Ti odio, perché ti amo: Harmony Jolly
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Il segreto di Larkville 3/8
Una lettera segreta e il destino di due famiglie milionarie, molto distanti tra loro, cambierà per sempre.
Jack Connor destesta le donne, soprattutto quelle bionde, carine e che lo vorrebbero sempre disponibile verso il prossimo. Quindi l'affascinante Alexandra Patterson, veterinaria di New York City, non fa eccezione. Ma perché diavolo è finita lì in Australia nella sua proprietà? Lui se la può cavare benissimo da solo con i suoi cavalli. Le donne, nella sua vita, sono semplicemente un optional.
E lei che pensava che avrebbe trovato il posto ideale dove poter lavorare a stretto contatto con i suoi amati cavalli! Alex non capisce da dove sia partito il malinteso. Ma ormai è lì e non intende tornare indietro. Jack è indiscutibilmente un uomo da urlo, ma la sua antipatia supera di gran lunga la sua avvenenza. O forse no!
Marion Lennox
Marion Lennox is a country girl, born on an Australian dairy farm. She moved on, because the cows just weren't interested in her stories! Married to a `very special doctor', she has also written under the name Trisha David. She’s now stepped back from her `other’ career teaching statistics. Finally, she’s figured what's important and discovered the joys of baths, romance and chocolate. Preferably all at the same time! Marion is an international award winning author.
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Anteprima del libro
Ti odio, perché ti amo - Marion Lennox
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Taming the Brooding Cattleman
Mills & Boon Modern Continuity
© 2012 Harlequin Books S.A.
Traduzione di Daniela Alidori
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2013 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5898-437-6
Prologo
Aveva fallito.
Jack Connor era in piedi davanti alla tomba di sua sorella e si rendeva conto di come avesse rotto la promessa che aveva fatto a sua madre.
Prenditi cura di tua sorella.
Aveva otto anni quando sua madre se n’era andata. Sophie ne aveva sei.
Quella che era seguita era stata un’adolescenza difficile, piena di lavoro a scuola, di dure richieste di suo nonno per la fattoria e di sua sorella tra un impegno e l’altro. Alla fine era fuggito alla tirannia del nonno e aveva creato una società dal nulla. Non aveva avuto scelta, aveva un disperato bisogno di fondi per pagare le cure per Sophie.
Non aveva funzionato. Anche se aveva guadagnato tanto, le terapie erano arrivate tardi e aveva assistito impotente alla morte di Sophie.
L’assistente sociale era venuta al funerale e guardando il suo viso triste aveva cercato di confortarlo.
«Non è stata colpa tua, Jack. Tua madre ha segnato a morte tua sorella quando se n’è andata, ma la responsabilità finale è stata di Sophie.»
Ma lui fissava la tomba convinto di non averla aiutata abbastanza.
E adesso?
Tornare a Sydney, al suo lavoro?
Fissò le rose imbevute di pioggia che aveva deposto sulla lapide di sua sorella e un ricordo gli attraversò la mente. Sophie alla fattoria, in una delle occasioni in cui il nonno era stato così ubriaco che non avevano avuto paura di lui. Sophie nel roseto della nonna. Sophie che premeva i boccioli tra le pagine dei libri di storia. Così si conserveranno per sempre.
Di colpo si ritrovò a pensare ai cavalli che non vedeva da anni. I cavalli del nonno, i suoi amici dell’infanzia. Non chiedevano niente, se non cibo, un tetto e un po’ di moto. Quando era in loro compagnia, era stato quasi felice.
La fattoria era sua, adesso. Il nonno era morto un anno prima, ma a causa della malattia di Sophie, non aveva avuto tempo di recarsi là. Probabilmente era in rovina. La telefonata che aveva scambiato con il legale gli aveva fatto intuire che il fattore designato dal nonno doveva essere stato disonesto. Per fortuna, la razza dei cavalli che si allevavano lì era rimasta intatta, e di conseguenza anche l’ottima reputazione di cui godeva in tutto il paese.
Sarebbe riuscito a riportarla agli antichi splendori?
Era tempo di prendere una decisione.
Guardò ancora la pietra tombale sferzata dalla pioggia, i pensieri scuri come la morte.
No, lui non voleva tornare a Sydney, a un gruppo che lo trattava con remota cortesia.
La compagnia sarebbe andata avanti anche senza di lui.
Cosa, allora?
Non gli restava che la fattoria. Ma, ne sapeva abbastanza di cavalli?
Aveva importanza? Forse no.
Decisione presa.
1
Alex Patterson era tormentata dai dubbi.
Sulla carta, il viaggio era sembrato okay. Da Manhattan a L.A. Da L.A. a Sydney. Sydney Albury. Albury Werarra.
Be’, sì, forse non era sembrato proprio okay, ma l’aveva letto in fretta e non ci aveva riflettuto tanto. Era già stanca quando era atterrata a Sydney. Adesso, dopo tre ore di guida sotto una pioggia battente, era distrutta. Voleva solo un bagno caldo e un sonno ristoratore.
Sicuramente Jack Connor non si aspettava che cominciasse a lavorare prima di lunedì, si disse. Ma dove diavolo era quel posto?
Il bambino che aveva incontrato per strada le aveva indicato che era appena dietro la curva. Il ragazzino era magro, denutrito, indigente, e guardandolo i suoi dubbi erano aumentati. Si era aspettata una zona ricca e ben tenuta, l’allevamento dei cavalli di razza fruttava parecchio denaro.
Poteva solo sperare che Werarra Stud fosse meglio. Sicuramente lo era. I suoi cavalli erano famosi nel mondo e il sito web mostrava una fattoria elegante, nel cuore delle Snowy Mountains, in Australia. Si era immaginata stanze enormi, bei mobili, un lavoro da far invidia alle sue amiche.
Vide il cartello con la scritta Werarra. Svoltò nel sentiero... e frenò bruscamente.
Uh-oh.
Quella fu la sola cosa che riuscì a pensare. Uh-oh, uh-oh, uh-oh.
La foto che aveva visto sul sito, una costruzione che risaliva al secolo precedente, non corrispondeva alla realtà.
I muri erano scrostati. Il tetto colava acqua ovunque. Le colonne della veranda cedevano e le imposte rotte erano chiuse con assi di legno.
Aveva un’aria assolutamente abbandonata.
C’era una luce accesa da qualche parte sul retro. Un SUV nero era parcheggiato sul lato. Non c’era altro segno di vita.
Stava diluviando. Alex era così stanca che non riusciva neppure a vedere dritto. La città più vicina, Wombat Siding, distava una quarantina di chilometri e non era neppure sicura che ci fosse un albergo.
Fissò la casa con orrore, poi lasciò cadere la testa sul volante.
Non avrebbe pianto.
Un colpo al finestrino dalla parte del guidatore la fece sussultare. E il cuore le balzò in gola.
Oh, santo cielo...
Doveva recuperare il controllo. Subito.
Puoi farcela, Alex Patterson, si disse. Hai detto a casa che sei forte, dimostralo. Non sei la ragazzina viziata che tutti pensano.
Ma quello era... era...
Un altro colpo. Alzò la testa e guardò fuori.
La figura torreggiava minacciosa sull’auto come un enorme spettro nero che bloccava la visuale.
Lanciò un urlo. Forse farfugliò anche qualcosa.
Poi la figura si mosse un po’, lasciando entrare un filo di luce dal finestrino e lei tornò sulla terra.
Un uomo. Grosso, massiccio. Indossava un immenso impermeabile nero e degli stivali altrettanto giganteschi.
Il viso era scuro, i capelli folti e neri erano appiccicati sulla fronte per la pioggia. Aveva la pelle rugosa, un accenno di barba così trascurato da sembrare barba vera, e occhi intensi dall’aria tenebrosa.
Stava aspettando che lei aprisse la portiera.
Se l’avesse aperta, si sarebbe bagnata, rifletté Alex. E soprattutto, avrebbe dovuto affrontare quello che c’era fuori.
La aprì lui, con una forza che le strappò un mugolio. La pioggia la investì e lei si fece piccola.
«Si è persa?» La voce del tizio era roca, ma non scortese. «Ha bisogno di indicazioni?»
Se solo fosse così, pensò Alex. Se solo...
«Signor Connor?» azzardò cercando di non incespicare sulle parole. «Jack Connor?»
«Sì?» C’era stupore nella sua voce, come se stentasse a credere alle proprie orecchie.
«Sono Alex Patterson» si presentò. «Il suo nuovo veterinario.»
C’erano stati parecchi silenzi nella vita di Alex. I silenzi di quando sua madre la disapprovava, e accadeva spesso, i silenzi dopo le discussioni tra suo padre e suo fratello. Era cresciuta coi silenzi, ma non significava che si fosse abituata.
Era venuta fin lì in Australia per scappare da quei silenzi, e invece doveva affrontarne un altro.
Quando lui, finalmente, si decise a parlare, la sua voce era calma, anche se gelida come il ghiaccio.
«Alexander Patterson.»
«Sì.» Non suonare sulla difensiva, si disse. Qual era il problema?
«Alex Patterson, figlio di Cedric Patterson. Cedric, il tizio che andava a scuola con mio nonno.»
Adesso fu lei che si chiuse in un silenzio.
Figlio di...
Okay, ecco qual era il problema.
Si era fidata di suo padre.
Ripensò alle parole di sua madre: Alex, tuo padre è malato. Devi controllare tutto due volte...
Stai esagerando. Papà sta bene. L’aveva gridato a sua madre, ma anche mentre lo urlava, sapeva che stava negando la realtà. L’Alzheimer era un enorme buco nero che piano piano aveva risucchiato suo padre, anche se lei rifiutava di ammetterlo.
Si era fidata di suo padre.
E comunque, qual era il problema? Uomo, donna. Che importanza aveva? Era lì come veterinaria. «Ha pensato che fossi un maschio?» riuscì a dire e guardò il viso di fronte a lei che diventava sempre più scuro.
«Mi è stato detto così. Suo figlio.»
«Tipico di mio padre» ribatté lei tentando di alleggerire il tono. «Sperava in un figlio maschio, ma credevo che dopo venticinque anni si fosse ormai accorto della differenza.» Un profondo respiro. «Pensa di invitarmi a entrare o qualcosa di simile? Anche se il fatto che io sia femmina sembra essere un problema, piove a dirotto e io non ho un impermeabile.»
«Non può rimanere qui.»
Che quel malinteso fosse o no colpa di suo padre, era una situazione che doveva affrontare e prima lo avesse fatto meglio sarebbe stato.
«Bene, forse avrebbe dovuto dirmelo prima che lasciassi New York» sbottò sempre più innervosita e scivolò fuori dall’auto. «Adesso non ho scelta.» Di’ come stanno le cose. «Ho affrontato un lungo viaggio che è iniziato a New York» cominciò in un tono gelido almeno quanto quello di quel tizio. «Mi ci sono voluti tre giorni per arrivare in questo posto sperduto. Ho fatto richiesta per un lavoro qui, in buona fede. Ho mandato tutta la documentazione necessaria e ho accettato un visto di sei mesi per occuparmi di cavalli che non so...» lanciò un’occhiata sprezzante alla casa, «... se esistono. E adesso ha l’impudenza di dirmi che non mi vuole. Anch’io non la voglio, ma temo di essere bloccata qui, in questa squallida topaia, almeno finché non smette di piovere e non avrò mangiato e dormito, poiché non metto qualcosa sotto i denti da ventiquattro ore. Poi, mi creda, non mi vedrà più. Adesso mi faccia entrare in casa, mi mostri la cucina e la camera ed esca