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Roma Insolita. Guida ai quartieri popolari della Città Eterna
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E-book620 pagine8 ore

Roma Insolita. Guida ai quartieri popolari della Città Eterna

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Dal Pigneto a San Lorenzo, da Testaccio a Garbatella, la storia nascosta di vie, piazze e palazzi della Capitale

La bellezza segreta dei quartieri più frequentati e meno conosciuti della Capitale

Roma è celebrata in tutto il mondo per i suoi monumenti antichi, che ogni anno attirano milioni di turisti: dal Colosseo ai Fori, da San Pietro ai numerosi musei. Eppure, l’Urbe nasconde anche un’altra faccia spesso ignota agli stessi romani, forse meno appariscente, ma di certo non meno interessante. Marina Giorgini e Anna Maria Panzera conducono il lettore alla scoperta dei quartieri operai di Roma: zone edificate in epoca moderna e legate allo sviluppo industriale della città, che nel tempo sono state riconvertite pur mantenendo il loro carattere originario. In questi quartieri, l’edilizia popolare si fonde con le antichità, dando luogo a scorci suggestivi e particolari. Dall’Area Industriale nel quartiere Ostiense alla piramide di Caio Cestio a Testaccio, dal Cimitero del Verano a San Lorenzo all’ex Pastificio Pantanella al Pigneto: un tour affascinante attraverso l’anima operaia della Città Eterna.

Tra le insolite mete proposte negli itinerari:

Monte dei Cocci
Area industriale e Gazometro
Quartieri di edilizia popolare
Case dei bambini di Maria Montessori
Area pedonale del Pigneto
Torretta del Quadraro
Marina Giorgini
insegna Storia dell’Arte nei licei romani. Precedentemente è stata insegnante di lingua e cultura italiana a studenti stranieri ed è specializzata nella programmazione e nella conduzione di visite guidate in zone inusuali per il turismo tradizionale.
Anna Maria Panzera
è storica dell’Arte e docente di Italiano e Storia negli istituti superiori e nei licei. Ha collaborato con varie istituzioni museali ad attività di ricerca e formazione, contribuendo alla catalogazione e alla divulgazione del patrimonio artistico nazionale. Ha pubblicato numerosi libri di argomento storico-artistico.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2022
ISBN9788822771674
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    Anteprima del libro

    Roma Insolita. Guida ai quartieri popolari della Città Eterna - Marina Giorgini

    1

    testaccio

    Luogo dove la plebe corre nella primavera, e più in ottobre, gozzovigliare, stanteché nel monte formatosi ne’ bassi tempi di rottami di vasi (testa) e quindi detto Testaccio, sono scavate grotte entro le quali si mantengono freschissimi vini. Il prato, inoltre, che trovasi innanzi al detto monte e alla famosa piramide dell’epulone C. Cestio, è molto opportuno ai sollazzi romorosi. Anzi ne’ secoli andati la città di Roma suoleva darvi i pubblici e talora crudi e cruenti spettacoli. In un canto di esso prato trovasi il cemetero de’ riformati.¹

    Le parole appena riportate, del famoso poeta romanesco Giuseppe Gioachino Belli, sembrano la migliore introduzione possibile al Testaccio, poiché in poche righe ne evidenziano i luoghi salienti e ne tracciano l’essenza: quella di un sito storico-archeologico, immerso in uno spazio verde, dove poter trascorrere ore di festa e di svago attorniati da monumenti antichi e moderni.

    Il rione Testaccio si estende su un’area di circa 600.000 metri quadrati ed è delimitato a nord-ovest dall’ansa del Tevere, a est dal colle dell’Aventino e a sud dalle Mura Aureliane. È uno dei rioni moderni, ricavato dallo scorporo di parte del rione Ripa e istituito nel 1921, con una delibera di Giunta che ha portato il totale agli odierni ventidue. I rioni, a differenza dei quartieri, appartengono a quello che si considera centro storico, sono ubicati per la maggior parte entro la cinta delle Mura Aureliane e costituiscono la parte più antica della città; la stessa etimologia della parola (dal latino regio, -ōnis) richiama storicamente le quattordici regiones in cui Augusto aveva diviso la città nel 7 a.C. Anche lo stemma di Testaccio, rappresentato nella figura qui accanto, rimanda al mondo classico: è un’anfora, e presto ne spiegheremo il perché.

    La sua storia ha inizio in epoca romana, prosegue in quella medievale e moderna e, in età contemporanea, vede l’edificazione del rione vero e proprio. Per seguire questo filo ininterrotto dovremo compiere un itinerario circolare che, pur facendoci tornare talvolta su strade già percorse, ci farà apprezzare la stratificazione e la progressione urbanistica del quartiere (useremo questo termine, anche se improprio, come sinonimo di rione).

    La pianura del Testaccio entra a far parte della vita di Roma all’inizio del ii secolo a.C. quando, essendo diventato insufficiente il vecchio portus Tiberinus del Foro Boario per gli accresciuti bisogni della popolazione, vi viene trasferito il porto fluviale denominato Emporium; è dalla visione di questi resti archeologici che inizia il nostro itinerario.

    ITINERARIO

    Ponte Sublicio collega piazza di Porta Portese a piazza dell’Emporio che ricorda, nel nome, il complesso portuale caratterizzante per secoli la zona e che segna l’inizio di via Marmorata. Ancora oggi arteria importante per la viabilità della città, quest’ultima è identificabile con il tratto urbano della via Ostiense, antichissima strada che collegava via terra Roma al suo più antico porto, Ostia appunto. Toponimo parlante di Roma, via Marmorata è così chiamata in ricordo dell’enorme quantità di marmi che, giunti qui via fiume o via terra, venivano temporaneamente ammassati in questa sorta di deposito, prima di essere smistati; la percorreremo più tardi.

    Affacciamoci verso la riva sinistra del Tevere da ponte Sublicio, il più antico di Roma, secondo la tradizione costruito in legno da Anco Marcio: da qui possiamo vedere ciò che rimane dell’ampio stabilimento appena nominato, riportato alla luce intorno al 1870 durante gli scavi per la costruzione degli argini del fiume, i cosiddetti muraglioni.

    I resti dell’Emporium ora visibili si dispongono su tre file: al livello del Tevere troviamo una banchina lunga circa cinquecento metri e profonda novanta, non apprezzabile dalla nostra posizione a causa della fitta vegetazione incolta; nella parte mediana vediamo invece una fila di ambienti voltati a botte in opus latericium (muratura di mattoni), al di sopra dei quali si estende un lungo piazzale pavimentato da grandi lastre di travertino e utilizzato per lo scarico e lo smistamento delle merci. A questo livello possiamo vedere un’altra fila di costruzioni a volta in laterizio, allineate sopra quelle inferiori ma in posizione arretrata, già destinate a magazzini e aperte verso il quartiere commerciale. Resti di mosaici pavimentali crollati testimoniano l’esistenza di ulteriori piani superiori utilizzati probabilmente come uffici e stanze di stivaggio delle merci. Tutto questo complesso risale a restauri e rifacimenti del i e ii secolo d.C. ma la storia dell’Emporium inizia ben addietro.

    Planimetria dell’antico porto fluviale romano,

    in particolare l’Emporium e la Porticus Aemilia, sovrapposta al quartiere moderno.

    Artefici della prima sistemazione erano stati gli edili (addetti alla cura urbis) Marco Emilio Lepido e Lucio Emilio Paolo che, nel 193 a.C., avevano trasferito l’antico porto tiberino in un’area scoperta, pavimentata in pietra, appena fuori dalla Porta Trigemina delle antiche mura repubblicane, ai piedi dell’Aventino, dove avevano costruito un molo e un vasto complesso di magazzini denominato porticus Aemilia.

    Le nuove installazioni portuali si giovavano di un entroterra senza limiti, che nel corso del tempo si andava riempiendo di grandi edifici adibiti a depositi di derrate e magazzini (porticus e horrea), realizzati da importanti famiglie che in quella zona avevano le loro proprietà e che da loro presero il nome (horrea Lolliana, Seiana ecc.). Era qui che, dopo essere sbarcate nel porto marittimo di Ostia e aver risalito il Tevere su chiatte, arrivavano a Roma e venivano smistate le merci provenienti da tutto il Mediterraneo: grano, garum (salsa di interiora di pesce usata come condimento), lupini e frutta secca, vino e soprattutto olio, trasportati in tipiche anfore prive di piede, incastrate e impilate l’una sull’altra. Sulla sponda sinistra del Tevere, in corrispondenza di quest’area, approdavano navi e zattere colme di questi prodotti; immaginiamo il clima concitato, che vedeva schiavi, liberti, patrizi, plebei, appaltatori e marinai accogliere le imbarcazioni, manovrare le cime per l’approdo, trasportare e stoccare gli imballaggi.

    Nella prima età imperiale l’attività di questo colossale complesso crebbe molto, dando nuovo impulso ai commerci che vi si svolgevano, grazie all’apertura a nord di Ostia (oggi Fiumicino) del porto di Claudio prima e di quello di Traiano poi, di cui l’Emporium costituiva il terminale urbano.

    I resti della Forma Urbis, la pianta di Roma incisa su lastre di marmo per volontà dell’imperatore Settimio Severo ed esposta nel forum Pacis, ci mostrano come doveva apparire la zona alla fine del ii secolo d.C., con la serie di grandi complessi horreari divenuti ormai di proprietà pubblica.

    Quando intorno al 270 d.C. l’imperatore Aureliano dette avvio alla costruzione delle mura che da lui presero il nome, il quartiere commerciale dell’Emporium venne incluso nella nuova cinta e dunque all’interno della città, a suggello del ruolo fondamentale che ancora svolgeva per l’economia cittadina.

    L’impianto venne variamente utilizzato fino al vii secolo, quando fu definitivamente abbandonato, ma già dal v iniziò una graduale perdita di funzionalità dello scalo fluviale con una conseguente ruralizzazione dell’area, che acquisterà in epoca medievale un carattere prevalentemente agricolo.

    Prima di lasciare ponte Sublicio per dirigerci nel cuore del nostro rione, passiamo sull’altra spalletta e diamo uno sguardo a monte. Sulla riva destra del Tevere, di fronte all’Emporium situato sulla ripa Graeca, possiamo osservare una doppia rampa di scale appartenente a un altro porto, quello di Ripa Grande. Già attestato al tempo di papa Leone iv (847-855), epoca in cui gli scali fluviali cominciarono a trasferirsi sulla ripa Romea, cosiddetta dai pellegrini (romaei) che la percorrevano, fu ricostruito e ampliato tra xvii e xviii secolo e rimase in uso fino alla fine dell’Ottocento, quando la costruzione dei muraglioni e la trasformazione dell’economia cittadina lo privarono della sua funzione primaria.

    Cominciamo a percorrere il lungofiume, nella stessa direzione della corrente. Sfilano sulla nostra sinistra bei palazzi di epoca moderna, su cui non ci soffermiamo adesso per non interrompere il filo cronologico della narrazione. Poco più avanti, subito dopo l’incrocio con via Romolo Gessi, sulla destra il cancello d’ingresso del cantiere archeologico ci offre la possibilità di sbirciare al suo interno per vedere il piazzale pavimentato prima indicato. A sinistra, prendiamo via Rubattino: dopo pochi metri, il grande rudere romano ad arcate che troviamo nello slargo sulla destra appartiene con tutta probabilità alla maestosa porticus Aemilia sopra menzionata, un vasto complesso di magazzini con funzione di deposito delle merci in arrivo al porto e a questo strettamente connesso. Edificata contemporaneamente all’Emporium nel 193 a.C. e dagli stessi consoli edili, fu ampliata e restaurata a più riprese. Le imponenti strutture superstiti ci danno un’idea della grandiosità dell’edificio: un rettangolo lungo ben 487 metri e largo 60, suddiviso nel senso della lunghezza da 294 pilastri in 50 navate (larghe 8,30 metri), a loro volta ripartite in larghezza in sette file di ambienti coperti da una serie di volte a botte sovrapposte e sfalsate, per garantire un’adeguata aerazione e illuminazione; la risultante superficie coperta era di 25.000 metri quadrati. Il più vasto edificio commerciale costruito dai Romani si rivela interessante anche per la tecnica costruttiva, attestandosi tra gli esempi più precoci di opus incertum in tufo (paramento murario in blocchetti piramidali applicati in filari obliqui irregolari).

    Giovan Battista Piranesi, Le Antichità romane, tomo i, tav. ii – Pianta di Roma, 1756. Monte Testaccio è visibile in basso al centro.

    Continuiamo velocemente per via Rubattino e poi per via Nicola Zabaglia, dove ritorneremo, costeggiando sulla sinistra tutta la zona anticamente occupata dai grandi depositi di merci, di cui purtroppo resta pochissimo. Qui, nel i secolo a.C., avremmo potuto vedere gli horrea Sulpicia, costruiti intorno al 100 a.C. dal console Sergio Sulpicio Galba in uno dei più antichi esempi conosciuti di opus reticulatum (paramento murario in blocchetti tronco-piramidali disposti in linee diagonali formanti una trama a rete), ma restaurati dall’imperatore Galba nel i secolo d.C. e noti oggi con il suo nome. Gli horrea Galbana, o Galbae, erano magazzini annonari, organizzati intorno a tre grandi cortili rettangolari porticati, sui quali si aprivano lunghi ambienti. Recentemente è stato dimostrato che questa era solo una piccola parte dell’edificio, quella destinata ad abitazione degli schiavi (ergastula); i magazzini veri e propri si trovavano più a est, tra gli ergastula e il monte de’ Cocci dove adesso ci dirigiamo.

    L’incrocio tra via Zabaglia e via Galvani ci introduce a un luogo altamente simbolico, quel Monte Testaccio che al nostro rione ha dato il nome, di cui diremo subito l’etimologia. L’ingresso al sito archeologico avviene da un cancello, quasi sempre chiuso, sul quale una targa indica gli orari e le modalità di prenotazione delle visite guidate. Dal nostro punto di osservazione possiamo vedere chiaramente la composizione di questo particolarissimo monte; approfittatene per una sosta in uno dei locali vicini e leggetene la storia.

    Lo scrittore e grecista francese Paul-Louis Courier, più volte a Roma tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, ci ha raccontato chiaramente l’origine del toponimo: «Vi ricordate a Roma Monte Testaccio (che val certo Montmartre), formato tutto da pezzi di vasi di coccio, che in latino si chiamava testa, ciò ch’io posso affermare, avendolo visto per diritto e per traverso?»².

    Il mons Testaceus infatti, alto circa 54 metri s.l.m. e 30 al di sopra della zona circostante, con una circonferenza di più di un chilometro e una superficie di circa 20.000 metri quadrati, non è un colle naturale, bensì una grande discarica specializzata e organizzata secondo regole precise. Si è formato con la stratificazione secolare degli scarti di materiale fittile (la parola testa in latino indicava i recipienti di terracotta e i loro frammenti, i cocci in italiano, poi, per estensione, è passata a indicare il cranio) e detriti vari, residuo dei trasporti operati nell’Emporium. Le stive delle imbarcazioni ormeggiate nello scalo fluviale, dunque, venivano svuotate dell’enorme quantità di anfore – ecco il simbolo del nostro rione – e di olle che la Roma latina commerciava incessantemente, in particolare dalla Spagna e dall’Africa. La permeabilità e la fragilità della terracotta non permetteva di riutilizzare le testae, che spesso arrivavano danneggiate perché stipate male o a causa delle tempeste, motivo per cui anche quelle non rovinate erano spezzate e smaltite. Milioni di resti fittili, di varia misura e forma, mescolati a frammenti di marmo e ad altri detriti, erano periodicamente ammassati nel punto in cui ci troviamo ed erano poi ricoperti da strati di calce per sanificare e impedire che i residui alimentari contenuti fermentassero, provocando cattivi odori. Su questo agglomerato veniva poi versata della terra, per compattare l’enorme massa, sulla quale nel tempo è nata la vegetazione che conferisce al monte un aspetto naturale. Tuttavia, sarebbe errato pensare a un unico cumulo: in realtà si tratta di diversi scarichi, a distanza l’uno dall’altro, che nel tempo si sono uniti, oppure sono franati andando a occupare il terreno circostante. Siamo dunque di fronte a un sito irregolare, modificato nel tempo da fenomeni atmosferici e sismici e soprattutto dall’uomo stesso, che lo percorreva regolarmente, come testimoniato dal ritrovamento di un tracciato stradale che ancora lo attraversa.

    Ma il monte dei Cocci non è solo un accumulo di materiale: per noi rappresenta anche un enorme e ancora in parte inesplorato archivio commerciale della Roma antica. La datazione dei frammenti individua un arco temporale di circa quattro secoli, dal 140 a.C. al 250 d.C. Essenziali rimangono, non solo per la cronologia, le ricerche dell’archeologo tedesco Heinrich Dressel che, nella seconda metà dell’Ottocento, studiò il monte refertando i segni leggibili sui frammenti di terracotta. In questo modo rintracciò diversi generi di iscrizioni: bolli e marchi di fabbrica, in particolare sui manici e sui collarini delle anfore; graffiti di numeri (spesso gli anni consolari) e nomi (ad esempio, i mercanti che avevano curato i trasporti), solitamente tracciati sulle pance; iscrizioni dipinte, soprattutto lettere di colore nero (con peso, luogo del controllo e nome dell’addetto). Mettendo insieme i vari reperti possiamo così immaginare i traffici provenienti dalla città di Tubusuctus in Mauritania; oppure l’officina di Giulio Onorato e quella di Aurelio Eracla, padre e figlio; o ancora il lavoro di Virgilio e del suo servo Romulus, che hanno lasciato le impronte delle loro dita e il loro logo sui vasi. Tra i commercianti di anfore figurano i nomi di molte donne che smerciavano tale manufatto utilissimo a Roma anche per l’edilizia, essendo usato, vuoto, per alleggerire le volte dei solai. Lo testimonia ancora oggi il mausoleo di Sant’Elena, che con le sue anfore (chiamate pignatte) inserite nella muratura ha dato il nome a tutta la zona vicina, Torpignattara.

    Anche dopo la decadenza e la caduta dell’Impero Romano, la vita del monte, così come quella di tutta la zona, continuerà variamente fino ai giorni nostri: perdendo per alcuni secoli la vocazione commerciale, acquisirà altre funzioni peculiari e pur sempre popolari.

    Nell’Alto Medioevo, il progressivo fenomeno di ruralizzazione che investì tutta Roma gli conferì una destinazione prevalentemente agricola. Il contrarsi dell’abitato, infatti, concedeva maggiore spazio alla coltivazione della terra, lavorata soprattutto a vigne e orti. Risale a questo periodo la prima attestazione del toponimo che individua l’altura: si tratta di un’epigrafe dell’viii secolo conservata nel portico della basilica di Santa Maria in Cosmedin, che riporta la donazione alla stessa chiesa di alcune vigne poste in Testacio da parte di due fratelli: «bineas tabularum duarum et semis qui sunt in Testacio» («vigne di due tabule e mezzo che sono sul Testaccio»)³. I piccoli terreni coltivati occupavano solo parte della pianura testaccina: anche quando gli antichi horrea publica populi romani divennero proprietà della Chiesa, il monte e l’area a ridosso, nota come Prati del popolo romano, «rimasero in potere dell’autorità cittadina»⁴. Nel 1363, quando risulta possedimento del monastero di Santa Maria in Aventino, la cittadinanza la ottiene in concessione a uso di pascolo pubblico per il bestiame, utilizzo ribadito ancora nel Settecento e fino all’Ottocento, per evitare che qualcuno arbitrariamente se ne arrogasse la proprietà.

    Per tutto il Medioevo il Campus Testacie, proprio per la sua destinazione pubblica, sarà un luogo riservato a manifestazioni ludiche e religiose, raffigurate in diversi documenti iconografici. Sappiamo che già nel xii secolo vi si svolgevano i giochi della domenica di Quaresima. Le più antiche annotazioni sui ludi di Testaccio si trovano infatti in un manoscritto redatto intorno al 1140 che, sotto il titolo De ludo carnelevarii, descrive la cerimonia: il papa, sceso dal palazzo del Laterano, si recava presso il monte per assistere ai giochi e alle cacce agli animali prima dell’imminente astinenza quaresimale. La parola carnevale deriva proprio dal latino carnem levare e indicava il banchetto d’addio alla carne che si teneva prima della Quaresima, periodo di digiuno e di generale astinenza.

    Inoltre, nel 1256 in un contratto di enfiteusi (locazione a lungo termine), il Monte Testaccio era definito mons de palio: è qui infatti che si tenevano corse di cavalli e di tori con conseguente tauromachia.

    Intorno alla metà del xiv secolo il ludus maximus di Testaccio, il carnevale, acquistò un valore civico per divenire festa del Comune, durante la quale la gioventù equestre romana praticava i cruenti giochi popolari, che prevedevano il lancio di maiali, tori e cinghiali dalla cima del monte, lungo il pendio e verso l’attuale via Zabaglia, dove i lusores (giocatori) si contendevano gli animali per ucciderli con la spada e venirne in possesso. Il più famoso tra questi era la ruzzica de li porci: sulla sommità del colle diversi maiali vivi erano sistemati in carri, addobbati con un panno rosso in onore del popolo romano e fatti rotolare giù per il declivio, senza guida fino a valle, dove una folla intera attendeva per contendersi quel che restava dei poveri suini. Purtroppo nel corso del tempo questa usanza si estese anche agli esseri umani, in particolare agli ebrei che riuscirono, ma solo versando 1130 fiorini alla Camera Apostolica, a farsi esonerare dagli orribili giochi di cui erano vittime, come quello citato in un codice vaticano che aveva visto un anziano giudio spogliato, chiuso in una botte e fatto ruzzolare dalla cima del colle.

    Da Speculum Romanae Magnificentiae, stampa con La festa di Testaccio fatta in Roma, 1558.

    Una cronaca fantasiosa e parodistica ci tramanda il memorabile carnevale di Testaccio organizzato dal tribuno Maddaleno, immaginario successore di Cola di Rienzo, con i tori presentati in Campidoglio e il lungo corteo che da lì attraversava la città fino al monte, con la partecipazione di tutti i rioni, delle arti, dei conservatori, facendo mostra di addobbi e cibarie, prima di procedere alla cruenta tauromachia, con caccia ai porci e ai tori lanciati con sei carrette dal pendio. Inoltre, ben localizzati, tre palii equestri dei barberi, dei cavalli turchi e delle giumente, «dallo monte de testacia infino alla colonnella di monte Aventino»⁵. Non sempre tutto andava per il verso giusto: il cronista quattrocentesco Paolo di Lello Petrone si rammaricava che nel 1443 si fosse corso un solo palio invece che tre, e che fossero state lanciate dal monte «quattro carrozze, e solevano essere sei. Sia pregato Dio se possa fare allo muodo antico con stato della nostra cittate de Roma della santa Ecclesia e de tutta cristianitate»⁶. Insomma, una tradizione tutta civile e popolare, di cui forse oggi non è facile cogliere il senso, ma che doveva essere un momento di forte unione e trionfo del Comune.

    Paolo ii dal 1465 ampliò la festa del carnelevare, aggiungendo ai palii equestri di Testaccio altre sei corse agonistiche, concentrate su via Lata; il palio dei cavalli berberi partiva da piazza del Popolo e giungeva, tramite l’odierna via del Corso, al palazzo di San Marco, residenza di papa Barbo (piazza Venezia). Questo processo di delocalizzazione fece sì che i giochi comunali si trasferissero gradualmente nelle sedi della renovatio papale, anche se la festa dei tori rimase in Testaccio.

    Con il papato di Paolo iii Farnese terminò la consuetudine: il corteo del 1545 fu l’ultimo viaggio del carnevale verso Testaccio. Contemporaneamente, l’area acquistava una vocazione militare: dal xvi secolo il Comune concesse Monte Testaccio alle autorità militari affinché servisse da bersaglio durante gli addestramenti al tiro delle bombarde; inoltre vi fu costruita una polveriera ancora esistente a inizio Novecento.

    Tra le manifestazioni religiose, invece, fino al Settecento la processione della Via Crucis aveva come punto di arrivo Monte Testaccio, novello Golgota e meta del Gioco della Passione, rappresentazione sacra che durante la sera del venerdì santo partiva dalla casa dei Crescenzi al foro Boario; a ricordo di questa tradizione, nel 1914 fu innalzata sulla sommità una croce in ferro.

    Nel Seicento Testaccio proseguiva la sua vita popolana frammista all’antica inclinazione commerciale: i vigneti ricoprivano ancora buona parte della zona, che si rivelò presto ottima non solo per la produzione, ma anche per la conservazione del vino. Da questo periodo il monte vero e proprio cominciò a cambiare volto, assumendo un aspetto molto simile a quello che vediamo ancora oggi. Alcuni privati, infatti, iniziarono ad acquistare terreni alle pendici del colle, per scavarli e crearvi all’interno dei grottini che, grazie al fresco venticello che correva negli interstizi tra i cocci, erano destinati a cantine e magazzini per la conservazione di vino e vivande, e trasformati poi in osterie e locali vari. Come ci spiega Montesquieu, in visita a Roma nel 1728: «D’estate ne esce una corrente d’aria fredda, perché l’aria esterna, rarefacendosi per il calore, penetra nelle cavità del monte attraverso i buchi di tutti quei vasi rotti, e ne esce fredda, cioè più fredda della temperatura esterna. D’inverno invece non si verifica nulla»⁷.

    Progressivamente, e soprattutto dopo il 1870, gli scavi del pendio furono limitati ma le grotte preesistenti ospitavano ancora le attività suddette, alcune mantenute fino a oggi. Più avanti ci si troverà nuovamente in prossimità di via di Monte Testaccio e potrete costeggiarla interamente, sbirciando dentro ai vari locali che vi si affacciano: mentre prendete un caffè o un aperitivo, tutto quanto abbiamo narrato sarà ancora incredibilmente visibile.

    Naturalmente, fin quasi alla metà del Settecento il Monte dei Cocci non fu considerato un sito archeologico rilevante, ma un luogo marginale, utilizzato anche da chi cercava anfratti isolati per contravvenire alla pubblica morale. Solo il 24 settembre 1742 papa Benedetto xiv emanava un editto a sua tutela, vietando lo scavo e l’asportazione di terra e cocci, a favore del buon mantenimento delle grotte per il vino e della conservazione di un’antichità così celebre; un altro editto del 1744 vi proibiva il pascolo. In entrambi gli avvisi era prevista per i contravventori la reclusione fino a cinque anni, nonché pene corporali.

    Giovanni Battista Falda, Nuova pianta et alzata della città di Roma con tutte le strade piazze et edificii de tempii, 1676. La piana di Testaccio è visibile in basso a destra.

    Durante la Repubblica romana del 1798, quando Roma era sorella della Repubblica francese (l’ancora generale Napoleone, comandante dell’Armata d’Italia, aveva appena abbandonato lo Stivale con destinazione l’Egitto), riappariva la vocazione festiva di Testaccio: la zona era destinata a ospitare la festa autunnale del primo giorno di brumale con banchetti, balli, commedie e pantomime. Ancora per tutto l’Ottocento, la zona dei Prati del popolo romano veniva eletta meta dei Baccanali del mese di ottobre (le famose ottobrate), quando il popolo si godeva qui il vino novello proveniente dai Castelli romani, tra canti tradizionali e qualche avventura amorosa, che poteva sbocciare durante l’ebbrezza, come ci ha raccontato benissimo Gioachino Belli.

    Certo, il concetto di tutela del patrimonio era ancora di là da venire se, ancora nel 1854, il Comune utilizzava la pianura testaccina per scaricarvi i calcinacci e i rifiuti delle Officine del gas del Circo Massimo (le ritroveremo parlando di Ostiense), o ne destinava una parte ai Magazzini comunali dei selci, come documentato da Rodolfo Lanciani nella sua Forma Urbis Romae. Il monte, sistemato a parco pubblico nel 1931, cadde poi in disuso, e durante la seconda guerra mondiale sarà addirittura occupato da un’intera batteria antiaerea, smantellata alla fine del conflitto.

    Dopo questa lunga sosta, continuiamo a percorrere via Zabaglia; sulla nostra sinistra, un’area abbandonata ci offre una piccola anticipazione di futuro, che non ci lasciamo sfuggire. Immaginiamo proprio lì, con una capienza di 20.000 spettatori, lo stadio della neonata Associazione Sportiva Roma-Campo Testaccio, edificato negli anni Trenta del xx secolo con gli stessi criteri utilizzati negli stadi britannici e attivo fino al 1940; si distingueva per le sue tribune lignee verniciate di giallo e di rosso, ospitava la dimora dell’allenatore e fu prestato anche ai primi incontri italiani di rugby. Viene ancora ricordato dai tifosi per le prime vittorie della squadra del cuore, ma attualmente è uno spazio incolto, di cui rimane la targa che ricorda il Campo e intorno cui si affacciano la biblioteca Enzo Tortora, l’Istituto Comprensivo Elsa Morante e l’Istituto d’Istruzione Secondaria De Amicis-Cattaneo.

    Più avanti, sul lato opposto della strada, un tempietto circolare segna l’ingresso al Rome War Cemetery, dove riposano le spoglie dei militari appartenenti al Commonwealth caduti a Roma nelle due guerre mondiali. Come molti luoghi analoghi, lo spazio è altamente suggestivo, per la vicinanza alle Mura Aureliane e per la cura delle sepolture terragne, sempre ricoperte di fiori.

    Ora un passo indietro e imbocchiamo via Caio Cestio per visitare er camposanto ingrese. Si tratta di uno dei cimiteri tuttora in uso più antichi d’Europa, ospita circa 4000 sepolture e vi si possono leggere iscrizioni in quindici lingue diverse.

    «[…] è il più bello e solenne cimitero che io abbia veduto. Vedere il sole scintillante sull’erba fresca, la rugiada autunnale; udire il mormorio dei venti tra i rami degli alberi [...] e il suolo che sembra rabbrividire al bacio del sole; contemplare le tombe, la maggior parte di donne e di giovani, fa desiderare di essere quivi sepolti»⁸. Le parole profetiche di Percy Shelley, il cui desiderio fu esaudito, risuonano estremamente attuali: in questo luogo ancora oggi si respira una particolare atmosfera, sospesa, fuori dal tempo e da uno spazio urbano sempre più concitato. Una pianta del celebre incisore e cartografo Giovanni Battista Nolli ci mostra lo stato della zona a metà Settecento: diverse tenute coltivate a vigna, con indicazione dei relativi proprietari; i resti della porticus Aemilia in prossimità del Tevere; infine, a ridosso della piramide di Caio Cestio, la presenza del Cimitero Acattolico, indicata per la prima volta.

    Fino all’inizio del Settecento Roma, a differenza di altre città italiane, non disponeva di un luogo di sepoltura per persone di fede non cattolica, che al tempo erano quasi tutti protestanti anglicani. Nel 1716 papa Clemente xi Albani concesse il permesso di seppellire, in un terreno inutilizzato ai piedi della Piramide Cestia e a ridosso delle Mura Aureliane, il medico scozzese William Arthur, morto di dissenteria per un’indigestione di fichi. Benché protestante, egli aveva seguito Giacomo Stuart, destituito dal trono ed esiliato in Francia a seguito della Gloriosa Rivoluzione, terminando a Roma la sua esistenza. Il cardinale Filippo Antonio Gualterio, in stretti contatti con la famiglia reale, aveva interceduto presso la sede papale affinché ne accogliesse le spoglie, e i successori dell’Albani ne ratificarono l’uso come favore speciale. Negli anni successivi a questa prima concessione ufficiosa, altre sepolture avvennero nel medesimo luogo, finché esso non fu destinato a diventare il cimitero per i cittadini inglesi, d’accordo con il governo della Santa Romana Chiesa. A partire dal 1723, i funerali furono celebrati da un pastore anglicano: possiamo dunque prendere questa come data dell’istituzione ufficiale del cimitero, che al tempo contava appena quattro tombe. Successivamente, il permesso di sepoltura fu esteso ad altri non cattolici: spesso giovani uomini e donne provenienti dall’America del Nord, dalla Prussia, dalla Danimarca o da altri paesi, deceduti a Roma mentre conducevano il loro Grand tour, il lungo viaggio di istruzione, educazione e formazione intrapreso dai rampolli delle case aristocratiche, che aveva come meta irrinunciabile l’Italia e le sue città d’arte. Tra il 1738 e il 1822 furono qui seppellite più di sessanta persone.

    Tra i primi e prestigiosi grand tourists a visitare questo luogo, il marchese De Sade ci riporta una notizia interessante: «È nelle vicinanze [della Piramide] che si usa seppellire gli inglesi e in generale tutti i protestanti. Ma una cosa abbastanza notevole e che si fa da pochi anni, è che oggi si costruiscono dei piccoli monumenti sulle loro tombe di marmo, con alcune iscrizioni. Il primo novembre 1775 ne ho contate già tre di questo genere»⁹.

    A questa data dunque, e da poco tempo, le semplici lastre marmoree venivano abbellite da lapidi e tempietti. Un’incisione di Bartolomeo Pinelli, artista trasteverino e illustratore dei costumi del popolo romano, ci mette al corrente di un’usanza funebre diffusa a Roma a inizio Ottocento, ossia lo svolgimento notturno dei funerali e della tumulazione dei morti.

    A differenza di quanto ritenuto in passato, oggi sappiamo che non era una pratica legata al rispetto o al timore nei confronti dei cattolici, anzi, era piuttosto comune. Queste celebrazioni si tenevano nella zona più vicina alla piramide, come riportato dai nostri cronisti d’eccezione, fino al 1821, quando il segretario di Stato del papa, cardinale Ercole Consalvi, vietò ulteriori sepolture nella parte più antica del cimitero. Concesse però, a compensazione, un lotto di terra a essa adiacente, chiuso da un muro perimetrale: nacque il cosiddetto Nuovo Cimitero, delimitato sul lato opposto dalle Mura Aureliane. Ampliato due volte nel corso del xix secolo, assunse l’aspetto che vediamo nel 1894; quattro anni dopo, infine, fu costruita una cappella cimiteriale all’estremità occidentale dell’area, che vediamo ancora oggi. Nel 1910, la lungimiranza culturale del grande sindaco di Roma Ernesto Nathan (lo conosceremo meglio tra poco), sottopose il complesso a speciali salvaguardie e, nel 1918, fu proclamato zona monumentale d’interesse nazionale.

    Giovanni Battista Nolli, Nuova Topografia di Roma, quadranti 10 e 11/12, 1748.

    Lasciandoci impressionare dalla composizione di antropico e naturale che, come fosse un capriccio alla Pannini, ci accoglie sulla strada riassumendo in sé più di duemila anni di storia (Piramide Cestia, Porta Ostiense, Mura Aureliane e cimitero sette-ottocentesco), entriamo dall’ingresso di via Caio Cestio 6. Qui, attraversiamo un portale neogotico ottocentesco aperto entro una muratura in peperino, sul cui coronamento merlato è incisa la scritta resurrecturis, «a coloro che risorgeranno», visibile quando non ricoperta dalla cascata floreale. Prendiamo una mappa del sito al visitors’ centre (disponibile anche online) e dirigiamoci a sinistra verso il Cimitero Vecchio.

    La prima cosa che colpisce, oltre al verde delle piante e degli alti cipressi, alla quiete irreale e ai numerosissimi gatti che si aggirano tra le pietre e il prato, è la mole candida di una costruzione piramidale, già nominata più volte per la vicinanza al sito. Anche in questo caso si tratta di una sepoltura, singola però, ben più sontuosa e antica. Oggi, guardandola dall’interno del Cimitero Acattolico, essa ci appare inglobata nelle Mura Aureliane sul lato destro, ma questa inclusione avvenne circa trecento anni dopo la sua costruzione, permettendo tra l’altro che il monumento, realizzato tra il 18 e il 12 a.C., si conservasse pressoché integro fino a oggi. Esso, insieme a molti altri rinvenimenti, testimonia un frequente uso funerario dei terreni posti nella pianura testaccina e lungo le sponde del Tevere, giustificato dall’esclusione dell’area portuale – fino all’età claudia (41-54 d.C.) – dal perimetro del pomerio, ovvero lo spazio di terreno sacro e libero da costruzioni, che correva lungo le mura all’interno e all’esterno della città.

    La particolare forma si deve a quella moda egittizzante scoppiata a Roma dopo la battaglia di Azio (31 a.C.), quando l’Egitto, a seguito della sconfitta di Cleopatra e Marco Antonio per mano di Ottaviano, divenne provincia romana. Attualmente è l’unico superstite di una serie di monumenti analoghi presenti a Roma nel i secolo a.C. Si ritiene, ad esempio, che all’imbocco di via del Corso su piazza del Popolo, al posto delle cosiddette chiese gemelle, fossero presenti due piramidi; inoltre si dice che analogamente alla meta Remi, come veniva chiamata la Piramide Cestia, esistesse una meta Romuli situata nel rione Borgo, vicino alla basilica Vaticana, tra il circo di Nerone e il mausoleo di Adriano (Castel Sant’Angelo): così una credenza popolare immaginava i sepolcri dei fondatori della città.

    Le due iscrizioni gemelle poste sui lati orientale e occidentale della piramide ci informano sul committente e sulle sue cariche: Caio Cestio, cui il monumento è intitolato, fu pretore, tribuno della plebe e membro del collegio dei septemviri epulones, un antico istituto sacerdotale incaricato di occuparsi dei banchetti pubblici (epulae) e dei giochi rituali offerti in occasione di alcune festività religiose, originariamente nell’annuale della fondazione del tempio di Giove Capitolino.

    Si trattava dunque di un ricchissimo e influente uomo politico dell’entourage augusteo, tanto che, tra i beneficiari del testamento, è menzionato Marco Vipsanio Agrippa, genero dell’imperatore. Le disposizioni testamentarie di Caio Cestio sono in parte riportate sulla parete orientale, dove si legge: opus apsolutum ex testamento diebus cccxxx, / arbitratu / [l(uci)] ponti, p(ubli) f(ili), cla(udia tribu), melae heredis, et pothi l(iberti). L’opera fu dunque completata in 330 giorni: centinaia di maestranze specializzate furono assoldate per terminarla in fretta, dal momento che gli eredi avrebbero potuto disporre dei cospicui beni di Cestio solo in seguito alla chiusura della fabbrica nei termini stabiliti.

    La struttura, alta 36,40 metri e con una base quadrata di 29,50 metri di lato, è composta da un conglomerato cementizio, che ha permesso di ottenere un angolo molto più acuto delle piramidi egizie da cui deriva; sopra al calcestruzzo, una cortina di mattoni è a sua volta rivestita all’esterno da bellissime lastre di marmo di Carrara: è il cosiddetto marmo lunense, che prende il nome da Luna, la colonia fondata dai Romani ai piedi delle alpi Apuane e da cui veniva estratta la pietra, la stessa che 1500 anni dopo Michelangelo userà per le sue sculture. L’aspetto originario del monumento era diverso da quello che possiamo vedere oggi: la base, più in basso di quattro metri rispetto al piano stradale odierno, era circondata da una recinzione in tufo, aveva agli angoli quattro colonne scanalate su alti plinti (ne rimangono soltanto due) ed era decorata da due statue di bronzo dorato del defunto, sui cui basamenti, oggi conservati ai Musei Capitolini, compaiono le disposizioni testamentarie con il nome di Agrippa. Le sculture furono realizzate con il ricavato della vendita degli attalica, preziosi arazzi intessuti d’oro introdotti nell’uso funerario da Attalo iii, re di Pergamo, che Caio Cestio avrebbe voluto deposti nella propria tomba ma a cui dovette rinunciare a causa della promulgazione, nel 18 a.C., della Lex Iulia sumptuaria contro l’ostentazione del lusso nelle cerimonie pubbliche, comprese quelle funebri.

    L’assenza di suppellettili interne fu compensata dalla pregiata decorazione a fresco della piccola camera sepolcrale (accessibile soltanto con visita guidata e prenotazione obbligatoria), grande circa ventitré metri quadrati voltati a botte. Qui le pareti presentano uno schema decorativo a pannelli, separati da fasce verticali con candelabri, all’interno dei quali si distinguono su fondo chiaro figure femminili alternate a vasi lustrali (usati per i riti purificatori). Nella volta, agli angoli, quattro vittorie alate recano nelle mani una corona e un nastro; al centro invece, dove oggi è una grande lacuna, doveva probabilmente trovar posto un’apoteosi del defunto. È, questa, una delle prime attestazioni a Roma della pittura in terzo stile pompeiano.

    I segni delle picconate di deprecabili ricercatori di tesori ci ricordano che già nel Medioevo si verificò la prima violazione della cella funeraria, murata alla sepoltura come da usanza egizia: i tombaroli penetrarono attraverso un cunicolo scavato sul lato settentrionale e asportarono l’urna cineraria e notevoli porzioni della decorazione.

    Nonostante la chiarezza delle iscrizioni non fraintendibili, la Piramide di Caio Cestio rimase per secoli un oggetto misterioso. Come indicato sulla parete ovest, la sua destinazione d’uso si chiarì nel 1659, quando papa Alessandro vii Chigi stanziò cinquemila scudi per il restauro del monumento, completato nel 1663: atto salvifico, contrapposto al degrado precedente, che tuttavia tramutò il significato simbolico del rudere da pagano a cristiano. Ne abbiamo conferma nella lettera che Fioravante Martinelli, antiquario romano, scrisse allo stesso papa: «Beatissimo Padre. Per eternare la Piramide di Cestio, che fu uno dei Prefetti della scalcarìa de dei Gentili, par non vi sia rimedio più sicuro che ridurla al culto della nostra religione: poiché all’hora sarà sicura da quelli che sotto pretesto di abominare il gentilismo, et adocchiando il valore della materia, distruggono le più nobil antichità di Roma»¹⁰. A queste parole l’erudito aggiunse l’eclatante proposta di convertire la Piramide Cestia in un sacello dedicato agli apostoli Pietro e Paolo, il cui progetto sarebbe stato affidato all’amico Francesco Borromini; il famoso architetto ne schizzò dei disegni ma la trasformazione cristiana non fu mai messa in atto. Il restauro di Alessandro vii si limitò dunque a scavare il terreno intorno alla piramide, per riportarla al livello originario, e a realizzare sul lato occidentale un’apertura che servisse da ingresso alla camera sepolcrale. Probabilmente è attraverso questa bassa porta che nel 1775 il marchese De Sade, dopo la visita al Cimitero Acattolico, riuscì a penetrare nella cella interna, decorata da quei dipinti di cui già non si vedeva quasi più nulla. Dalla nostra postazione all’interno del cimitero possiamo vedere facilmente questa porticina e avere un’idea più precisa di come doveva apparire in origine il sepolcro, con il piano pavimentale primitivo, le due colonne angolari rimaste, il recinto perimetrale in tufo e, verso destra ai piedi di un cancello aperto nelle Mura Aureliane, un tratto selciato dell’antica via Ostiensis.

    Molto più tardi, nel 1929, durante i lavori che dovevano riportare ulteriormente alla luce la base della piramide, fu ritrovata una lastra di piombo incisa a forma di scudo che costituisce, a oggi, la sepoltura più antica di cui rimangono tracce all’interno del Cimitero Acattolico. Dall’iscrizione latina sappiamo che il defunto era George Langton, un nobile inglese di circa venticinque anni, morto a Roma il 1° agosto 1738. Sappiamo inoltre che il giovane, un laureato di Oxford, era in Italia insieme a tre amici per compiere il Grand tour, di cui stava redigendo un diario, e che morì probabilmente dopo una caduta da cavallo. Marcello Piermattei, direttore del cimitero al tempo del ritrovamento, fece trasferire i resti in una cassa di travertino visibile dando le spalle alla Piramide Cestia nella zona antica; su di essa, un’iscrizione inglese ricorda anche Emma, moglie di Langton.

    Nell’estremo angolo del parco si trova la tomba di un inglese ben più celebre, il poeta romantico John Keats (1795-1821). Morì di tubercolosi giovanissimo, in una stanza al numero 26 di piazza di Spagna, nel palazzetto a destra della scalinata, dove oggi si trova la Keats-Shelley House, una casa-museo dedicata ai due grandi poeti. L’iscrizione sulla tomba terragna, accanto a quella dell’amico pittore Joseph Severn, non riporta il nome del defunto e recita (in traduzione italiana): «Questa tomba contiene i resti mortali di un giovane poeta inglese che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua». Un’interpretazione suggestiva quanto fantasiosa di questi versi sibillini li collega agli ultimi giorni di vita di Keats, trascorsi ascoltando il lento scrosciare dell’acqua della Fontana della Barcaccia, che forse alleviò almeno in parte il suo dolore. Gli amici conterranei dello scrittore risposero al suo ultimo verso con una lastra posta nel muro alla sinistra della tomba (ancora qui in traduzione): «Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull’acqua, ogni sua goccia è caduta dal volto di chi ti piange […]».

    Lasciamo adesso la parte antica e, costeggiando le Mura Aureliane, dirigiamoci verso il monumento simbolo del cimitero, l’Angelo del dolore. Questo marmo neoclassico fu scolpito da William Wetmore Story (1819-1895), tra i più importanti scultori americani che nell’Ottocento risiedevano a Roma, come monumento funebre per la moglie Emelyn. Come da miglior tradizione romantica, appena un anno dopo la realizzazione della statua morì anche lui e venne qui sepolto.

    Molto vicino, a ridosso delle mura, ci aspetta il sepolcro dell’altro famoso poeta inglese già citato, Percy Bysshe Shelley (1792-1822), morto appena un anno dopo l’amico Keats, cui fece in tempo a dedicare l’elegia Adonais. Un’elegia sulla morte di John Keats. Morì com’era vissuto, in modo rocambolesco, annegando ad appena ventinove anni al largo della costa toscana l’8 luglio 1822, sulla sua goletta chiamata Ariel; sepolto nella vicina spiaggia, fu poi riesumato e cremato per essere qui trasferito il 21 gennaio 1823. Su desiderio della moglie Mary Shelley, l’autrice del celebre romanzo Frankenstein, l’epigrafe sulla lapide riporta l’iscrizione cor cordium, seguita dalle date di nascita e di morte e, più sotto, alcuni versi del canto di Ariel da La tempesta di Shakespeare che tradotti suonano: «Niente di lui si dissolve / ma subisce una metamorfosi marina / in qualche cosa di ricco e di strano». Si narra che il cuore di Shelley fosse stato estratto intatto dal corpo e, dopo essere stato incenerito, fosse stato posto in un sacchettino di seta e consegnato a Mary Shelley che lo conservò fino alla propria morte in un cassetto della scrivania del defunto marito, insieme a una copia del poema Adonais. George Eliot, trovandosi nel cimitero più affascinante che avesse mai visto, definì la tomba di Shelley «un posto che mi ha toccato profondamente […] uno dei posti più silenziosi della vecchia Roma […] [dove] all’ombra delle vecchie mura da un lato, e dei cipressi dall’altro, giace il Cor Cordium»¹¹, «il cuor de’ cuori» cui anche il nostro Giosuè Carducci nel 1884 dedicherà l’ode Presso l’urna di Percy Bysshe Shelley. La lunghezza del testo suggerisce di non riportarla qui per intero, come di solito ci piace fare; tuttavia, forse vale la pena di leggere almeno gli ultimi, struggenti distici:

    Ah, ma non ivi alcuno de’ novi poeti mai surse,

    se non tu forse, Shelley, spirito di titano,

    entro virginee forme: dal divo complesso di Teti

    Sofocle a volo tolse te fra gli eroici cori.

    O cuor de’ cuori, sopra quest’urna che freddo ti chiude

    odora e tepe e brilla la primavera in fiore.

    O cuor de’ cuori, il sole divino padre ti avvolge

    de’ suoi raggianti amori, povero muto cuore.

    Fremono freschi i pini per l’aura grande di Roma:

    tu dove sei, poeta del liberato mondo?

    Tu dove sei? m’ascolti? Lo sguardo mio umido fugge

    oltre l’aurelïana cerchia su’l mesto piano.¹²

    Proseguendo lungo il limite delle mura s’incontra la tomba di August Goethe. Il più celebre padre, Wolfgang, durante il suo Viaggio in Italia, frequentò il cimitero, amandone molto l’atmosfera; il suo amico barone Gyldenstubbe scriveva:

    Quando la prima volta venni a Roma feci la conoscenza di Goethe [...] Una sera scendemmo assieme dal Monte Testaccio e ci fermammo presso la piramide di Cestio, nel cimitero dove già allora venivano seppelliti gli stranieri protestanti. Goethe era alla vigilia della partenza; egli era estremamente commosso e non poteva adattarsi all’idea di dover lasciare Roma per tornare in Germania. Oh! – esclamò – come sarebbe bello giacere qui morto, infinitamente più bello che vivere in Germania.¹³

    Proprio nel paese natale, invece, Goethe troverà sepoltura, mentre August, l’unico dei suoi cinque figli a raggiungere l’età adulta, morirà a Roma durante il Grand tour e sarà qui sepolto. Lo scrittore e poeta tedesco dalla sua Germania commissionò una tomba con la semplice scritta goethe filius e lo scultore danese Bertel Thorvaldsen, da anni residente in Italia, si offrì personalmente di realizzare un medaglione-ritratto in marmo di gusto neoclassico, servendosi di un calco mortuario e di un disegno. Nel 1961 esso è stato sostituito con una copia di bronzo, per evitare l’eccessivo deterioramento; l’originale è stato inviato alla sede dell’ambasciata tedesca a Roma, dov’è tuttora visibile al pubblico in un patio esterno coperto.

    Continuando nel nostro percorso, scendendo verso l’ingresso, tra le tombe più appariscenti una sorta di tempietto, recante sul timpano la scritta andersen, ospita i resti dello scultore norvegese Hendrik Christian Andersen (1872-1940), che progettò il sepolcro per sé e per i suoi familiari (madre, fratello, cognata e sorella adottiva). Trasferitosi definitivamente a Roma nel 1896, visse vicino a piazzale Flaminio, in via Pasquale Stanislao Mancini 20, in una casa-studio pregevole esempio di Liberty nonché attuale museo delle sue opere.

    Tra gli italiani qui sepolti vogliamo ricordare almeno gli scrittori Carlo Emilio Gadda (1893-1973) e Andrea Camilleri (1925-2019), famosi per la loro ricerca linguistica, e naturalmente Antonio Gramsci (1891-1937). La sua tomba posta all’estremità orientale è, insieme a quelle di Keats e Shelley, la più visitata del cimitero. Sul retro della lapide compare il nome Schucht, famiglia cui appartenevano la moglie Giulia e la sorella di lei, Tatiana. Nel 1937, alcuni mesi dopo la morte di Gramsci e la sua cremazione nel cimitero del Verano, Tatiana, in quanto cittadina sovietica e non cattolica, richiese un lotto per una tomba di famiglia nel Cimitero Acattolico. Le due sorelle, titolari della concessione, chiesero l’autorizzazione a trasferire nella nuova tomba anche

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