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Il cuore della mente
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E-book632 pagine8 ore

Il cuore della mente

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Info su questo ebook

Le persone interagiscono con la realtà attraverso i cinque sensi. Ma quello che percepiscono non è tutto. C’è dell’altro. James White lo capirà molto presto dopo che la sua difficile vita, malinconica e solitaria, viene stravolta da un pericoloso esperimento condotto da una spietata casa farmaceutica. Un dono o una maledizione? Difficile dirlo; i pregi acquisiti sono grandi, ma lo è anche il mistero che giorno dopo giorno prende vita nella sua mente. Alternando momenti di gioia e di inquietudine, inizia a svolgere le sue indagini per trovare delle risposte. La ricerca sarebbe più semplice se non ci fossero governi e imprenditori disposti a tutto pur di impossessarsi del suo segreto. Persino di annientare il suo amore da poco scoperto.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2020
ISBN9788831696180
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    Anteprima del libro

    Il cuore della mente - Andrea Galignani

    chiamata.

    1

    Martedì 27 marzo 2012

    Era da poco sorto il sole a Leverkusen, in Germania, e l’imponente grattacielo della casa farmaceutica Nubec era già colmo di sbadiglianti lavoratori che si muovevano lenti verso i loro uffici. Uno di questi però, il ricercatore Schuster, camminava arzillo al penultimo piano del palazzo, osservando fiero la sua immagine riflessa nel marmo del pavimento.

    «Ce l’abbiamo fatta! È pronta!» esclamò precipitandosi dentro un ufficio.

    La bocca spalancata del direttore tecnico Klein, pronta a ringhiare di fronte a quella mancanza di disciplina, si chiuse per poi riaprirsi e mostrare un sorriso. «Davvero?»

    «Sì! Gli animali hanno reagito secondo le nostre più rosee previsioni. Questa volta ha funzionato!» Schuster era euforico.

    «Con tutti?» domandò l’altro speranzoso.

    «Sì tutti! Compresi gli scimpanzé.» Non stava più nella pelle. «E senza l’ombra di effetti collaterali!»

    Pochi secondi di crescente curiosità bastarono perché il direttore alzasse il suo ormai piatto sedere dalla poltrona e ignorasse i rapporti scritti che il suo interlocutore gli stava porgendo senza smettere di parlare. Aveva deciso di recarsi di persona nei laboratori per vedere dal vivo i risultati dell’esperimento.

    Durante il tragitto, Schuster, alle spalle del direttore, continuava ad abbassare e alzare la mandibola come se volesse parlare, ma dalla sua gola non usciva alcuna parola. Klein non offriva spunti per avviare una conversazione. I molti anni trascorsi a inseguire la carriera, trascurando ogni forma di svago, lo avevano indurito e reso una persona poco socievole: parlava poco e sopprimeva ogni sua emozione. Era come un automa. Questa sua personalità provocava un fastidioso senso d’imbarazzo a coloro che gli stavano intorno.

    I due uomini, illuminati dai bagliori del sole che filtravano dalle finestre, raggiunsero gli ascensori. Ne presero uno e scesero nei sotterranei dell’edificio. Là sotto lo scenario era molto diverso da quello dei piani superiori. I colori erano più freddi, mancava ogni sorta di decorazione e, al posto delle eleganti plafoniere, c’erano dei comuni neon. Alcuni dei dipendenti che lavoravano nel sottosuolo si sentivano soffocati per la mancanza della luce solare, ma era indispensabile avere sotto controllo l’illuminazione per l’integrità dei prodotti chimici, e la presenza di finestre non lo avrebbe permesso.

    Fuori dall’ascensore, Schuster fece strada a Klein lungo un corridoio non molto largo. A sinistra c’erano degli uffici, a destra dei servizi pubblici, una stanza adibita agli uomini della sicurezza e una piccola sala di controllo dei server. In fondo si ergeva una grossa porta di titanio che proteggeva l’accesso al più importante laboratorio di ricerca e sviluppo della Nubec, accanto alla quale c’era un tastierino con una fessura. Il ricercatore vi fece scorrere un pass e digitò una lunga sequenza alfanumerica. Un led verde s’illuminò anticipando una gradevole voce femminile proveniente da un altoparlante. «Codice corretto. Benvenuto professor Schuster.»

    Entrando, il ricercatore fece cenno al suo nuovo assistente di avvicinarsi. «Tassone, vuole illustrare al direttore i frutti delle nostre ricerche per favore?»

    L’assistente, un italiano quasi quarantenne, assentì e si portò davanti a una console situata accanto alla cella in cui si trovava uno scimpanzé scelto per il test.

    Ma prima di procedere si rivolse al direttore. «Signor Klein. Stiamo per mostrarle le capacità della proteina HSN!»

    «Era ora. Sono sei anni che lavorate a questo progetto… Se funziona davvero come dite, i profitti della Nubec saliranno alle stelle!»

    Il ricercatore Schuster intervenne. «Oh! Può star certo che funzionerà. Non ci sono dubbi.»

    «In questo caso lei e la sua squadra potrete smettere di lavorare per il resto della vostra vita.»

    «Ah! Magnifico!» esclamò Tassone tutto contento. «Per prima cosa andrò a visitare qualche isola del Pacifico!»

    «Lei cosa c’entra? Lei è qui da solo tre mesi. Non ha meriti in questa faccenda!» rispose seccato il direttore Klein.

    Tassone non ebbe più l’ardire di proferire parola. Si girò e finì di impostare la console per l’esperimento. Ma non fu facile: non riusciva a concentrarsi. Era pervaso dalla rabbia e dalla delusione. Le parole del direttore erano state una stangata per i suoi progetti.

    «Allora? Si muova per favore!» gli intimò il ricercatore, impaziente di esibire i risultati del suo lavoro.

    Quando tutto fu pronto, Tassone fece un cenno con la testa, Schuster si fregò le mani e il direttore si portò davanti alla cella dello scimpanzé per osservarne il comportamento attraverso una finestrella. Poi comandò di procedere. L’assistente ubbidì e non appena spinse il pulsante AVVIO TEST, alcuni bracci meccanici, presenti nella cella, iniziarono a muoversi. In apparenza percorrevano traiettorie senza senso, ma ogni qual volta interagivano con l’animale, mettendone alla prova l’istinto modificato, il loro scopo appariva chiaro.

    La strabiliante scena che si parò davanti agli occhi di Klein fu di un tale sconcerto che, pur avendo già immaginato cosa avrebbe visto, e nonostante la sua freddezza, dovette lasciarsi sfuggire un evidente segno di stupore.

    «Incredibile!»

    Il direttore si congratulò con Schuster e con gli altri ricercatori che nel frattempo si erano uniti al gruppo. Tassone invece si congedò per andare a casa. Appese il camice al muro e, tremando, si diresse verso la grossa porta di metallo. Stava sudando in maniera insolita per quell’ambiente rigorosamente regolato a venti gradi e senza umidità, e la cosa non sfuggì a Klein, che però al momento non indagò. Uscì in fretta dal laboratorio, ma la direzione che prese non fu quella che lo avrebbe condotto alla superficie, bensì alla toilette.

    Intanto il direttore aveva stretto la mano a tutti i ricercatori una seconda volta. Era molto raro vederlo così raggiante.

    «Signori. La vostra scoperta allargherà gli orizzonti della Nubec come mai prima d’ora! Stracceremo la concorrenza! A che punto è adesso il progetto?»

    Schuster si fece avanti e prese la parola con un ampio sorriso. «Siamo pronti alla sperimentazione umana!»

    2

    Suonò la sveglia. Erano già le sette e venti. James White, dopo aver passato i consueti cinque minuti a rigirarsi nelle lenzuola, trovò la quotidiana dose di convinzione per riuscire ad alzarsi e recarsi a scuola, nonostante la totale e perpetua mancanza di voglia. Si levò dal letto ed entrò in bagno. Di primo impulso si guardò allo specchio e, come tutti gli altri giorni, indugiò nell’osservare il suo fisico.

    Il suo corpo longilineo era ben proporzionato e caratterizzato da una buona muscolatura, ma ciononostante era causa di rammarico. Lo considerava una beffa della natura. Pur essendo dotato della forza e della velocità necessarie per praticare la maggior parte degli sport, dai più comuni ai più estremi, James aveva una pessima coordinazione che lo rendeva goffo e insicuro. Questo difetto gli procurava malinconia ogni qual volta gli capitava di vedere in azione atleti, acrobati, rocciatori o lottatori. E le innumerevoli ore dell’infanzia trascorse a giocare agli adventure game per computer, nei cui protagonisti dalle eccezionali abilità fisiche s’immedesimava, avevano contribuito a trasformare in un bisogno vitale l’idea di avere un fisico performante.

    Così, non potendo ricevere soddisfazioni dallo sport, ricercava conforto nel campo estetico. Si manteneva in forma con della palestra e della corsa, e riservava a queste attività una buona parte del suo tempo libero. D’estate bruciava diversi chilometri lungo le sponde del Po, mentre nei periodi più freddi correva sul tapis roulant che aveva in garage.

    Ridestatosi da questi pensieri, si sciacquò la faccia e utilizzò il water nel più breve tra i due modi per cui l’uso era stato concepito. Poi scostò il tappeto e dedicò cinque minuti per eseguire alcuni piegamenti sulle braccia e un po’ di addominali, così da scaldarsi. Finiti gli esercizi, si vestì con i primi indumenti che vide sparsi per la sua disordinata camera: normalissimi jeans e una t-shirt grigia con qualche scritta alla rinfusa. Dopo aver indossato i suoi stivaletti neri a punta quadrata, fece colazione con delle fette biscottate inzuppate in una tazza di latte e con un bicchiere di succo di frutta.

    Uscì di casa e s’incamminò per la vicina scuola tecnica industriale che frequentava. L’inquinata aria di Torino non era certo corroborante, ma due passi li faceva volentieri attraversando il trafficato Quadrilatero Romano: il quartiere più antico della città. Durante il tragitto passò davanti al Duomo di San Giovanni Battista, la cui piazza, come al solito e nonostante l’ora, brulicava di gente. Molte di quelle persone erano lì per rendere omaggio alla Sacra Sindone custodita all’interno dell’edificio, e James si chiedeva sempre cosa mai ci trovassero di appagante nel venerare uno straccio. Nutriva dei dubbi sull’autenticità del lenzuolo e, se anche fosse stato quello che aveva avvolto il corpo di Gesù di Nazareth, riteneva che fosse inutile sprecare tempo e denaro solo per pregare in un posto piuttosto che in un altro.

    James non credeva ad alcuna religione e gli dispiaceva trovarsi in un mondo popolato da persone che inseguivano quelle che per lui erano favole. Per questa ragione tentò di distrarsi pensando alle immersioni al mare che aveva pianificato per la prossima estate. L’esplorazione subacquea era, infatti, la sua più grande passione. La considerava una di quelle esperienze che ogni essere umano deve provare almeno una volta nella vita. Del resto era un’attività che non richiedeva particolari capacità fisiche.

    Ma l’immagine dei pesci che sguazzano vivaci fra i relitti affondati, che già stava pregustando, scomparve nel momento in cui scorse Cristina scendere dal bus a una ventina di metri da lui. Si fermò esitante. Poi si portò al lato opposto della strada rispetto a lei e si nascose dietro gli alberi che affiancavano il marciapiede.

    Cristina Corona era l’unica ragazza che aveva fatto perdere la testa a James. Ne aveva conosciute diverse decine nel corso degli ultimi anni, ma nessuna aveva avuto il suo stesso ascendente su di lui. James si era fatto da qualche tempo un’idea precisa di come avrebbe dovuto essere la sua compagna. Bellissima in viso e in corpo, con il seno abbondante, il sedere sodo e delle gambe lunghe e ben formate sulle quali poter attuare alcuni suoi progetti che avrebbero allettato anche la fantasia degli uomini più riguardosi. Il tutto senza un filo di grasso. Doveva però essere anche intelligente, simpatica, accattivante e desiderosa di divertimento.

    Voglio una Lara Croft! si ripeteva sempre ripensando al suo videogioco preferito.

    Di certo una grande pretesa, ma in fondo era l’utopia di parecchi ragazzi. Quello che però distingueva James dagli altri, era la sua incapacità di riuscire ad accontentarsi: se a una ragazza mancava anche una sola di queste caratteristiche, non riusciva a starci nemmeno per una notte d’avventura. Ragion per cui, a differenza di molti suoi coetanei, era arrivato a vent’anni senza aver mai avuto esperienza neanche di un semplice bacio, nonostante i suoi lineamenti armoniosi, i capelli scuri e ben definiti e gli occhi magnetici attirassero le ragazze come il nettare con le api. James le scartava puntualmente per un motivo o per l’altro. Quelle belle erano odiose e quelle simpatiche non raggiungevano i suoi standard fisici.

    Tuttavia Cristina Corona possedeva ognuno di quei requisiti e, insieme alle labbra carnose, al nasino all’insù e allo sguardo penetrante, aveva irrimediabilmente stregato James. L’aveva notata la prima volta il settembre precedente, all’assemblea degli studenti atta a eleggere i rappresentanti d’istituto. Lei era stata una dei candidati e si era aggiudicata un’incredibile maggioranza di voti. Ovviamente derivanti quasi esclusivamente dalla componente maschile degli elettori che per sua fortuna, vista l’invidia delle altre ragazze, era maggiore di quella femminile. I meno corruttibili, immuni all’influenza della bellezza fisica, furono comunque conquistati dalla grinta dimostrata durante il suo discorso.

    James si era seduto in terza fila e non le aveva mai staccato gli occhi di dosso da quando era entrato nella sala. Era stato ipnotizzato dal raro contrasto fra i suoi lunghi capelli castani e le iridi verdastre. Durante le settimane seguenti si era dedicato interamente al suo nuovo chiodo fisso. Aveva persino faticato a dormire, ma aveva dovuto studiarla e tastare il terreno. Avendo deciso di farla sua a ogni costo, aveva dovuto prestare attenzione a non commettere errori e si era fatto avanti solo dopo essersi procurato abbastanza informazioni, attraverso pedinamenti, soffiate degli amici e indagini sui social network.

    Incoraggiato dai complimenti delle sue varie spasimanti, era riuscito ad attaccare bottone. Nel giro di poco avevano stretto amicizia e il dubbio di James che, come molte altre belle ragazze con cui aveva avuto a che fare, anche questa fosse ottusa, era svanito in fretta. Al contrario, era molto brillante per i suoi diciotto anni. Una combinazione piuttosto insolita per una ragazza circondata dalle mode nelle quali i più si perdevano a discapito della loro individualità.

    Avevano molti gusti e interessi in comune, persino quello della subacquea, ma lei aveva anche la sua stessa rigidità in fatto di scelta del partner. Così, quando lui aveva compreso quanto fossero importanti per Cristina lo sport e le attività estreme, aveva avuto paura di non essere all’altezza delle sue esigenze. Queste congetture avevano contribuito ad accrescere un’inopportuna insicurezza nei suoi mezzi che aveva influito negativamente sul suo comportamento e, quando si era fatto avanti per invitarla a chiacchierare in un luogo che non fosse la scuola, la ragazza lo aveva respinto. Quel rifiuto gli era costato diversi mesi di depressione.

    Dal canto suo, Cristina era attratta da James. Lo trovava bello e diverso da tutti gli altri ragazzi che vedeva in giro. Lo definiva unico. Ma non era del tutto convinta che fosse quello giusto per lei. Troppe volte, infatti, si era mostrato timido e incerto, e simili forme di debolezza non appartenevano al tipo di ragazzo che sognava.

    James non sapeva quali fossero i motivi del suo insuccesso. Aveva delle ipotesi, certo, ma aveva preferito troncare i rapporti per non apparire assillante e dipendente da lei. Cristina, che manteneva fede a quei comportamenti femminili che spesso risultano misteriosi per l’altro sesso, non lo aveva mai cercato.

    James, ormai più che deluso, aveva finito così per lasciar perdere e continuare a vivere nella sua abituale solitudine.

    Ma quella mattina, da dietro un albero, la teneva d’occhio mentre si dirigeva verso il cancello della scuola. Era sola, con aria malinconica per l’assenza di amiche attorno a sé. In compenso c’erano invece numerosi sguardi maschili che se la stavano letteralmente mangiando. Lei non ne ricambiava nessuno.

    James vide che era vestita come al solito, con abiti semplici ma che mettevano in risalto le sue generose curve senza sacrificare l’eleganza. La considerava una buona anticonformista.

    Che classe! pensò.

    Con un gesto spontaneo si guardò l’insulsa maglietta grigia, provò vergogna per qualche secondo e a bassa voce disse: «Ma sì… chi se ne frega!».

    Sapeva anche lui come abbigliarsi per apparire più bello e degno di attenzioni, ma dopo la passata batosta, che gli aveva lasciato un bernoccolo ancora dolente nel cuore, ne aveva perso l’interesse. Attese che Cristina varcasse il portone d’ingresso dell’istituto. Poi entrò lui. Sperando di non incontrarla nei corridoi, si diresse al secondo piano, dove si trovava la sua aula.

    Frequentava il quarto anno dell’indirizzo di elettronica, ma non gli piaceva per niente. Capiva ben poco delle materie scientifiche ed era stato bocciato due volte. I suoi professori gli avevano consigliato più volte di cambiare scuola, ma non c’era un corso di studi che avrebbe voluto affrontare con nuovi compagni più giovani di lui. Tanto valeva non pensarci e ripetere ciò che aveva già studiato.

    «Ciao…» disse senza entusiasmo a Davide Ganci, l’unico compagno di classe con cui era riuscito a instaurare un discreto rapporto.

    «Ehilà!» gli rispose questi. «Sei pronto? Oggi tocca a te.»

    «Di cosa parli?» chiese James confuso.

    «Dell’interrogazione di matematica… Manchi solo tu. Ti chiama di fisso.»

    «Oh no! Me n’ero dimenticato!» James lanciò una preoccupata occhiata al soffitto.

    Dimenticandosi dell’amico, si precipitò al centro della classe per sedersi al suo posto. Aprì lo zaino e tirò fuori il quaderno. Tentò di assimilare gli ultimi argomenti spiegati rivedendo gli esercizi svolti in classe, ma era disperato. Aveva poco tempo per farlo: l’ora di matematica era la prima della giornata.

    All’improvviso calò il silenzio. James vide i ragazzi recarsi veloci ai propri posti. Si voltò e scorse la professoressa sulla soglia della porta. Stava aspettando che la classe fosse in perfetto contegno e che tutti fossero in piedi come soldati, prima di avanzare lentamente verso la cattedra in modo altezzoso.

    Era la classica odiosa insegnante sulla cinquantina, di quelle che si considerano come divinità. Pretendeva che gli alunni si adattassero a quel suo rigido sistema di tradizioni e disciplina che ricordava l’Inquisizione medievale. Con la sua sempre impeccabile acconciatura, otteneva rispetto disseminando il registro di ammonizioni scritte.

    «White alla lavagna!» esclamò appena concluse l’appello.

    Le speranze di James di non essere chiamato s’infransero in pungenti scariche di adrenalina. Si alzò e si diresse verso la lavagna che, in quei momenti di panico, gli sembrava un nero baratro senza appigli.

    L’arpia gli dettò un’equazione trigonometrica e lo fissò imperturbabile. Dopo un minuto di difficile concentrazione, James smise di scrutare quel poco che aveva iniziato a scrivere e si girò verso l’insegnante.

    «Non la so fare, prof.»

    «Vada al posto» rispose lei.

    Poi prese la sua pregiata stilografica e scrisse il voto sul registro.

    «Uno… Abbiamo un andamento costante… I vizi sono proprio duri a morire.» Nella sua voce si poteva percepire una punta di soddisfazione.

    James si sedette senza guardare in faccia nessuno. Era sul punto di mandare tutto al diavolo e affidare al caso il proprio avvenire. La giornata era cominciata male.

    3

    Tassone, ancora grondante di sudore, stava fissando il caffè che aveva bevuto poco prima, ora rigurgitato nel lavabo della toilette. La frequenza del suo battito cardiaco era sopra i livelli normali. Si sedette per terra e si sforzò di concentrarsi per placare l’agitazione responsabile del suo malessere.

    «Sono finito» mormorò tra sé e sé.

    Gli servivano urgentemente dei soldi o qualcuno avrebbe presto trovato il suo cadavere sul fondo di un lago. Fece il punto della situazione: gli restavano cinque giorni e mezzo per procurarseli.

    «E adesso dove li trovo centomila euro entro settimana prossima? Cazzo!»

    La possibilità di intascare una cospicua somma per aver lavorato al progetto HSN gli aveva dato la speranza che l’aveva sorretto negli ultimi mesi, ma il direttore tecnico Klein l’aveva soppressa con la sua inequivocabile risposta qualche minuto prima nel laboratorio.

    Era consapevole che nemmeno con i più generosi guadagni avrebbe potuto raggiungere quella cifra, ma sarebbe almeno riuscito a prolungare la scadenza del termine se avesse potuto pagare un acconto.

    Si passò una manica sulla fronte e rifletté sugli ultimi sviluppi.

    La proteina era pronta e due giorni dopo l’avrebbero sperimentata sull’uomo con una probabilità di successo del 99,9%; quanto basta per scommettere in tutta sicurezza sull’esito. Infatti, se anche gli scimpanzé, che sono tra gli animali più simili all’uomo, avevano dato esiti positivi, non c’era ragione per dubitarne.

    Poi un’idea cominciò a prendere forma nella sua testa. Si alzò, sciacquò il lavabo e si mise a camminare nervosamente avanti e indietro.

    Non posso fare diversamente.

    Aprì la porta del bagno e scrutò il corridoio. Nessuno. Non voleva essere visto così pallido com’era per evitare di dover dare una spiegazione plausibile, che quasi certamente non sarebbe riuscito a trovare. Uscì e si avviò verso l’ascensore. Durante la salita si diede una sistemata guardandosi allo specchio presente nella cabina e, quando si aprirono le porte, la sua faccia era già tornata normale. Passò davanti alla hall sorridendo all’impiegata.

    Lì timbrò il cartellino e pensò: Un’altra notte di straordinari buttata nel cesso.

    Poi, dopo aver attraversato il metal detector, fu perquisito dalle scrupolose guardie di sicurezza. Niente che non fosse autorizzato poteva entrare o uscire dal palazzo. Come fu all’aperto tirò una boccata d’aria e si accese una sigaretta per scaricare la tensione che aveva accumulato nel tentativo di mantenere un’espressione consueta davanti agli altri.

    Raggiunse il parcheggio e salì nella sua utilitaria per recarsi in un bar, dove avrebbe trascorso una buona parte del suo giorno libero a meditare sul da farsi. Guardò nello specchietto retrovisore lo stabilimento che si stava lasciando alle spalle. Sarebbe tornato l’indomani. Probabilmente per l’ultima volta.

    4

    Suonò la campanella della ricreazione. I corridoi della scuola passarono dal silenzio al caos in pochi istanti. Molti si precipitavano al bar spinti dagli incontrollabili morsi della fame, altri ripassavano le materie che avrebbero avuto durante le ore successive e altri ancora uscirono in cortile per fumare. James, invece, restò in classe a osservare dalla finestra le auto che correvano in strada. Era pensieroso. Ganci gli si avvicinò e gli chiese cosa avesse.

    «Niente… Mi dà fastidio quella stronza!» rispose corrucciato. «Ci prova gusto a perseguitarmi. Se non mi dà un’insufficienza tutte le settimane, non è contenta.»

    «Be’, forse devi fare più esercizi.»

    «Eh, ma chi c’ha voglia… E poi matematica non l’ho mai potuta soffrire.»

    «Sì, ma gli altri anni non facevi così schifo. O almeno così mi hai raccontato.»

    James sbuffò. «Quest’anno è più difficile. Io studio ma non riesco lo stesso.»

    «Secondo me è perché pensi troppo alla Corona» osservò l’amico. «Quella ragazza ti porterà alla follia!»

    James gli stava per dare una rassegnata conferma, ma qualcuno interruppe il loro dialogo.

    «Ehi sfigato! Anche oggi il tuo genio è stato premiato!» disse ironizzando Rocco Mazza, un energumeno alle sue spalle.

    Seguirono fastidiose risate da parte di altri due ragazzi che gli stavano intorno, ma James non si voltò neppure.

    Uno dei ragazzi gli mollò una sonora sventola sul collo e aggiunse: «Stiamo parlando con te, genio».

    James restava molto spesso impassibile alle provocazioni degli altri, ma le percussioni alla testa, o nelle immediate vicinanze, non le poteva tollerare: gli causavano una rabbia indomabile. Dopo un secondo di esitazione si girò di scatto e sferrò un gancio al ragazzo in centro al gruppetto. Questi riuscì a pararlo con prontezza e di tutta risposta gli restituì un jab dritto nell’occhio.

    All’impatto, James perse l’equilibrio e cadde al suolo con un gemito.

    «Riprovaci figlio di puttana!» lo incitò il prepotente che lo aveva colpito, sputandogli addosso.

    «Non ti metterai mica a piangere?» insistette un altro.

    Ganci dovette intervenire. «E lasciatelo in pace.» Cercava di darsi un tono nonostante fosse grosso poco più della metà di chi gli stava davanti.

    Uno dei bulli lo spinse contro il muro. «Tu non t’impicciare, polpetta!»

    Lanciarono un’ultima occhiata al pestato e poi finalmente se ne andarono.

    James si rialzò. Era talmente nervoso che il labbro superiore aveva iniziato a tremare. Sapeva che se avesse colpito qualcuno, gli avrebbe potuto fare molto male. Era abbastanza muscoloso e aveva imparato a tirare i pugni sul sacco da boxe che aveva in garage. Mazza e i suoi amici, però, erano dei pugili che si allenavano da oltre tre anni. Non avrebbe mai avuto alcuna possibilità di batterli. Nemmeno se li avesse presi uno per uno.

    Rocco Mazza era il tipico bullo fannullone che si divertiva a perseguitare quelli più deboli di lui che gli offrivano un motivo per farlo. Era il risultato di un’educazione superficiale che sfociava sempre con atti di rigore. I suoi genitori, infatti, credevano di poter raddrizzare i torti del figlio semplicemente assumendo atteggiamenti duri e proibitivi. Non c’era da stupirsi se alla prima occasione il ragazzo fuggiva da quel mondo costituito soltanto da regole e punizioni, trovando sfogo in atteggiamenti opposti a quelli che gli avevano tentato di insegnare, come bere, fumare e seguire le mode più trasgressive.

    Questa politica punitiva da parte dei genitori non aveva lasciato spazio ad altro genere d’istruzione, così Mazza era cresciuto privo di buoni valori e di buon senso. Era un individuo vuoto e semplice, e ogni volta che qualcuno si dimostrava migliore di lui in un qualsiasi campo sentiva l’inconscio bisogno di essere lui a prevalere, utilizzando l’unica arma a sua disposizione: la forza fisica. In più, i successi nel pugilato non facevano altro che fomentare quella tendenza.

    Ce l’aveva con James a causa del suo strano modo di fare. Era un originale e sembrava non avere bisogno di nessuno. Il suo bel fisico, poi, era la ciliegina sulla torta. Difatti il corpo di Mazza, nonostante fosse ben allenato per il pugilato, appariva flaccido e cadente, ridotto così da un’alimentazione sconsiderata e dal troppo alcool che aveva iniziato ad assumere fin dai tempi delle medie. La totale incapacità atletica di James e le sue origini americane lo avevano reso la sua vittima preferita. Si era ritrovato in classe con lui dall’inizio dell’anno scolastico, dopo aver perso quello precedente assieme ai suoi due compagni con cui faceva combriccola. Nel giro di due settimane avevano già iniziato a tormentarlo.

    James si stava sciacquando l’occhio imprecando contro i suoi oppressori.

    «Bastardi! Giuro che prima o poi li ammazzo! Li paralizzo! Maledetti cani!» Era furente come non mai.

    «Vai a dirlo al preside, è tutto l’anno che ti rompono» gli consigliò il compagno Davide Ganci.

    «A che servirebbe? Quelle bestie se la caverebbero con una semplice nota e io otterrei solo più guai. Ci vuole qualcosa d’altro.» Si frizionò l’occhio ancora pulsante.

    «E cosa vorresti fare?»

    «Non lo so. Rompergli la faccia magari!»

    «Dai, quell’armadio ti smonterebbe in un attimo. Perché invece non superi l’anno? Così poi te lo togli dai piedi. Stai tranquillo che quello lo bocciano ancora.»

    James non rispose. Si portò di fronte all’unico specchio intatto dei servizi pubblici in cui si trovava e si esaminò il volto. Gli era venuto l’occhio nero. Digrignò i denti, poi la campanella segnalò la fine della ricreazione. Ganci, per risollevargli il morale, gli offrì come d’abitudine le liquirizie che acquistava ogni mattina da DULCIS, una bancarella di leccornie vicina alla scuola. James ne prese una manciata e se le infilò in bocca. Ne andava matto.

    Nell’uscire dal bagno, i due ragazzi videro il preside camminare in fondo al corridoio.

    «Eccolo là. Vai, corri!» disse Ganci.

    «Ma guarda… Parli del diavolo e spuntano le corna.»

    James era riluttante all’idea di avere a che fare con quell’uomo che tutti i ragazzi temevano, anche se a prima vista pareva un bonaccione. Indossava sempre un completo con la giacca, portava dei grandi occhiali e aveva i capelli brizzolati e tutti disordinati in perfetta sintonia con la folta barba. Sorrideva spesso ed era cordiale con tutti, ma se uno studente mostrava il più piccolo segno d’indisciplina si trasformava in un essere spietato che rifilava, senza parsimonia, ammonizioni e sospensioni. Per questo era soprannominato MR. HIDE.

    «Sbagli a fare così. Sei tu che sei nel giusto. Ti darebbe ragione» insistette Ganci.

    «Sì, ma come ti ho già detto si prenderebbero una nota, niente di più. Ci vorrebbe invece una punizione esemplare!»

    A frenare James non era la soggezione che il preside gli incuteva, ma l’elevato numero d’insufficienze che aveva nelle materie scolastiche. Qualcosa dentro di lui gli faceva credere di non poter essere preso in considerazione abbastanza seriamente con quel curriculum.

    Tornarono in aula e molti dei suoi compagni si misero a sghignazzare per la recente colluttazione. Il professore di turno gli domandò cosa gli fosse capitato ma lui si mostrò titubante.

    Intervenne allora Mazza. «Ha inciampato come sempre e ha sbattuto contro la porta.»

    Seguirono le risate di molti compagni.

    «È andata così?» chiese l’insegnante rivolto al contuso.

    «Sì… così…» rispose imbarazzato.

    «Bravo! Guarda che la porta c’era anche ieri… La prossima volta fai più attenzione; ti ricordo che sei sempre sotto la nostra responsabilità anche se sei maggiorenne.»

    James era sul punto di scoppiare.

    Al termine della giornata scolastica, uscì in tutta fretta dall’istituto. In quelle condizioni voleva essere visto da meno gente possibile, specialmente da Cristina. Era un’eventualità piuttosto improbabile per il diverso orario dell’indirizzo liceale che lei frequentava, ma preferiva non correre rischi.

    Arrivò a casa. Era un appartamento al quarto piano di un modesto condominio. Piccolo ma molto confortevole. Entrò nel garage passando per il cortile interno, buttò a terra lo zaino e sferrò dei violenti colpi al sacco. Doveva sfogarsi. Cercava di allenare la precisione dei suoi pugni per poterli scagliare con efficacia su volti umani, ma quando il sacco iniziava a penzolare faticava a metterli a segno con efficacia. La collera e il disprezzo nei confronti del suo scoordinato corpo non facevano altro che aumentare.

    Finì così per interrompere l’esercizio. Lanciò un’occhiata allo zaino e, pensando ai compiti che doveva svolgere per il giorno successivo, lo calciò con un impeto selvaggio. Dopodiché salì nel suo appartamento, al quarto piano.

    Vedendo dappertutto il ghigno insolente di Mazza, andò nella camera del padre e aprì un’anta dell’armadio. C’era una cassaforte. Conoscendone la combinazione – scoperta di nascosto dopo numerosi tentativi – la aprì e prese una valigetta blu. Al suo interno era contenuta la pistola che suo padre aveva utilizzato qualche anno prima per il tiro al poligono. Si trattava di una semiautomatica Colt 1911 A1, calibro 45. La impugnò. Ma quei circa millecento grammi di solido acciaio nella sua mano lo calmarono all’istante. Non era abituato a brandire uno strumento dispensatore di morte. Aveva considerato di portarla con sé a scuola il giorno dopo e di puntarla alla fronte di quello sfacciato, non appena avesse ricominciato a punzecchiarlo. Giusto per spaventarlo a dovere. Ma con la calma era tornata anche la ragione.

    Ripose l’arma e andò a prepararsi il pranzo: un piatto di pasta al tonno seguita da una bistecca ben speziata.

    5

    A circa centoventi chilometri di distanza, l’ispettore Spada stava bevendo una tazza di caffè seduto alla sua scrivania per digerire meglio il pranzo appena consumato. Fissava con un’espressione vacua i fascicoli dell’ultimo caso sul quale stava lavorando. Questa volta il protagonista era una serial killer che uccideva in un modo tanto spietato quanto originale. Un colpo secco di pistola ai genitali, intriso di un veleno micidiale che non lasciava scampo al mal capitato. La morte sopraggiungeva entro un minuto accompagnata dai dolori più lancinanti.

    Le vittime, tutte uomini, venivano rinvenute sempre in contesti a sfondo sessuale. Alcuni erano con i pantaloni abbassati, altri senza mutande, altri ancora con i preservativi indossati. L’assassino era presumibilmente una donna che attirava le vittime in qualche avventura notturna per poi ucciderle. I media l’avevano soprannominato il caso della Mantide Religiosa.

    La serie di omicidi era cominciata nove mesi prima e l’ultima vittima, la settima, era morta solo da qualche ora.

    L’ispettore Spada era stato scelto per risolvere il caso grazie alla sua lunga esperienza, ma finora le informazioni che aveva raccolto portavano solo a strade senza uscita.

    In quel mentre bussò alla porta un sovrintendente.

    «Avanti.»

    «Ispettore, la stampa la sta aspettando.»

    «Vengo subito.»

    Il sovrintendente approfittò del momento. «C’è qualche novità?»

    «Nessuna. Niente che non si sappia già» disse deluso.

    Si alzò dalla sedia e si guardò allo specchio. Il suo corpo, che risaltava sotto la divisa, si era mantenuto atletico e forte. Ma non si poteva dire altrettanto per la faccia. Evidenziata dalle rughe, aveva un’espressione seria e crucciata. La gente credeva che la causa di quell’aria cupa fosse il peso dei suoi sessantadue anni e della scrupolosa dedizione con la quale si dedicava al lavoro. Ma la verità era un’altra. C’era un pensiero che lo tormentava da anni. Tutti i giorni, tutto il giorno. Un pensiero che portava il suo stesso nome.

    Il suo incrollabile zelo lo riportò al presente. Si accomodò giacca e cravatta, bevve un bicchiere d’acqua e uscì dall’ufficio per tenere il suo discorso sull’ultimo delitto.

    Bene, la galera ai criminali e le notizie ai giornalisti. Solita routine.

    6

    «Desidera qualcos’altro, signore?» chiese gentilmente una cameriera con un marcato accento bavarese.

    «Come?»

    «Desidera qualcos’altro?» ripeté più lentamente.

    «No… No grazie. Sono a posto così.»

    Tassone sedeva a un tavolino di un bar da oltre quattro ore, durante le quali si era limitato a ordinare solo una cioccolata calda. Sembrava inquieto, ma nessuno gli prestava attenzione. I corti capelli neri che gli cadevano sulla fronte e gli occhiali a lenti rettangolari gli conferivano un aspetto comune, consolidato dal suo gracile fisico. I suoi occhi erano rivolti principalmente verso il cestino dello sporco presente al centro del tavolino. Sbatteva le palpebre a ritmo elevato, segno d’intensa riflessione.

    Devo farlo, è l’unica via d’uscita.

    Vito Tassone, nato in Calabria nel '75, a Cosenza, era cresciuto in un quartiere malfamato imparando le dure regole della strada. Aveva maturato un carattere ribelle e disubbidiente che gli aveva impedito di assimilare i sani principi morali che gli venivano insegnati. Ma i suoi genitori, nonostante fossero stati passivi agli eventi della vita, erano riusciti a fargli completare il percorso scolastico attraverso forti imposizioni e insistenze. Il ragazzo aveva così avuto modo di scoprire una passione per la chimica che lo aveva portato ad affrontare l’università di Modena e Reggio Emilia. Era bravo e, oltre al programma previsto dalla facoltà, studiava altre nozioni di bioscienze e di biotecnologie.

    Ma non era arrivato in fondo.

    A un anno dalla laurea, con la morte del padre, aveva abbandonato gli studi e varcato il confine della legalità aggregandosi a un gruppo di loschi individui. Era stato attratto dai soldi facili che ricavavano dal contrabbando e dalle estorsioni. Così, alla prima occasione presentatasi dopo alcuni anni, si era unito ad alcuni spacciatori di marijuana che agivano negli States. Se l’era cavata bene in quel mestiere. La sua buona capacità analitica, sviluppata durante il periodo di studio, lo aveva salvaguardato dal commettere errori. Senza troppe difficoltà si era poi trasferito in Florida dove, aiutando a rifornire i consumatori del posto, aveva raggranellato un gruzzolo consistente.

    Tuttavia la pacchia era durata poco: l’organizzazione alla quale era affiliato era stata smantellata da un massiccio intervento delle forze dell’ordine, che per sua fortuna avevano agito mentre lui era in viaggio, lontano dai territori americani. Aveva conservato la libertà, ma perso sia la possibilità di entrare nel paese senza essere arrestato, sia gli averi racimolati nel tempo. Gli Stati Uniti erano terra bruciata.

    Nel 2009 si era spostato in Germania e aveva trovato un impiego come cameriere in un modesto ristorante. Tre anni dopo, grazie a un incontro fortuito con un pezzo grosso della Nubec, aveva iniziato a lavorare come assistente di laboratorio all’interno della casa farmaceutica. Era stato fortunato; aveva ottenuto una buona occupazione in un campo che trovava interessante.

    Purtroppo, però, la mancanza di stabilità non aveva lasciato spazio a una donna nella sua vita e col passare del tempo ne aveva sentito sempre più il bisogno.

    Nel tentativo di distrarsi, aveva iniziato a giocare nei casinò ma, dopo non molto tempo, aveva commesso l’imperdonabile errore di spacciarsi per una persona ricca, ottenendo così parecchio credito. Senza averlo previsto si era imbattuto nella 'ndrangheta: aveva escluso la presenza della malavita in un paese ligio alle regole come la Germania. Ma quella mafia, con le migrazioni italiane del passato, aveva esteso le sue grinfie in tutto il mondo, e continuava a tessere ragnatele in cui s’invischiavano piccoli insetti come Tassone. Nei mesi a venire il vizio del gioco gli aveva fatto perdere un’ingente quantità di denaro e ora i suoi creditori gli facevano pressioni per riscuotere.

    Finalmente si alzò dalla sedia, fece una sosta in bagno e pagò il conto. Durante le ore trascorse al bar non aveva fatto altro che pensare e ripensare al suo piano che ormai aveva ben consolidato in testa. Si recò allora in un’erboristeria e acquistò un pacchetto di liquirizie purissime. Il commesso non immaginava certo l’uso che ne avrebbe fatto, del tutto diverso dal consumo alimentare.

    7

    «Fanno sei euro.»

    «Eccoli.» James ringraziò e salutò il fattorino.

    Dopo una lunga giornata di compiti, allenamenti e videogiochi la fame era alle stelle. La salivazione aumentò nel sentire la fragranza della pizza sollevarsi dal cartone che teneva fra le mani. Si sedette al tavolo e la tagliò a fette, ma, nel momento in cui prese in mano la prima, squillò il telefono.

    «E ti pareva. Sempre sul più bello…»

    Nell’avviarsi verso l’apparecchio, James urtò contro un mobile e si fece male. Era proprio una giornata no.

    «Sì?»

    «Ciao James.»

    «Ciao pà.» Aveva un tono piuttosto freddo.

    «Come stai? Qualche novità?»

    «Sto bene. Tutto normale.» Si sforzò di continuare la conversazione. «Tu invece? Come va il lavoro?»

    «Noioso come sempre. Non vedo l’ora di tornare a casa.»

    «Be’, devi aspettare solo poche settimane.»

    «Già… Sai che ho comprato un televisore da cinquantasei pollici? Quando lo guardi sembra di essere al cinema!»

    «Immagino…» rispose fingendosi interessato.

    «Che stai facendo?»

    «Stavo per mangiare.»

    «Allora ti lascio continuare.»

    «Va bene, ciao.»

    «Ciao, ti richiamo giovedì.»

    James sospirò spazientito. «D’accordo, ciao.»

    Il padre di James, Alan White, era una brava persona, molto buona e compiacente. Era nato e cresciuto in California con uno spirito libero e ottimista. Nell’ottantaquattro aveva conosciuto Elena, una turista, e sei anni dopo era immigrato in Italia per sposarla. La sua ricompensa per aver avuto il coraggio di abbandonare amici e parenti era stata la nascita di James; l’ultimo traguardo di quelli che si era prefissato. Aveva potuto vantare una bella famiglia, un buon lavoro e ottima salute per tutti loro. In quel periodo era stato proprio felice. Non aveva avuto altro da chiedere dalla vita.

    Ma dopo l’improvvisa scomparsa di Elena, rimasta vittima in un incidente stradale, Alan aveva subìto un radicale cambiamento. Insieme all’immenso dolore che lo stava lentamente attanagliando, aveva visto fallire i suoi sforzi educativi: James era cresciuto sviluppando atteggiamenti asociali. Aveva appurato che il lavoro del genitore non può essere svolto da una persona soltanto, e aveva perciò maturato del risentimento per la maggior parte dei separati e divorziati con figli. Il suo giudizio in proposito era ancora più negativo a causa di alcuni insegnamenti religiosi che seguiva ciecamente.

    Infatti numerosi rapporti di coppia fallivano ogni giorno per la superficialità e l’orgoglio di alcuni innamorati che non si fermavano nemmeno un minuto a discutere e riflettere sui loro problemi. Nascevano delle vere e proprie battaglie, e ciascuno dei partner, pur di assecondare il proprio egoismo, cercava di rivalersi sull’altro. Nella folle ricerca di un amore perfetto, propinata da film e romanzi, si attribuiva troppo peso a pochi inevitabili difetti e si trascuravano mille altre qualità. Ma questi incauti separati non sapevano – o non capivano – che i figli, qualunque fosse stato l’esito della loro guerra privata, avrebbero comunque patito una sconfitta.

    No.

    Crescere il figlio da solo non era facile. Ma in un modo o nell’altro andava fatto, e Alan non aveva alternative. Risposarsi era fuori discussione: il pensiero di innamorarsi di una donna, per poi forse perderla di nuovo, lo frenava. Di conseguenza, i suoi sforzi per sopperire agli impegni erano raddoppiati e il tempo per distrarsi dimezzato. Aveva quindi iniziato a cercare un’altra forma di svago e l’aveva trovata nell’acquisto di cianfrusaglie. Comprava l’ultimo modello dei cellulari più in voga man mano che li producevano, si circondava di film in dvd che non guardava e acquistava elettrodomestici avanzati ma perfettamente inutili. Tutti oggetti che in altri tempi avrebbe disdegnato.

    Tale condotta gli aveva fatto insorgere il bisogno di guadagnare più soldi. Di fronte alle sue nuove esigenze, infatti, il suo vecchio stipendio era risultato insufficiente per condurre una vita priva di rinunce. La provvidenziale soluzione era arrivata dagli Stati Uniti: un suo vecchio amico gli aveva proposto di entrare in una grossa società per un posto ben retribuito. A condizione, però, che fosse tornato in patria. Alan era stato restio a separarsi da James, ma aveva deciso di provarci. Pochi mesi dopo, i suoi profitti erano aumentati e James aveva già compiuto diciassette anni, quindi aveva pensato che ormai poteva anche lasciarlo solo.

    Si vedevano quando tornava a casa un week-end ogni tre mesi e gli telefonava due volte a settimana. Alan credeva che l’invio mensile di ottocento dollari al figlio sarebbe bastato perché fosse felice. Si sbagliava. James era sì riuscito a superare il trauma della perdita della madre, ma al prezzo di una forte insicurezza in sé stesso, pochi amici e tanto bisogno di affetto. I lontani parenti non erano certo da considerarsi una valida compagnia e all’infuori della scuola trascorreva parecchio tempo da solo sui videogiochi.

    James non provava alcun rancore per il comportamento del padre, non riusciva a percepirlo come una forma di egoismo, ma la lontananza aveva reso logoro il buon rapporto che li legava. Avrebbero voluto dirsi molte cose ogni volta che si vedevano, però nessuno dei due riusciva mai ad avviare un discorso continuativo.

    James diede il tanto atteso morso alla pizza e accese il televisore. Al telegiornale che stavano trasmettendo trattavano il caso della Mantide Religiosa. James, come la maggioranza dei suoi connazionali, era molto incuriosito da quella misteriosa serie di omicidi. A causa di certi stereotipi, era già insolito pensare che un serial killer agisse fuori dai paesi americani, ma sentire che uccideva in Italia, nei pressi di Milano, era proprio difficile.

    Le cronache riportavano finalmente una notizia diversa dalle solite.

    «Perfetto! Finalmente qualcosa d’interessante da vedere» disse contento.

    A James piaceva mangiare mentre guardava la tv, in particolare quando trasmettevano programmi coinvolgenti.

    C’era il famoso ispettore Spada che raccontava i fatti in un’intervista girata durante il pomeriggio.

    «…il modus operandi è sempre lo stesso: un proiettile avvelenato calibro 357 sparato nei genitali.»

    «Il veleno è lo stesso usato nei precedenti delitti?» domandò una giornalista.

    «Si. Tetradotossina miscelata con cianuro. Non c’è possibilità di salvarsi. Con meno di una goccia, qualunque essere umano morirebbe entro un minuto al massimo.»

    «Come ha fatto l’assassino a procurarsi questi veleni?»

    «Questo non ci è ancora chiaro, ma stiamo indagando in diverse direzioni. La tetradotossina è un veleno presente nella carne di alcuni

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