Conflitti
Di Elen T.D.
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Info su questo ebook
Intrigo, doppiogioco e il passato che ritorna: nessuna tregua è concessa, nessun sentimento è al sicuro.
“Se insegui la morte, non puoi legarti a nessuno per la vita.” Cit.
Sono gemelle, sono identiche, e lo sanno.
Parigi.
Ana e Sam sono in rotta di collisione a causa di Nico che sta ricostruendo, tassello dopo tassello, il loro passato comune. Gli equilibri, costruiti in anni e anni di obiettivi di vendetta, saltano e nell'ombra qualcuno complotta per approfittarne.
San Diego.
Mariah viene reclutata in una task-force che deve fermare il diffondersi di una nuova droga, il fragile legame che ha ristabilito con la gemella però rischia di compromettere carriera, missione e il sentimento che la lega all’agente CIA Chad Winters.
Questo romanzo è il seguito di "Riflessi" se ne consiglia la lettura solo dopo aver letto il precedente capitolo della serie.
Elen T.D.
Ho più di quarant’anni (quanti in più non è significativo), sono sposata con un maschio Alpha autentico, ho due gemelli e possiedo oltre mille libri, anche se non li ho mai veramente contati. Invento storie da sempre, ma solo da qualche anno scrivo per pubblicare.Nella vita mi occupo di consulenza, amo la storia, seguo l’attualità e lo sport, e aspetto con ansia l’estate per viaggiare.
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Anteprima del libro
Conflitti - Elen T.D.
Elen T.D.
Conflitti
(Sisters #2)
conflitti – (Sisters #2)
Elena Taroni Dardi
Prima Edizione
Emmabooks ©2014 Bookrepublic srl
Seconda Edizione
©2020 Elena Taroni Dardi
Tutti i diritti riservati
Elaborazione grafica Elen TD Project © tutti i diritti riservati
Risorse:
©bykobrinphoto/stock.adobe.com
©draganm/stock.adobe.com
L’opera, comprese le sue parti, è protetta dalla legge sul diritto d’autore. Sono vietate e sanzionate (se non espressamente autorizzate) la riproduzione in ogni modo e forma nei limiti della legge e la comunicazione (ivi inclusi a titolo esemplificativo ma non esaustivo: la distribuzione, l’adattamento, la traduzione e la rielaborazione, anche a mezzo di canali digitali interattivi e con qualsiasi modalità attualmente nota o in futuro sviluppata). L'autore riconosce la piena titolarità dei marchi citati in capo ai soggetti depositari degli stessi.
Questo libro è opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o utilizzati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, vive o defunte, è puramente casuale.
A Elisa,
per essere la mia Sister
A Loris,
per essere il mio Alpha
A Luca,
per sempre su una Harley
Prologo
Una prigione nel nord del Brasile
L’odore era nauseante. Corpi ammassati, escrementi, urina.
Le sbarre di ferro una volta forse erano verniciate di grigio, i muri invece no, quelli probabilmente erano sempre stati color cemento armato. Adesso erano macchiati di ogni tipo di umore corporale.
Se si guardava attorno, voleva morire. Meglio restare accucciato nell’unico angolo di pavimento non incrostato di sangue.
Deeeng. Deeeng. Deeeng.
Metallo contro metallo. L’unico suono in grado di mettere a tacere il vociare assordante dei relitti umani che gli stavano attorno.
Le guardie sfregavano i manganelli contro le sbarre solo in quattro momenti della giornata: i tre pasti (o presunti tali) e quando chiamavano per le visite.
Anche in quel posto dimenticato da Dio, evidentemente la famiglia contava qualcosa.
Sprofondò ancora di più con la testa tra le ginocchia.
I primi giorni aveva protestato, sbraitando nella sua lingua prima e in inglese poi. Aveva persino cercato di dire qualche parola in portoghese, ma per le guardie era come se non esistesse. Tutti lo guardavano come se fosse parte del muro a cui stava addossato.
Quelli che speravano in una visita si misero allineati, gli altri indietro a guardare, come fossero trasparenti; tutti dovevano stare zitti e sull’attenti. Fece la fatica di alzarsi in piedi ma gli girava la testa: si era dimenticato di bere. Non aveva più voglia di fare nulla, neppure sopravvivere. Per aspettare cosa? La speranza che qualcuno venisse a tirarlo fuori da lì svaniva di giorno in giorno, da tempo ormai aveva smesso di segnare il muro. Si era fermato a trentasette.
«Marko Kos!»
Sbatté le palpebre incredulo e si guardò attorno. Quando il nome fu strillato di nuovo, qualcuno gli diede una spinta e solo per un caso fortuito non andò a schiantarsi contro le sbarre.
La guardia lo guardò male e poi riprese a chiamare altri nomi.
Aveva davvero una visita?
Si mise in fila e seguì docile il corteo di derelitti, una scintilla di speranza gli incendiava il petto.
Quando vide chi era, si fermò indeciso se ridere o piangere, poi una delle guardie gli diede uno spintone e finì dritto dritto tra le braccia di Ana Loszich.
C’era da non riconoscerla, con i capelli fini fermati da alcune mollette, la camicetta a fiori rosa e una gonna a campana blu: sembrava l’essenza stessa dell’innocenza. Tutte le guardie si stavano scambiando occhiate e battutine a fior di labbra.
Lei ne approfittò per mettergli qualcosa nella cinta sdrucita dei pantaloni. «Segui le istruzioni, se vuoi uscire vivo da qui» gli sussurrò, poi sedette sulla sedia di metallo sgangherata.
Marko la imitò. «Io… non capisco» disse, raschiando le parole. Erano troppi giorni che non usava le corde vocali.
«Non serve. Io ti tiro fuori, e tu lavorerai per me.»
«Lavorare? Io… non so…»
«Adesso è presto. Ne parliamo fuori di qui. Segui le istruzioni. Intesi?»
«S-sì… non dovrei stare qui. Questo posto è orribile!»
Se cercava un po’ di comprensione, non ne trovò. Lo sguardo blu era freddo come il mare attorno all’isola di Krk.
«Ho dovuto corrompere tre funzionari affinché restassi qui. Volevano mandarti al carcere di Pedrinhas.»
Non aveva idea di che posto fosse, ma non era sicuro che potesse essere peggiore. Lei si sporse e lui poté sentire di nuovo l’odore di mughetto del suo deodorante.
«Fidati, sarebbe stato molto peggio.»
***
São Luís, Brasile
L’uomo era in ginocchio, a terra. Il mento sollevato dal coltello che minacciava di troncargli la giugulare e la canna di una Glock armata con proiettili da 9 mm puntata alla tempia. Tremava e dall’odore che emanava doveva essersela fatta addosso.
«Avevo detto Pedrinhas. Domani.»
Sergej parlò in croato, e lo sgherro della Glock tradusse.
Nel tentativo di giustificarsi, l’uomo iniziò ad agitarsi convulsamente e la lama premette di più sulla gola, dalla pelle scorticata stillò qualche goccia di sangue. Sergej fece cenno all’uomo con il coltello di allentare la presa, mentre l’altro traduceva i farfugliamenti.
«Dice che ha avuto dei problemi. E che da Pedrinhas è più difficile far evadere qualcuno.»
Sergej si lasciò sfuggire un grugnito. Quello lo stava fregando. Aveva impiegato tutta la notte ma alla fine era riuscito a risalire al suo conto bancario e quello che ci aveva trovato non gli era piaciuto.
«Sono indeciso se darti una possibilità di conservare la tua miserabile vita o se fottertela subito. Voglio sapere qual è il piano di Ana» esclamò incazzato, e quando l’uomo iniziò di nuovo a piagnucolare che non conosceva Ana diede l’ordine di ucciderlo.
Fece per andarsene, ma l’altro lo implorò piangendo.
«Dice che ti dirà tutto.»
Sergej si concesse un sorrisetto. Ana credeva di averlo fregato, avrebbe dato qualsiasi cosa pur di vedere la sua espressione nel momento in cui si fosse accorta che era stata fregata a sua volta.
«Arellano» disse il traduttore. «Dice che a pagarlo è stato Keko Martinez Arellano di Tijuana, Messico, e che non ha idea di quale sia il suo piano. Ti prega di farlo vivere.»
Che novità era? Guardò il traduttore. «Tu lo conosci, questo… come cazzo si chiama?»
«Si chiama come te» rispose con strafottenza quello armato di coltello. «Keko è il diminutivo di Sergio.»
Sergej lo guardò con espressione talmente fredda che lo sgherro si ricompose subito.
«No. Non conosco questo Martinez, però so chi sono gli Arellano di Tijuana, anzi… chi erano. Pensavo fossero tutti morti.»
1
Cinque settimane dopo, un luogo segreto, Parigi.
Lui era di nuovo là, stravaccato sul suo divano a guardare nella sua TV i suoi video di danza.
«Va fermato.»
Ana alzò la testa di scatto dal tablet. «Tu non farai niente!»
«Col cazzo che non lo faccio! Sta ficcando il naso ovunque.»
«Forse dovrei incontrarlo e parlargli.»
«Sì, certo. Cos’è un nuovo sinonimo di scopare? Ti prude così tanto cherie? Magari potrei farci qualcosa io.»
Ana si alzò disgustata incrociando lo sguardo di Sam che stava addentando un triangolo di pizza bisunta, farcita con qualcosa che somigliava solo vagamente al salame piccante che aveva chiesto.
«Sei pesante.»
«No baby, sono realista. Quello è ossessionato da te, e tu lo sei da lui.»
Ana sostenne lo sguardo nero di Sam senza cedimenti. «Non sono ossessionata.» Ci pensava solo una o due volte al giorno, e solo da quando aveva scoperto che Nico aveva violato la privacy della sua casa. Il fatto che lui fosse là, rendeva impossibile per lei andarci e invece ogni tanto aveva bisogno di spezzare la convivenza tossica con Sam.
«Domani hai appuntamento in tre banche, e invece di ripassare il piano, stai lì a guardare lui che si fa delle seghe sbavando sulle tue tette.»
«Non si fa delle seghe!»
«Io me le farei se fossi in lui» ribatté pulendosi le mani sui calzoni della tuta spiegazzata che indossava.
«Ogni tanto fai schifo, lo sai?»
«Lo so. Di culi anoressici velati di seta, basta il tuo.»
«Che ti prende oggi? Sei insopportabile.»
«Sergej è un fottuto hacker del cazzo, e può contare su decine di merdosi schiavetti che confondono le sue tracce» disse, tornando a digitare sulla tastiera luminosa nella penombra della stanza. Sam lavorava sempre con caratteri bianchi su fondo nero.
«Hai detto che era ancora in Brasile.»
«Invece credo di no. Credo sia tornato in Europa.»
«Potrebbe aver saputo di domani?»
«Ne dubito, è più facile che abbia saputo dell’incontro con Martinez. Avevo lasciato meno vicoli ciechi proprio perché a un certo punto di concentrasse sul fatto che sei a Parigi e che Martinez sta venendo a Parigi.»
«Gli abbiamo tolto il pane di bocca Sam, non sottovalutarlo.»
«Non lo faccio. Il suo programma per mascherare agli altri membri dell’Organizzazione che gli ho fottuto tutti conti è geniale.»
C’era rispetto nel tono di Sam, e la cosa preoccupava Ana. Ci avevano lavorato per quasi due anni, a quell’idea di seccare i depositi liquidi dei Loszich e finalmente il cambio di vertice avvenuto dopo la morte di Louban aveva permesso ad Ana e Sam di infiltrarsi ancora più profondamente nei server dei Loszich e rubare i dati che servivano. La missione del giorno dopo, spostare fisicamente il denaro, fatto convertire in lingotti d’oro, da una banca ad un’altra era di cruciale importanza per recidere qualsiasi traccia informatica lasciata da Sam.
«Shit!»
«Che c’è?» Chiese preoccupata, avvicinandosi a Sam per guardare il monitor che aveva iniziato a lampeggiare. Ana lesse il banner grigio apparso sullo schermo e prima di poterlo fermare le fiorì un sorriso sulle labbra.
«Che cazzo ridi?»
Ana si ricompose, e tuttavia una sensazione piacevole le correva per la spina dorsale. «È sulle tue tracce?» domandò cercando di mantenere un tono neutro.
«No. È escluso. Ho cancellato ogni singolo bit che possa farlo risalire da te a me.»
«Però Nico si sta rivelando più intuitivo di come l’hai giudicato.»
«Non tessere troppo le sue lodi, posso far arrivare un cecchino e cambiare i vetri di casa tua prima che tu sia di ritorno da Lugano.»
«Non lo farai,» ribatté dura. «Sai che non ti perdonerei.»
Sam ruotò con la sedia per fissarla negli occhi.
«Non provocarmi baby.»
«Tu, non provocare me.»
«L’italiano è un problema, sta troppo in mezzo ai coglioni e ti deconcentra.»
«Sono concentratissima. E l’unico che può mandare tutto a puttane è Sergej. Stai addosso a lui. E magari fai dare una pulita a questo posto» aggiunse alludendo al cartone vuoto della pizza americana che aveva voluto e che non era l’unico imballo di cibo spazzatura abbandonato sul pavimento. Quel posto era anche più lercio del campo di addestramento dei Loszich,
«Non ti piace come mi nutro?»
«Non ti stai nutrendo Sam, ti stai facendo del male. E lo stai facendo da anni.»
«Ce lo stiamo facendo da anni» precisò ammorbidendo un po’ il tono.
Ana approfittò di quel momento di verità. «Sogni mai che finisca?»
«Secondo te perché non mi piace dormire?»
«Ferzan. Goran. Louban» Ana sciorinò i nomi con la stessa forza dei colpi che li avevano uccisi. «Sergej sarà l’ultimo?»
«È la tua famiglia cherie, dimmelo tu.»
Ok, la breccia si era richiusa. «Vado a dormire in albergo,» sbottò stizzita raccogliendo le sue cose e dirigendosi alla porta, «oggi sei insopportabile e in questo letamaio non ci sto!»
«Va bene principessa!» le gridò dietro Sam alzando la voce per farsi sentire mentre usciva. «Ricordati solo che dopo i Loszich, tocca a me!»
Uscì sbattendo il portone.
Lo so, cazzo! Lo so, che non è ancora finita pensò tirando su il cappuccio per non essere inquadrata dalle telecamere di sicurezza.
Los Angeles, USA
Mariah rientrò in casa e gettò le chiavi nella tazzina sul mobile d’ingresso. Tolse l’impermeabile e lo ripose, si lasciò cadere sul divano malandato e, ancora sovrappensiero, iniziò a slacciare gli scarponcini.
Detestava con tutta sé stessa le sedute dalla psicologa del Bureau, ma le sarebbero toccate fino a quando non fosse riuscita a convincerla che nella sua mente non c’era nessuna bomba a orologeria pronta a esplodere a causa del suo passato.
Fingere di non ricordare nulla le era sembrata la cosa più semplice, ma cinque settimane di finzione potevano mettere a dura prova chiunque, specie se di fronte si aveva una professionista, e quella donna lo era. Riusciva a scavare così a fondo nella memoria da riuscire ogni volta a far emergere qualche frammento di ricordo: tenerli per sé e inventare qualcos’altro era sempre più difficile.
Grazie a quelle sedute Mariah aveva