprese. Al suo fianco, due splendide donne e un variopinto gruppo di amici, compagni di un viaggio verso l’ignoto.
LinguaItaliano
Data di uscita19 set 2020
ISBN9788832144581
Prokeitai: Dentro la luce

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    Anteprima del libro

    Prokeitai - Claudio Macarelli

    Vinicio

    PROLOGO

    I

    1450 a.C. l > m a , Poroketa

    La nave puntava veloce verso la costa ormai vicina. La grande vela quadra, gonfia di vento, risplendeva bianca alla luce del sole. I trenta uomini ai remi vogavano con rinnovata energia: mancava poco alla meta.

    Pyamaradu, il timoniere, in piedi sul casseretto di poppa, manteneva la rotta, tenendo ben saldi i due grossi remi. Vicino a lui, il comandante, il valoroso Alaksandu. Il re, il potente Atpa, lo aveva investito del prestigioso ruolo di capo dei combattenti: era un Rawaketa.

    Il timoniere lo distolse dalle sue riflessioni.

    «Mio signore, il nostro re, che ci guida con la sua infinita saggezza, è stato molto generoso nel lasciarti governare questo temenos così grande.»

    Alaksandu non rispose subito. Alzò lo sguardo verso l’orizzonte per ammirare l’isola davanti a loro: quella terra l’aveva scoperta lui e adesso era la sua dimora.

    «È ciò che mi spettava» sentenziò senza aggiungere altro.

    Pyamaradu strinse il remo e rimase in silenzio: non voleva essere punito dal Rawaketa per il suo ardire nel parlare.

    Alaksandu aveva risposto in maniera dura, perché provato dalla lunga assenza dall’isola. Aveva aspettato a Micene cinquanta giorni dopo il solstizio e infine era arrivata l’estate, dai venti propizi e dal mare calmo, che gli aveva dato modo di compiere il viaggio per riportarlo lì, prima del tempo del vino novello, della pioggia autunnale e del terribile infuriar di Noto che gonfia il mare.

    Poteva rivedere la sua isola che, come la prima volta, anche adesso gli dava l’impressione di essere coricata sul mare. Per quel motivo l’aveva chiamata P oroketa P otinija, ovvero Dea che giace, e mentre la guardava avvicinarsi, dentro di sé ringraziava Proteo d’averla messa lì per lui.

    Sull’isola lo aspettavano con ansia Karawija, la moglie, e Kesadoro, il figlio, che ormai da molte notti sognava di riabbracciare.

    Doppiarono il promontorio che cadeva a picco nell’acqua blu cobalto. Alla loro sinistra si ergeva un basso costone di roccia circolare, che formava al suo interno un ampio bacino di acqua di mare. Alla loro destra invece la lunga falesia di tufo giallo ambra terminava in una piccola insenatura: lì c’era il loro approdo.

    Il vento favorevole di poppa li spinse fino ad arrivare con la prua sulla spiaggia di sabbia nera. I vogatori alzarono i remi, la nave si fermò con un lieve sussulto e Alaksandu impartì subito ordini all’equipaggio.

    «Ammainare!»

    Vennero sciolte le grandi corde ritorte di budella taurine, che tenevano in posizione il grosso albero di maestra della nave. Con movimenti veloci, dovuti alla consuetudine di eseguire quella manovra, il grande albero fu ammainato e messo dentro la forcella di poppa.

    «Via la vela!»

    Tre dei suoi uomini sciolsero i molteplici lacci che bloccavano la vela all’antenna, la lunga asta di legno legata a sua volta alla sommità dell’albero maestro.

    «Mio signore, siamo pronti!» urlò con decisione Pyamaradu, rivolgendosi al comandante, che gli rispose con un altro ordine.

    «Metti al sicuro la nave!»

    I suoi possenti muscoli si indurirono, alcune gocce di sudore brillarono al sole, mentre con un balzo felino saltava la murata di prua. Si voltò verso l’imbarcazione. Con lunghe corde l’equipaggio aveva iniziato a tirarla sopra la spiaggia, per poi bloccarla con sassi e ceppi di legno, in modo che non si ribaltasse. Si rivolse a uno dei suoi uomini che stava poco distante da lui:

    «Iwaka!»

    «Dimmi, mio signore.»

    «Fai scaricare la nave e stai attento che tutto venga riposto in maniera adeguata; ti riterrò responsabile, se qualcosa andasse perduto.»

    «Certo, mio signore, farò portare subito tutto il carico nei magazzini.»

    Una leggera brezza mosse i lunghi e morbidi riccioli neri di Alaksandu. Mise una mano sull’elsa intarsiata d’oro della spada e s’incamminò lungo una strada che attraversava un gruppo di capanne dal tetto in tegole color ambra. Era il piccolo villaggio degli indigeni che aveva trovato lì al suo arrivo, ma che non aveva né sottomesso né reso schiavi. Alaksandu e il suo popolo, gli Ahhiyawa, convivevano in maniera pacifica con quella gente, in un proficuo scambio culturale. Avevano insegnato loro l’uso del tornio per la lavorazione dell’argilla e l’arte del fondere e modellare i metalli, oltre ad aver trasportato fino a lì vasi di ceramica decorata e materie prime che erano assenti sull’isola. Gli artigiani locali, invece, abili nell’estrarre e lavorare il tufo che abbondava su quella terra, avevano fornito le tegole e altro materiale da costruzione.

    «Padre, padre, sei arrivato!»

    Da un sentiero che scendeva dalla collina alla destra dell’approdo, giunse un bambino dai capelli biondi, che esprimeva gioia a ogni passo. Il piccolo era seguito da una giovane donna.

    «Kesadoro, figlio mio!»

    Il bambino gli corse incontro e gli saltò addosso, gettandogli le braccia al collo e le gambe intorno al possente torace nudo.

    «Padre! Che bello, sei tornato! Ho pregato ogni sera gli dei perché ti proteggessero.»

    «Le tue preghiere sono state accolte, gli dei sono stati propizi: come vedi sono qui ad abbracciarti, mio Kesadoro.»

    Li raggiunse anche la donna. Era vestita di rosso acceso, con una gonna scampanata a balze regolari e un corpetto attillato, con le maniche corte e aderenti, che lasciava scoperto il rigoglioso seno. I capelli biondi erano raccolti sopra il capo in complicati nodi, ornati da perline e lasciati ricadere liberi sulle spalle. Il contorno degli occhi, celesti come il cielo, era evidenziato da un tratto nero, mentre le guance e le labbra erano accese dal colore del minio impastato con olio profumato.

    Alaksandu guardò la donna con profonda ammirazione e desiderio, posò con dolcezza il figlio sopra una grande roccia e le si avvicinò.

    «Karawija, moglie mia, sei bella come una dea!»

    «Alaksandu, il cuore torna a battere nel mio petto ora che sei qui, l’ansia della tua assenza mi logorava, come il mare e il vento fanno con le rocce di quest’isola.»

    I due si abbracciarono e si baciarono con trasporto. Nei loro occhi si leggeva l’amore che provavano l’uno per l’altra, la loro pelle fremeva per il desiderio di giacere insieme. La separazione era stata lunga e dolorosa. Alaksandu e Karawija in quel momento sembravano una cosa sola.

    Il piccolo Kesadoro scese dal grande sasso e tirò con forza il gonnellino di stoffa bianca che il padre indossava fermato in vita da un’alta cintura di pelle.

    Se ne stava in silenzio guardando in alto, con i suoi due grandi occhi neri, imploranti l’attenzione di Alaksandu.

    I due si guardarono e scoppiarono a ridere.

    «Hai ragione, piccolo mio, avrai di sicuro cose importanti da riferirmi. Andiamo, parliamone tra uomini.»

    Caricò il figlio sulle spalle, poi prese per mano Karawija e, mentre Kesadoro iniziava a raccontargli delle imprese compiute in sua assenza, tutti e tre s’incamminarono sulla strada in terra battuta che risaliva la collina.

    Il promontorio che stavano percorrendo era ricoperto da una rigogliosa vegetazione; il vento trasportava l’odore del mirto e della ginestra. Quella penisola di roccia separava e nascondeva il protetto approdo degli Ahhiyawa da un’altra baia dell’isola dalla forma semicircolare, con pareti a strapiombo sul mare, che la rendevano inaccessibile a ogni tipo d’imbarcazione. L’insenatura era stata plasmata con quell’aspra morfologia dall’esplosione di un antico vulcano, avvenuta migliaia di anni prima. In cima a quello sperone di roccia si godeva di una splendida e ampia vista sul mare che li circondava e su gran parte dell’isola. Era lì che Alaksandu aveva fatto costruire il suo palazzo con grandi pietre di tufo giallo. Vicino a quella costruzione sorgevano le abitazioni della sua gente, con i muri di legno intonacato e i tetti di pietra grigia.

    Passarono attraverso un’ampia apertura rettangolare delle mura, che immetteva in un cortile con il porticato, da cui, tramite un vestibolo a due colonne e un atrio, si accedeva all’ampio mégaron. Al centro della sala dominava l’ eschàra, il grande focolare, circondato da quattro colonne lignee e sovrastato da un’ampia apertura sul tetto che serviva a far uscire i fumi. Sulle pareti erano state dipinte immagini di guerrieri, carri, cavalli e animali marini. Da quell’ambiente si accedeva anche alle altre stanze del palazzo e al piano superiore, dove si trovava il gineceo. Alaksandu posò il figlio sopra il trono, ricavato da un grande masso di tufo.

    «Padre, lo sai che con l’aiuto di Fineo, che mi ha insegnato a usare il tornio, ho fatto un vaso che ho decorato con colori bellissimi? Lo vuoi vedere?»

    «Certo!»

    «Allora andiamo a prenderlo, e lo portiamo alla scogliera per donarlo al luminoso Proteo, che ti protegga nei tuoi viaggi!»

    Karawija, sorridendo, prese in braccio il figlio.

    «Kesadoro, tuo padre è stanco per il lungo viaggio, lascia che si riposi, poi verrà con te. Inoltre adesso devi andare a lezione da Teseo con gli altri tuoi compagni.»

    Il bambino guardò il padre con occhi imploranti. Alaksandu si avvicinò:

    «Ora mi riposo, ma prima che scenda la sera ti prometto che andiamo alla scogliera, per una battuta di caccia con la lancia.»

    «Sì, che bello, a caccia!»

    Si liberò dalla mamma e si mise a saltellare, felice per la promessa ricevuta, poi ubbidì e sparì andando a lezione nel cortile.

    I due sposi rimasero soli. Alaksandu prese in braccio Karawija, entrò in un corridoio e lo attraversò mentre baciava la moglie. Arrivò ai suoi alloggi e adagiò la donna sul letto, si tolse la spada e si sdraiò accanto a lei.

    «Mi sei mancata come l’aria.»

    «Anche tu, mio sposo.»

    Alaksandu le baciò la fronte, poi le labbra, le sciolse le vesti, e iniziò ad accarezzarle il corpo nudo. La pelle di Karawija iniziò a fremere, socchiuse gli occhi e si lasciò andare. Lui scivolò sopra di lei e furono una cosa sola.

    Sfiniti dalle fatiche dell’amore, caddero in un sonno profondo, che per Alaksandu non durò a lungo.

    «Mio signore, svegliatevi! Ho urgenza di parlarvi!»

    Aprì gli occhi di colpo: accanto a lui Karawija dormiva. Non capì subito da dove veniva la voce, si tirò su reggendosi sui gomiti, concentrandosi per capire cosa lo avesse strappato dal meritato riposo. La voce si fece ancor più presente nella stanza.

    «Mio signore, siete sveglio?»

    Guardandosi bene dall’entrare nella camera, uno dei sacerdoti del villaggio lo stava chiamando. Alaksandu si stropicciò il viso con le mani, guardò con ammirazione lo splendido corpo nudo di Karawija, con rammarico lo coprì con il suo mantello e con voce autoritaria rispose a quella richiesta.

    «Chi sei? E dimmi, che accade di così importante per disturbare il mio sonno?»

    «Mio signore, sono Teposeu, il sacerdote, che gli dei mi perdonino per avervi svegliato. Ma sono proprio loro che mi hanno mandato.»

    Alaksandu si alzò, si rivestì e uscì dai suoi alloggi. Nel corridoio che portava al mégaron, lo aspettava il sacerdote con un’espressione mista tra paura e ansia.

    «Teposeu, cosa ti allarma tanto?»

    «Kesadoro è in pericolo, è...»

    Alaksandu afferrò il sacerdote per le spalle appoggiandolo alla parete del corridoio, mentre lo guardava con apprensione.

    «Cosa accade a mio figlio? Sai che non devi perderlo di vista. Dov’è?»

    «Mio signore, lasciatemi! Così mi impedite di parlarvi!»

    Alaksandu lo lasciò andare.

    «Kesadoro è stato visto da alcuni pescatori sopra il promontorio con un vaso in mano.»

    «Teposeu, e mi svegli per questo? Gli avevo promesso di portarlo io al promontorio, ma poi mi sono addormentato, si sarà stancato d’aspettarmi, lo sai come sono i bambini!»

    «Signore, c’è dell’altro.» S’interruppe per paura della reazione di Alaksandu, che lo guardò con espressione spazientita.

    «Dimmi! Non temere, che altro è successo?»

    «I pescatori mi hanno riferito che mentre erano a pesca nella baia, all’improvviso il mare davanti a loro ha iniziato ad agitarsi formando un vortice, e proprio sopra al tumulto delle acque hanno iniziato a vedere una luce grande e splendente come l’oro più puro. Si sono spaventati a morte, hanno pensato che gli dei non volessero più donare pesce per quel giorno e sono scappati, remando con tutta la forza che avevano. È stato doppiando la punta che hanno visto Kesadoro, proprio sopra il promontorio, che guardava nella direzione di quella luce.»

    Alaksandu non ascoltò altro, voltò le spalle al sacerdote e volò via; in un attimo attraversò il mégaron e il cortile e uscì dal palazzo, correndo lungo il sentiero che portava al punto dove era stato avvistato il figlio. L’idea di Kesadoro solo sul promontorio, con la paura che gli dei volessero portarglielo via, lo terrorizzava.

    Il costone di roccia digradava in mare con una parete di tufo liscia, il colore giallo ocra diventava più caldo e intenso con il calare del sole.

    Kesadoro era in piedi accanto al piccolo altare a forma di grandi corna, dove erano poste piccole statuette di ceramica, raffiguranti gli dei venerati dagli Ahhiyawa.

    Davanti a lui si apriva la baia da cui lo avevano chiamato a gran voce i pescatori mentre scappavano, incitandolo a tornare a palazzo. Lui però non voleva andarsene, voleva rimanere, sapeva che non era pericoloso, non aveva paura. Stringeva nelle mani il vaso, che aveva decorato con molta cura, pronto a offrirlo alla divinità che stava di fronte a lui.

    Il sole era quasi sparito dietro l’orizzonte, il crepuscolo avvolgeva la grande baia. Al centro si era formato un vortice d’acqua, i cui bordi, girando con una forza innaturale, si innalzavano dalla superficie del mare. Sulla sommità di quel mulinello era apparsa una luce che s’irradiava come i raggi del sole. Al centro di quel bagliore c’era un cerchio nero simile a una sfera densa come la pece.

    «Kesadoro! Kesadoro!» urlò Alaksandu, appena vide il figlio illuminato da quella luce così intensa e accecante.

    Ma il ragazzo non si girò: era troppo preso da quello che vedeva.

    L’uomo corse verso di lui con il cuore in gola e la paura di vederlo sparire da un momento all’altro. Nel momento in cui lo raggiunse e lo afferrò per un braccio, la sua attenzione fu catturata da quello che si stava manifestando davanti a loro. Anche lui venne avvolto da quella luce.

    «Figlio, vieni, andiamo via da qui!» furono le uniche parole che gli uscirono dalla bocca.

    «No, padre, non temere, non sono divinità cattive. Vedi, ho qui anche il dono per loro!»

    Alaksandu prese in mano il vaso che il figlio gli porgeva: aveva un’imboccatura larga con l’orlo e i due manici colorati di nero. Sotto le due anse erano stati dipinti due triangoli giallo oro; al centro della pancia, in ambo i lati, era raffigurata una sfera nera, circondata da un cerchio rosso porpora, da cui partivano raggi ondulati, sempre di colore giallo oro, su uno sfondo nero. Sopra un fianco vicino alla base, Kesadoro aveva inciso nell’argilla delle parole nella loro lingua.

    Alaksandu si concentrò su quei segni e capì. Il figlio aveva già visto ciò che si stava manifestando davanti ai suoi occhi increduli. Invece di raccontarlo alla madre, aveva realizzato quel vaso e adesso era lì per offrirlo in dono a quel dio.

    La luce divenne intensa, un cerchio rosso apparve intorno alla sfera nera, che aumentò sempre di più la velocità. I due furono avvolti da quel bagliore e dal calore che emanava.

    Sempre più terrorizzato, Alaksandu strinse il vaso e urlando lo lanciò con forza verso quella che credeva una divinità in collera con il suo popolo.

    «Proteo, a te questo dono, perdonaci se ti abbiamo offeso!»

    In quell’istante la luce fu risucchiata al centro della sfera nera, che rimase per un attimo sospesa sopra l’acqua con il cerchio rosso che pulsava, poi si inabissò nel mare trascinando via anche il vaso.

    Kesadoro prese per mano il padre.

    «Hai visto che bello? Non aveva mai fatto così il dio Proteo. Ora è andato in mare, sotto l’isola. Forse la tavoletta di pietra aveva un disegno troppo piccolo e poche incisioni, non era abbastanza per lui. Ma adesso no, ha preso il vaso con sé. Ecco perché è stato così grande. Vero, padre?»

    Alaksandu non sentì il figlio, guardava in mezzo alla baia: il vortice ruotava aumentando la sua velocità attimo dopo attimo, al centro si vedeva ancora il bagliore rosso che sprofondava verso l’abisso. Prese in braccio il figlio.

    Dopo un tempo che gli sembrò infinito tutto si calmò, la baia tornò buia, ma prima che l’ultimo tumulto d’acqua si placasse, un raggio di luce accecante li trafisse come una lancia. Alaksandu strinse a sé Kesadoro, facendogli scudo con il proprio corpo, e l’ultima cosa che vide fu il volto della moglie che lo baciava.

    «Padre, padre, svegliati, è sera!»

    Alaksandu si destò di colpo.

    «Kesadoro, dove sei? Vieni qui, la luce, andiamo via!»

    Il movimento che fece fu così improvviso e violento che il bambino venne scaraventato a terra. Alaksandu aprì gli occhi e vide la moglie con accanto il figlio che lo guardavano impauriti.

    «Dove sono? Mi sembra... ma non ricordo. Sì, forse ero sulla collina e...»

    Karawija si sedette sopra il letto accanto al marito, che era sudato e in preda all’agitazione dopo che il figlio saltandogli addosso lo aveva strappato al sonno. Gli accarezzò con delicatezza la testa e i capelli.

    «Mio caro, sei nei tuoi alloggi, calmati, non c’è nessun pericolo, nessuna luce.»

    Alaksandu la guardò come se non capisse.

    «Come sono arrivato qui? E la luce?»

    La moglie gli sorrise.

    «Con le tue possenti gambe e con me in braccio, mio valoroso marito!»

    Dicendo così, lo abbracciò e lo baciò, mentre Kesadoro gli saltava di nuovo addosso incitandolo.

    «Padre, andiamo alla scogliera, me lo hai promesso! Voglio pescare e lanciare i sassi in mare!»

    Alaksandu si lasciò cadere di nuovo sul letto, sopraffatto dalla stanchezza, ma con il cuore pieno di gioia nel constatare di trovarsi lì, accanto alla sua famiglia.

    II

    Monte Tresino, Pagus di San Giovanni della Redita,

    Anno Dominice Incarnationis MCXXIII

    L’acqua sgorgava da una fontana incastrata nella roccia e, dopo aver riempito una serie di vasche, scendeva nei campi circostanti, per poi formare un ruscello che finiva in mare. Sopra la sorgente, due rigogliose palme da dattero donavano al luogo un’atmosfera esotica.

    Costabile tirò le redini arrestando il cavallo, e con un cenno della mano fermò anche il suo aiutante, che lo seguiva in sella a uno dei due muli adibiti al trasporto dei bagagli.

    Smontò dall’animale e, come aveva fatto tante volte da bambino, si avvicinò alla sorgente per bere. Si sedette sul bordo di una delle vasche, per guardare l’acqua limpida che fuggiva via veloce e la sfiorò con la mano, facendola scorrere tra le dita. Era fredda, ma avvertire quella sensazione di intorpidimento sulla pelle gli procurava gioia, lo riportava indietro nel tempo, quando da piccolo giocava per ore vicino a quella fonte.

    Poco distante spuntava il suo villaggio, costruito intorno alla chiesa di San Giovanni, eretta da Ligorio di Atrani oltre un secolo prima. Le case, i fienili, le stalle, la scuola sorgevano sopra una collina chiamata Tresino, che dominava dall’alto il golfo di Santa Maria in Gulia. Erano passati molti anni dal giorno in cui la sua famiglia, i Gentilcore, provenienti dal Contado di Marsico, in Basilicata, e divenuti illustre casata del Principato di Salerno, l’aveva affidato, appena adolescente, all’abbazia benedettina di Cava dei Tirreni.

    Da allora si era dedicato con devozione a quella vita di preghiera, studio e lavoro. Il 4 marzo del 1123 era stato eletto quarto abate dell’abbazia che l’aveva accolto molti anni prima.

    «Abate Costabile, andiamo: vostra sorella aspetta da giorni il vostro arrivo.»

    Costabile distolse lo sguardo dalla vasca di pietra e guardò il mare risplendere sotto i raggi del sole ai piedi della collina. Quasi a dare un taglio netto ai ricordi infantili, si alzò di scatto e con voce allegra rispose al buon frate che lo accompagnava.

    «Avete ragione, fratello Pietro, andiamo; ho perso fin troppo tempo.»

    Prese le redini del cavallo e si avviò verso il villaggio a passo veloce, seguito dal confratello con i muli.

    La gente del borgo, intenta ai lavori quotidiani nelle botteghe, appena si accorse del suo arrivo, gli andò incontro con gioia. Tutti lo salutavano con affetto, ringraziandolo e inchinandosi davanti a lui in segno di devozione.

    Quel giorno erano ancora più felici della sua venuta, perché sapevano che era tornato a erigere una costruzione in grado di difenderli dalle incursioni dei pirati saraceni, spesso protagonisti del saccheggio del contado.

    «Abate Costabile, quale gioia vedervi! Bentornato a San Giovanni.»

    Un giovane dal viso abbronzato si era avvicinato, mettendosi davanti al suo cammino.

    «Ubaldo, caro ragazzo, come stai? E tuo padre si è ripreso dalla malattia?»

    «Sì, è guarito, stiamo tutti bene.»

    «Allora è tornato a lavorare nella bottega? Incide ancora la pietra bene come una volta mastro Alferio?»

    «Certo, e di gran lena! Ringraziando nostro Signore e Vostra Santità, che tanto ha fatto per noi.»

    L’abate sorrise e lo abbracciò.

    «Ti prego, chiamami Costabile, solo Costabile: sono un tuo fratello.»

    «Certo, ma per me siete già santo per quello che avete ottenuto e fatto per noi. Ma ditemi: è vero che siete qui per far costruire un castello sul monte Sant’Angelo?»

    «Sì, ragazzo. Da domani tu e tutti gli uomini in buona salute del villaggio dovrete essere a Santa Maria in Gulia appena sorge il sole.»

    Una donna dal vestito sobrio, ma di fattura pregiata, uscita dal portone di una grande casa, si era diretta verso il gruppo di persone che attorniava i due frati benedettini.

    «Ubaldo! Lascia che l’abate raggiunga la sua dimora, sarà stanco per il viaggio!»

    Il giovane si scostò di scatto dal priore: aveva riconosciuto la voce, anche se non aveva visto da chi proveniva. Era dama Ermengarda. Costabile, senza allontanarsi dalla gente, guardò verso la donna e la salutò alzando una mano.

    «Sorella, non vi preoccupate per me; fatemi restare ancora in mezzo ai miei fratelli. Sarò da voi tra poco, aspettatemi pure a casa.» La donna gli sorrise e senza aggiungere altro tornò sui suoi passi.

    Costabile scambiò ancora qualche parola con il ragazzo, poi continuando a fermarsi per salutare e rispondere a chi gli chiedesse novità, arrivò all’ingresso della casa paterna. Entrò nell’ampia corte, dove affidò il cavallo e i due muli al villanus, così che scaricasse i bagagli. Assegnò una stanza a fratello Pietro, che lo aveva accompagnato per tutto il lungo viaggio, in modo che si potesse riposare e mangiare. Infine salì la scala in pietra che portava al loggiato superiore, aprì il pesante portone in legno al centro della loggia ed entrò in una grande sala.

    Dalle piccole finestre filtrava l’ultima luce del pomeriggio. Le fiaccole, collocate nei supporti in ferro appesi alle pareti, erano già state accese, illuminando arazzi e drappi di stoffa, che abbellivano e mitigavano l’umido e il freddo della stanza. Vicino al braciere, seduta su una sedia pieghevole in legno, resa comoda da un cuscino di stoffa rossa, lo attendeva la sorella, intenta nel ricamo.

    I passi fecero scricchiolare le assi di legno del pavimento, lei si voltò e, riconosciuta l’esile figura avvolta nel saio, si alzò per andargli incontro.

    «Costabile, avevo perso le speranze che arrivassi a casa. Sarai esausto?»

    «Sorella mia, come stai? Sono così felice di rivederti. E tuo marito, il buon Giovanni, è al villaggio?»

    «Io sto bene e il mio consorte sarà qui nei prossimi giorni: è andato nel casale di Sant’Arcangelo a consegnare un carico d’olio.»

    «Molto bene, sono contento che faccia affari. Dio benedica l’uomo che onora e protegge la sorella mia. E i miei due nipoti?»

    «Sono con la loro nutrice, Assunta: li sta preparando per la cena.» Guardò Costabile con amore e strinse fra le sue la mano del fratello, per trasmettergli l’affetto che provava per lui. «Pensi sempre al bene altrui, fratello mio, non sei cambiato. Fin da quando la parola ti fu nota, porgi sempre aiuto a chi più ne ha bisogno, trascurando la tua persona.»

    Costabile l’abbracciò, tenendola stretta.

    «Grazie per le tue parole e il tuo affetto, che mi rinfrancano cuore e spirito, ma è questo che ho sempre sentito dentro di me. È questo che mi rende felice e sereno e mi fa affrontare al meglio le avversità della mia umile esistenza terrena .»

    Ermengarda sorrise con le lacrime che le scendevano lungo le guance per l’emozione. Era felice di averlo di nuovo vicino: dopo la perdita del padre due anni prima e della madre all’inizio dell’anno, il fratello era tutto ciò che le rimaneva della sua famiglia d’origine.

    «Vieni, siediti accanto a me, mi devi dar conto delle novità che porti.»

    «Certo, chi altri, se non te, metterei a conoscenza dell’opera che sto per cominciare?»

    Si sedette sull’altra sedia pieghevole accanto a Ermengarda, si tolse la sacca di pelle che portava a tracolla, l’aprì e tirò fuori una pergamena, che consegnò alla sorella.

    «Questo è il diploma grazie al quale il duca Guglielmo mi concede di erigere il castello.»

    La donna lesse con attenzione, poi con un’espressione soddisfatta si rivolse di nuovo al fratello.

    «Bene! Allora costruirai il Castrum Abbatis, come già tutti lo chiamano in tuo onore.»

    «No, sorella. Il nome sarà Castrum Sancti Angeli e proteggerà le nostre genti dai sacrileghi saraceni. E da qualunque altro pericolo che venga dal mare e dal cielo.»

    «Quali altri pericoli?»

    Costabile le accarezzò il viso, cercando di trasmetterle sicurezza, ma mentre le rispondeva il suo sguardo si perse nel vuoto.

    «Mia cara, sono pervaso da una strana inquietudine. Ho la sensazione d’essermi imbattuto in una sciagura di cui non ho ricordo, e allo stesso tempo sento che quello che mi è accaduto mi ha reso più forte, più vicino a Dio e pronto a lottare per la pace e l’amore tra gli uomini. Ma niente è sopraggiunto durante questo viaggio... Forse sarò solo stanco. Quello che è certo è che domani inizieremo la costruzione: ho già predisposto ogni cosa con il magister.»

    Ermengarda guardò il fratello assorto nei suoi pensieri. Decise di non chiedere altro riguardo all’accadimento che crucciava il fratello e, con voce allegra e piena di ammirazione, cambiò discorso.

    «Ma dimmi: quanto resterai con noi? Spero ti voglia trattenere almeno per il mese intero.»

    «Devo metterti a conoscenza di altre nuove, che hanno cambiato i miei piani.»

    Si alzò per riscaldarsi le mani al braciere.

    «Di che altro peso ti sei fatto carico?»

    «So che non ti renderà felice quello che sto per dirti, ma non posso farne a meno: dopo l’inizio dei lavori dovrò partire subito, non posso trattenermi.»

    La sorella si alzò e si fece più vicina.

    «Quale compito è così urgente da spingerti a lasciarmi così presto? L’abbazia già ti reclama? Eppure qua hai il tuo bel daffare!»

    Senza voltarsi e continuando a fissare la brace, Costabile le rispose: «Non devo tornare a Cava. Devo prendere una nave al porto e andare all’isola di Procida.»

    La voce di Ermengarda tradiva la sua ansia per la notizia ricevuta.

    «Un viaggio in mare, proprio di questi tempi, con gli infedeli così vicini? E poi, se mi è dato saperlo, perché proprio tu?»

    «L’abate Leone II ha chiesto al duca Giovanni da Procida, signore di quell’isola, di inviare un cavaliere alla nostra abbazia per recarci un messaggio.»

    «Perché proprio a voi?»

    «Sono nostri confratelli, hanno eretto un’abbazia su un promontorio dell’isola chiamato Terra Casata e adesso l’abate Leone II ha urgenza di conferire con me. Nel messaggio mi chiede di andare da lui. Essendo molto anziano e di salute cagionevole, non può viaggiare.»

    «Ma perché affrontare il viaggio in mare? Non potevi andare per strade?»

    «Impiegherei molto più tempo, con la nave arriveremo pri ma, e poi devo portargli anche delle merci di cui abbisognano.»

    La sorella sedette sul gradino di pietra accanto al braciere e, sempre più preoccupata per la sorte del fratello, insistette con le domande.

    «Scusa, Costabile, ma nel messaggio non dice per quale motivo deve parlare proprio con te?»

    «Mi chiede di andare da lui perché gli è nota la mia qualità di riuscire a capire e placare gli animi turbati.»

    «È solo per questo che ti vuole su quello scoglio, per la tua arte di ragionare?»

    Lo chiese con un piglio risentito, come una madre a un figlio che vuole andarsene di casa.

    Con voce calma e rassicurante, Costabile le rispose:

    «L’abate Leone II mi ha raccontato che alcuni fratelli di quel convento hanno avuto strane visioni e malori.»

    «Cosa intendi, hanno visto il Demonio?» Si fece il segno della croce.

    Costabile si voltò, le sorrise e, per rassicurarla, le impartì una veloce benedizione, prima di continuare il racconto.

    «Nel messaggio c’è scritto che due monaci, usciti con la barca a pescare, hanno avuto una strana visione: all’improvviso davanti alla loro barca è apparsa una luce che li ha abbagliati e allo stesso tempo il mare da calmo è diventato burrascoso. Presi dalla paura, sono scappati via.»

    «È solo per questo motivo che devi affrontare un così lungo viaggio in mare?»

    Costabile capiva l’ansia della sorella, quindi non si alterò per essere stato interrotto. Con pazienza riprese a parlare.

    «Al ritorno al convento, il loro senno era perso e il racconto confuso. Altri confratelli, nei giorni successivi all’accaduto, dall’alto del promontorio dove sorge il convento, hanno visto quella stessa luce apparire e svanire sopra il mare. Molti di loro hanno preso questi fatti come segni del Maligno.»

    L’abate prese di nuovo la sacca, l’aprì e tirò fuori un’altra pergamena.

    «Ecco, prendi. Questo è quello che dice l’abate Leone II, che conclude pregandomi di venir loro in aiuto, altro non so, scoprirò di più quando sarò là.»

    Ermengarda restituì la missiva al fratello. Sospirò, sconfortata al pensiero di vederlo andar via così presto. Si alzò e gli si mise accanto.

    «Allora domani darai inizio ai lavori e poi partirai?»

    «Proprio così, devo andare a Procida.»

    «Che il Signore ti protegga e ti riporti a me sano e salvo! Penso che adesso sia meglio mangiare e poi riposare, domani è un gran giorno.»

    «Dici bene, sorella mia, andiamo.»

    Monte Sancti Angeli,

    Anno Dominice Incarnationis MCXXIII, Sexto Idus

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