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Il Medioevo giorno per giorno
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E-book605 pagine15 ore

Il Medioevo giorno per giorno

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Info su questo ebook

Religione, cultura e società: ecco com’era la vita quotidiana nei secoli bui

Un panorama vario e intrigante, costellato di particolari inconsueti per esplorare l’età medievale attraverso un’insolita prospettiva

A partire dalla seconda metà del Novecento, la storia quotidiana del Medioevo è diventata punto di riferimento per indagini sul modo di vivere, di vestire, di viaggiare, di lavorare, di divertirsi, di abitare, di lavorare, di morire.
In questo volume, Ludovico Gatto fornisce un racconto complessivo di tutto ciò, componendo un affresco in cui sono rappresentati i caratteri del paesaggio agricolo e urbano, il mondo dei giovani, degli uomini, delle donne, degli anziani, visti quando si divertono, quando sono al potere o quando si abbandonano alla disperazione, quando cucinano, mangiano o amano. Il panorama che ne risulta è vario e intrigante e costellato di particolari inconsueti che si rivelano utili per chi voglia esplorare l’età medievale muovendosi da una prospettiva inusitata.

Un affresco inedito e intrigante degli usi e dei costumi dell’uomo medioevale

In questo libro:

• fasi e cicli della vita
• Le strade, i viaggiatori e i momenti del viaggio
• La città: edifici pubblici e privati; residenze monastiche
• La famiglia
• Religione e senso dell’occulto: clero regolare e clero secolare
• La giustizia: giudici e leggi, detenzioni e tormenti
• Vita e condizione femminili
• Vita di relazione e contatti sociali. Divertimenti e feste
• Alimentazione e cucina
• La situazione sanitaria
Ludovico Gatto
professore emerito di Storia medievale presso la facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Roma la Sapienza, è autore, fra l’altro, di L’atelier del medievista, Viaggio intorno al concetto di Medioevo. Con la Newton Compton ha pubblicato: La grande storia del Medioevo, Le grandi donne del Medioevo, Storia di Roma nel Medioevo, Gli imperi del Medioevo e Il Medioevo giorno per giorno.
LinguaItaliano
Data di uscita16 giu 2016
ISBN9788854196568
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    Anteprima del libro

    Il Medioevo giorno per giorno - Ludovico Gatto

    I. Il tempo e lo spazio. Fasi e cicli della vita

    Le stagioni scandiscono con il loro ritmo regolare il passare del tempo segnato dal trascorrere dei giorni e delle notti, dal suono delle campane delle chiese vicine.¹ Giacché allora gli edifici liturgici nelle loro diverse parti, segnatamente nelle torri campanarie, assumono un ruolo così importante nella vita dell’età di mezzo, gioverà subito chiederci quante siano le chiese e quanti i campanili: in proposito diremo che con il XIII-XIV secolo l’Occidente cristiano, dall’Atlantico al Danubio, dal Baltico al Mediterraneo, si è arricchito di villaggi e città cinti di mura e fossati.

    Su una superficie di due milioni e mezzo di kmq le chiese sono in numero davvero elevato – circa 130 mila – accompagnate da altrettanti campanili; inoltre, per strano che possa sembrare, è stato calcolato che in quel tempo sarebbe bastato salire su una delle tante torri campanarie esistenti per poterne scorgere almeno altre cinque o sei, da essa poco lontane.

    Nel Duecento e nel Trecento il campanile diventa un elemento unificante, atto a simbolizzare spiritualmente e socialmente il nostro continente e la sua civiltà, da nord a sud, dalla Norvegia a Malta, un elemento che accompagna l’alternarsi delle stagioni della vita e dell’anno, il trascorrere del tempo, la durata dei regni o dei pontificati computati seppure in modo difforme da regno a regno e da città a città.

    Di solito il nuovo anno si fa partire dal 25 dicembre, il giorno di Natale o della Natività, ma non è raro che si scelga come inizio il 25 marzo, giorno ritenuto quello del probabile concepimento di Cristo, ovvero della sua incarnazione. In questi casi subentra un’altra complicazione nel calendario: c’è chi anticipa l’anno nuovo di nove mesi, come a Pisa; c’è invece chi lo fa ritardare di tre come a Firenze. A Pisa, per proporre un esempio, il 2002 comincerebbe il 25 marzo del 2001, a Firenze invece il 25 marzo del 2003.

    Con l’alto Medioevo si abbandona il vecchio calendario romano che divideva il mese in tre parti, scandite dalle calende (il primo) dalle none (il 5 o il 7) e dalle idi (il 13 o il 15). Tuttavia rimane presso la curia pontificia l’abitudine di computare i primi quindici giorni del mese, contando alla rovescia i restanti. Ci si accorgerà poi di quanto sia più semplice calcolare il mese in un’unica soluzione dal primo all’ultimo giorno. I nomi dei mesi restano quelli antichi, mentre i giorni della settimana, dall’età tardoantica in poi, si indicano come feria prima, feria secunda... sino alla domenica, dies dominica, riservata al culto divino.²

    La vita giornaliera, secondo la vecchia abitudine romana, è suddivisa in due cicli, quello fra l’alba e il tramonto e poi quello della notte. Il tempo riservato al lavoro e quello riservato al riposo variano con il variare delle stagioni e l’allungarsi e l’accorciarsi delle ore di luce: il primo, più lungo d’estate e più corto d’inverno, il secondo al contrario raccorciato durante la buona stagione e prolungato nel periodo freddo.

    L’usanza ecclesiastica raccoglie in gruppi di tre le ore, al trascorrere delle quali suonano le campane delle chiese e dei monasteri, in taluni casi regolandosi sull’uso delle clessidre, orologi a sole e ad acqua o sullo struggersi di una grossa candela di determinate proporzioni, si calcola con approssimazione l’ora che passa determinando così il momento in cui devono dire, utilizzando gli appositi libri d’ore, determinate preghiere secondo i diversi periodi dell’anno liturgico. Quest’ultimo coincide con l’alternarsi delle stagioni: inverno = Natale, primavera = Pasqua, estate = Pentecoste. Ma se per la natività la data è fissa – 25 dicembre – altre feste oscillano: la Pasqua, per esempio, dipende come oggi dai pleniluni e trascina nella sua variabilità la Quaresima che la precede e la Pentecoste che la segue. Tutto ciò rafforza un’immagine prettamente religiosa del tempo.

    Ma torniamo alle ore: quando si leva il sole suona la prima, alle nove la terza, a mezzogiorno la sesta. A metà pomeriggio si pone la nona e al calar del sole il vespro; tra quest’ultimo e mezzanotte suona compieta. Tra mezzanotte e l’una i religiosi regolari si levano per recitare il mattutino, qualche ora dopo le laudi e poi si svolgono le varie funzioni quotidiane.

    Solo con il Trecento e la più ampia diffusione degli orologi meccanici le ore saranno tutte di pari durata e giorno e notte anch’essi avranno eguale lunghezza salvo le variazioni stagionali. In campagna comunque il sorgere e il tramontare del sole rimarranno momenti spartiacque della giornata.

    Il lavoro s’inizia con le prime luci del giorno e termina a terza, interrotto dal pasto più importante della giornata, definito desinare ovvero momento della sospensione della normale attività lavorativa. Il pasto della sera dopo il vespro è più leggero e non è raro trascurarlo, specie per i più giovani, che fra terza e nona abbiano consumato la merenda. A questi uffici si adeguano gli orari e naturalmente anche le faccende di casa.

    Così come c’è un tempo per il lavoro, per il riposo e la preghiera, v’è anche il tempo della vita, considerato quasi un tutt’uno con quello della morte. Nessuno infatti sa quanto possa durare in media l’esistenza, non essendoci né stato civile, né atti di nascita o di morte.

    Del tutto ignoto resta il dato sulla natalità e la mortalità. Ma certo la longevità è dono raro e pervenire alla vecchiaia non è facile.³

    Giunge infine la morte, temuta per il grande mistero che cela e per il successivo incontro con l’eterno, considerata generalmente la porta del paradiso o dell’inferno. Quando si appressa il trapasso, tutti cercheranno di presentarsi al Signore casti, miti, onesti e giusti e chi teme di non essere in possesso di simili requisiti non è raro che pensi, all’ultimo momento, di farsi monaco.

    Il filosofo Anselmo di Canterbury, uno dei pensatori più limpidi dell’XI secolo, scrive in proposito alla contessa Matilde di Toscana, l’amica e alleata di Gregorio VII: «Se senti la morte imminente, dedicati completamente a Dio prima di morire e di lasciare la presente vita e abbi perciò in segreto sempre pronto un velo accanto a te». Non pochi feudatari o uomini d’arme peccatori ben più incalliti della integra nobildonna di Canossa, fiancheggiatrice del papa e, per quanto si sa, di specchiati costumi – nonostante i pettegolezzi di parte imperiale che la vogliono amante segretamente riamata da Gregorio VII – si faranno pertanto monaci prima del decesso. Il che è un modo tutto particolare e anche inconsueto di affrontare l’avvio all’eternità.

    Se il concetto di tempo nel Medioevo è poco chiaro, ancor più generico appare quello di spazio. Inconcepibile è lo spazio illimitato degli astronomi. L’universo è indicato come una sfera piena. Così lo rappresenterà intorno al 980 Gerberto d’Aurillac, futuro Silvestro II, che pone la terra al centro di una sequela di tubi concentrici, secondo un’ipotesi non dissimile da quella in vigore sino al 1543, anno con cui si data la famosa rivoluzione copernicana con le rivoluzioni delle orbite celesti.

    Con ciò si deve rilevare che durante la media aetas, la concezione di sfericità della terra, conquista del pensiero scientifico e filosofico greco, non è venuta meno anche se non trova pratica applicazione e non desta alcuna curiosità nei geografi che rappresentano il mondo con un disco tripartito diviso da una T.

    Il semicerchio contornato dall’asta orizzontale indica l’Asia, i due quarti del cerchio l’Europa a sinistra e l’Africa a destra. Il tratto verticale corrisponde al Mediterraneo, la barra il Don e il Nilo. Al centro perfetto si trova Gerusalemme. Isidoro di Siviglia e Beda sono dello stesso parere. Nell’ambito di tale inquadramento si succedono credenze particolari: si identifica ad esempio la Francia come un perfetto quadrato; così si è convinti che nell’843 con il Trattato di Verdun si siano suddivisi equamente fra Franchi, Germanici e Lotaringia, monti, boschi, fiumi, terre arabili e vigneti, il tutto senza la consultazione di carte del territorio allora completamente assenti.

    Durante questo periodo una pala d’altare dipinta per il monastero di Ebstorf rappresenta la terra tutta colorata, di altezza doppia di un uomo e di un diametro maggiore a tre metri e mezzo. Tale importante testimonianza andò distrutta durante l’ultima guerra mondiale, ma la sua concezione riflette l’idea di Gervasio di Tilbury molto vicino all’imperatore. Sulla sfericità della terra abbondarono le discussioni ed essa venne spesso raffigurata come un disco rotondo e piatto, circondato dalle acque. Di sovente il nostro pianeta si identificò in Cristo e da lui venne sostenuto. La terra, quindi, apparve come il corpo dello stesso Cristo posto al suo centro, con lo sguardo rivolto a settentrione. Cristo risorto fu poi collocato al centro di una cinta di mura quadrangolari munite di 12 torri con il cielo azzurro risplendente alle sue spalle, simboleggiante Gerusalemme. Infatti già dal IV secolo con Girolamo tale città fu vista come ombelico della terra e suo centro perfetto e, dal XII secolo, dopo la conquista della città santa, quest’idea venne tradotta nelle carte geografiche.

    Del tutto singolare è la concezione dello spazio quale si riflette nella navigatio sancti Brendani che non può considerarsi del tutto fantastica. Vi si narra infatti che il santo approdò su un’isola ove vennero verso di lui numerosi monaci, che vivevano separati in diverse celle, ma collegati da una stessa esistenza. Brendano esplora l’isola che viene detta terra promessa dei santi, data da Dio ai monaci e ai loro successori fino alla fine dei tempi. Brendano, giunto in quella terra, viene abbagliato da una luce straordinaria e vaga per 15 giorni senza trovarne la fine: i prati sono pieni di fiori e gli alberi carichi di frutti. All’improvviso un uomo rilucente di chiarore, si rivelò al monaco e disse: «Il Signore ti ha regalato questa terra che darà ai suoi santi. Oltre però, non ti è concesso di andare. Torna quindi donde sei venuto». Quella terra, prosegue Brendano, al ritorno dallo straordinario viaggio, è il paradiso di Dio, è la terra promessa e da allora la nostalgia del paradiso dominerà l’esistenza del santo monaco.

    La leggenda ora rappresentata non può definirsi invero frutto della fantasia morbosa di qualche religioso; nel Medioevo fu largamente diffusa, tanto che ne rimasero più di 120 manoscritti e fu presa ad esempio da numerosi navigatori in procinto di organizzare spedizioni nei mari e persino Colombo la consultò quando già era approdato nelle cosiddette Indie occidentali.

    Dante stesso la tenne presente nel descrivere il suo viaggio attraverso l’inferno, il purgatorio e il paradiso. Ma l’interesse della leggenda sta soprattutto nel modo con cui simboleggia la concezione spaziale del tutto vaga dell’età di mezzo, una concezione che fino al XIV secolo rappresentò la realtà territoriale in base a convincimenti fondati sulla consuetudine o sulla lingua, improbabili questi ultimi, mentre non figura l’uso di carte o piante.

    Anche lo spostamento da un punto all’altro di una provincia o di zone tra loro assai lontane è compiuto senza che vi siano indicazioni di alcun tipo; almeno sino al XII secolo non si dispone della bussola, non si conoscono le distanze o le strade da seguire, né sono consigliati orientamenti e percorsi. Se c’è una strada, in particolare una vecchia strada romana (specialmente in Italia, meno in Francia e in Inghilterra ove il patrimonio viario romano nel corso del i millennio d.C. andrà dissolvendosi, date le cattive condizioni atmosferiche e l’assenza di manutenzione), si percorre quella. In mancanza di meglio anche un sentiero o una mulattiera divengono un sostegno al quale ci si aggrappa con convinzione.

    Quando ci si imbatte in un fiume ci si può considerare fortunati; lo si segue infatti lungo la riva o, se si può, lo si percorre su barche o chiatte fino a che esso è navigabile.⁶ I boschi invece vanno accuratamente evitati in quanto ritenuti pericolosi per coloro che li abitano e i misteri che potrebbero racchiudere, quindi i viaggiatori ne compiono il periplo, incuranti del tempo che in conseguenza di ciò si perde e le ulteriori avventure che, a causa del mutamento di direzione, possono verificarsi. Quel che importa è proseguire tale attività, avviandosi lungo i percorsi disponibili, utilizzati dai viaggiatori laici ed ecclesiastici per completare la conoscenza del nostro continente.⁷

    Tutto ciò spiega come la concezione dello spazio abbia allora valore assai relativo e quindi come gli spostamenti siano molto difficoltosi.

    Fra gli altri lo saranno in misura particolare quelli legati alla crociata. Specie agli inizi quanti volonterosamente partecipano al passagium ultra mare, non hanno nessuna idea dello spazio da percorrere per arrivare dalle loro residenze occidentali a Gerusalemme.

    Anzi, solo alcuni intendono puntare direttamente su quella città, anche in considerazione del fatto che essa si trova, come ricordato, al centro della terra e quindi teoricamente facile a raggiungersi; altri, più genericamente, poiché privi di ogni cognizione geografica in un mondo in cui la geografia tutto può dirsi meno che una scienza esatta, se mai ve ne siano, si contentano di spingersi in direzione della Terra Santa. Del tutto ignoti poi il percorso da coprire, l’orientamento da seguire, le terre e le città attraverso cui si dovrà passare, quasi nessuno conosce la distanza complessiva da percorrere.

    Così nella più generale confusione le orde di avventurieri guidate da Pietro l’Eremita che ancora non possono dirsi neppure crucesignati ossia crociati, si fermano di tanto in tanto per chiedere dove si trovi Gerusalemme e se quella sia la strada giusta per andarvi, se la città celeste sia prossima o lontana. Può insomma facilmente immaginarsi quale e quanta confusione si generi in conseguenza di ciò presso cittadini inermi e del tutto ignari, i quali nulla sanno del progetto di Urbano II volto alla conquista dei luoghi santi e ancor meno sanno in qual modo e se si possa valutare in termini di spazio la distanza fra il luogo in cui essi vivono e terre tanto lontane e per loro interamente ignote.

    Certo lo spazio, pur se così poca confidenza con esso manifestano gli uomini medievali, avrà di sovente una straordinaria valenza, rappresenterà il contrario della chiusura, dello sbarramento e si identificherà con la vita, con la circolazione dei beni, delle persone e delle idee. La donna invece ha la felice sorte di essere «nata doppiamente inclusa» e ciò in quanto il Signore colloca l’uomo nel Paradiso, lo addormenta ed estrae dal suo fianco Eva che fuoriesce così da una doppia chiusura, da quella del Paradiso e da quella costituita dal fianco dell’uomo e forse proprio per questo la donna si ritiene più protetta e quindi oggetto di un maggiore, più vigile amore da parte di Dio.

    Lo spazio insomma è relativo a ciò che l’occhio può cogliere, è un podere, un grosso feudo, una città, mentre difficilmente si esce da tali proporzioni limitate; esso dunque è tale in quanto è circoscritto: per esempio quello cittadino è circondato di mura.

    Alla chiusura umana però si sostituisce spesso una sorta di chiusura divina. Quando Lancillotto – ne la Quete du Saint Graal – arriva al castello del Graal edificato con grande solidità, riesce a superare una porta sorvegliata da due leoni. Salendo lungo la strada principale, raggiungerà poi il mastio senza incontrare anima viva. Egli raggiungerà quindi l’immensa sala del castello ove troverà una stanza ermeticamente serrata. La chiusura ovviamente è simbolica e serve a rendere più difficile e ad impedire l’accesso dell’eroe al Graal.

    Le porte della sala si chiuderanno anzi senza che nessuno le abbia toccate e questo deve considerarsi un evento straordinario. Lo spazio aperto che si offre all’eroe, sbocca quindi in nuove chiusure, quelle relative all’amore e alle sue proibizioni.

    Nella narrativa insomma come nella vita di ogni giorno il riferimento spaziale è più accurato e preciso quando ci si riferisca a un luogo intercluso, a una abitazione privata, povera o modesta, ricca e nobiliare, mentre esso si fa più vago e incerto quando si amplia, sintomo di insicurezza, e diverrà allora circondato da una serie di chiusure e di impedimenti. E proprio questa spiega la fortuna del mito delle colonne d’Ercole, poste sullo stretto di Gibilterra, per l’appunto a chiusura del Mediterraneo e a monito per colui che per imperizia o inguaribile orgoglio cerchi di varcare il limite ultimo di sicurezza, votandosi all’avventura o alla morte certa.

    Nonostante differenti valutazioni dovute in specie alla recente produzione storiografica, il primo millennio è veduto come un’epoca di generale contrazione della vita, di continua diminuzione del numero degli abitanti nelle città e pure nelle campagne, ove molti che fuggono dai centri abitati a causa delle invasioni barbariche e della grave crisi economica e sociale, si rifugiano.

    Dall’XI secolo in poi, invece, si inaugura, almeno in Italia, una lunga fase di crescita della popolazione estesasi sino alla prima metà del Trecento. Il fenomeno è di tale ampiezza per la vicenda occidentale, che gli storici parlano addirittura di un’epoca di rivoluzione demografica. Si ritiene difatti che dall’XI al XIV secolo la popolazione europea si sia moltiplicata per tre e che nel XII l’incremento di natalità sfiori addirittura il 35%.

    Fra i motivi che consentono l’aumento della popolazione vanno senza dubbio annoverati il miglioramento climatico, il ritorno a una relativa tranquillità dopo la fine delle invasioni barbariche, la diminuzione delle guerre, delle carestie, il generale miglior sostentamento assicurato da un’alimentazione più sana, le adeguate cure mediche, la minore mortalità infantile, fenomeno quest’ultimo nell’età medievale di gigantesche proporzioni.

    Ma quanto l’aumento generalizzato e quasi indiscriminato della popolazione deriva dalle aumentate nascite e procreazioni e quanto dal fatto che diminuisce invece la mortalità infantile, un vero flagello del primo e in certa misura dei primi secoli del secondo millennio? La risposta non è facile, pur se è certo che la migliorata condizione economico-sociale dell’XI-XII secolo contribuisce a mantenere in vita non pochi neonati.

    L’educazione dei bambini, almeno in Italia in aumento, segue i precetti della scuola salernitana.¹⁰ Per quanto concerne la puericultura possiamo ricorrere a un trattato risalente all’XI secolo, dovuto a un’esperta in medicina denominata Trotula, ricordata piuttosto ampiamente già dagli scrittori di medicina del Duecento.

    Trotula, a volte detta anche Trota, avrebbe esercitato il mestiere di ostetrica a Salerno e dalla sua esperienza sarebbe nato il suo trattato De mulierum passionibus ante in et post partum ovvero sulle sofferenze femminili prima, durante, e dopo il parto, pubblicato per la prima volta a Strasburgo nel 1544, poi a Venezia nel 1547 e in questa veste conservatoci.

    Il trattato contiene interessanti nozioni di ostetricia e raccomanda la necessità di assicurare la protezione perineale durante il parto e prescrive la sutura delle lacerazioni del perineo. Il trattato stesso offre inoltre particolari dettati dal buon senso oltre che dalla grande esperienza anche sulla crescita dei bambini nella prima infanzia: il bimbo deve essere scrupolosamente pulito, lasciato dormire sin quando lo voglia, non deve mangiare troppo, non va spaventato con grida e rumori ma fatto crescere in ambiente sereno. Non va abbagliato da luce troppo forte e, in ogni caso, va affidato alla natura che sa fare meglio di ogni altro il suo mestiere e costituisce l’elemento più importante nella prima crescita.

    Curioso un particolare relativo a Trotula: mentre da noi, a Salerno anzitutto, di lei si è persa quasi l’identità, in Inghilterra il suo nome è menzionato come dame Trot, considerata una sorta di fata benefica ed allegra che viene per portare doni ai bambini buoni.¹¹

    Non tutte le scuole di puericultura medievali sono del parere suddetto e pensano che, lungi dal crescere libero, il bimbo vada rigidamente fasciato dalla testa ai talloni, onde assicurargli uno sviluppo ben diritto degli arti.

    Primo autore di un trattato di pediatria è il padovano Paolo Bagellardi, detto anche Paulus a Flumine, nato a Padova e probabilmente docente in quella Università, il quale scrive nel 1472 il primo testo volto alla cura delle malattie infantili, sensibilmente influenzato dai trattatisti arabi e ricco di interessanti osservazioni personali.¹²

    Francesco da Barberino, noto poeta didascalico vissuto tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento, morto a Firenze durante la peste del 1348, ha scritto un noto trattato relativo al Reggimento e costumi di donna, in cui dà notizie relative al mondo femminile e, parlando delle cure che la madre rivolgerà ai figli, ricorda aneddoti medico-estetico-educativi.¹³ Fra quelli di tipo medico egli sottolinea l’utilità dei massaggi che le nutrici devono compiere per evitare le malformazioni del neonato, segnatamente quelle del piede e della schiena che va aiutata a crescere ben diritta. Va curato poi il portamento del bambino che camminerà con il corpo eretto, lo sguardo volto verso l’alto e non a terra.

    A differenza di dame Trot quest’ultimo vuole che il bambino debba sin da piccolo essere avvezzato ad aver paura dell’acqua, del fuoco, dei cani e dei cavalli, dei coltelli e di tutte le lame taglienti e ciò per evitare che si faccia male. Nel modo più assoluto si dovranno evitare le cadute che facciano battere il capo, soprattutto in uno spigolo e perché ciò non avvenga sarà bene far calzare al bimbo un berretto convenientemente imbottito.

    Ora e allora il mondo dei giochi è simile: vari tipi di palle di legno, birilli, cerchi, bambole di legno e di stoffa, cavalli lignei anch’essi, costituiscono l’armamentario del bimbo abituato, se possibile, a vivere fuori di casa, assistito dalla balia o da solo, se la condizione sociale non sia tale da dargli l’ausilio di personale specializzato che lo allevi a tempo pieno.

    Qualche museo – il British ad esempio – conserva giocattoli di età medievale, di preferenza del XV secolo, fra i quali troviamo pure ritratti del bambino Gesù raffigurato con balocchi e persino con amuleti al collo contro il malocchio!¹⁴

    Giunti a una certa età – sei, sette anni – i bambini vanno a scuola o a bottega a imparare il mestiere; le bambine invece rimangono in casa ove, sotto l’occhio vigile della madre, delle nonne e delle zie, apprenderanno a sbrigare le faccende di casa, a lavare, a stirare, a rammendare, a ricamare, a filare, a lavorar la lana, a cucinare, divenendo così buone e masseriziose.

    Per educare un bimbo si mobilitano in molti e del resto i consortes restano sempre vicini e pronti a intervenire.¹⁵ Sappiamo, per fare un esempio, che una volta a Firenze, una Acciaioli che sorveglia un neonato grida per scherzo «aiuto» e in men che non si dica la sua camera si riempie di persone che corrono da ogni parte a portarle soccorso per un incidente in realtà non accaduto.

    Come ora accennato i consortes e la famiglia si trovano spesso accanto. Lo consiglia fra gli altri l’umanista Bartolomeo Platina il quale conferisce importanza ai servigi resi ai parenti e ai bimbi; e ciò pare valido pure a Cosimo de’ Medici il quale farà presentare al nipote Lorenzo – il futuro Magnifico – il quadro di riferimento ideale delle relazioni da collocarsi alla base della parentela: «Ama tuo fratello come tutto il tuo parentado; non limitarti a stimarlo e chiama anche i tuoi parenti a partecipare alle tue decisioni, che si tratti di affari privati come di pubblici. I loro consigli saranno secondo ogni verisimiglianza i migliori di quelli di individui senza alcun legame di sangue con te».

    L’insieme di tante positive considerazioni in favore della famiglia e di tutti i suoi componenti – vecchi, donne e bambini – e la cura con cui si presta attenzione al proprio patrimonio attestano complessivamente le migliorate condizioni economico-sociali e igieniche della società degli ultimi secoli del Medioevo, comprovate anche dalla trattatistica e dalla cronistica dell’epoca.

    Ma tutto ciò non salva dalle malattie molto spesso incurabili. Tra queste si deve poi dire che soprattutto quelle della prima infanzia si ripetono e sono pericolose.

    Spesso, nonostante le cure dei medici e dei familiari i bimbi non reggono al male e soccombono. Non mancano tuttavia le guarigioni, a volte miracolose. I Libri dei ricordi sono pieni di accenni a risanamenti portentosi legati ad apparizioni di santi, a voti pronunciati dai genitori, a visioni riportate dal piccolo malato improvvisamente tornato in salute. Sono questi taluni motivi che orientano madre e padre a scegliere per il loro piccolo l’educazione religiosa e a volgerlo alla carriera ecclesiastica, secolare o regolare, determinata da un preciso segno del destino al quale si risponde dando presto al giovinetto la condizione di oblato cui spesso segue quella di monaco o di frate.

    A questo punto, dopo esserci soffermati piuttosto a lungo sui primi anni dell’esistenza dell’uomo, dobbiamo ribadire che i cicli della vita, ben collegati al tempo e allo spazio, appaiono tutti interessanti e vanno approfonditi per comprendere come nell’età di mezzo essi vengano concretamente rappresentati; una fra tutti la sequenza dell’infanzia che non finirà mai di sorprenderci per la cura con cui i genitori e, più ancora, gli educatori e gli uomini di Chiesa l’hanno considerata dal punto di vista, oltre affettivo, pedagogico, culturale e morale.

    II. La natura e il suo paesaggio *

    «Nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura...». Così inizia la Divina Commedia, il grande poema dantesco che proprio in apertura sottolinea con questi versi come la natura e la campagna rappresentino i tratti distintivi della vita quotidiana nell’età medievale, e come per gli uomini di quel tempo siano importanti le selve, i grandi boschi, le foreste continentali. Nella Selva dei suicidi poi – nel XIII canto dell’Inferno – ancora una volta Dante evoca un bosco «che da nessun sentiero era segnato. / Non fronda verde ma di color fosco; / non rami schietti, ma nodosi e involti / non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco: / non han sì aspri sterpi né sì folti / quelle fiere selvagge che in odio hanno / tra Cecina e Corneto i luoghi». Questa rappresentazione dell’Alighieri dunque, si impone subito per la sua singolare selvatichezza, che ce la presenta misteriosamente chiusa in se stessa.¹

    I versi del sommo poeta con il loro ripetuto ricorso alla natura «aspra e forte» ci rammentano allora che sempre in Europa, in età medievale e nei primi secoli dell’età moderna, ci si imbatte in zone fittamente arboree e in paesaggi nei quali l’elemento dominante è il bosco, divenuto protagonista incontrastato di un mondo poco abitato. Gli abitanti del nostro continente durante l’Impero romano sembra – ma è giusto invocare il beneficio dell’inventario – fossero 25 milioni; durante l’Impero carolingio, qualche secolo dopo, scendono a circa 10 milioni. I luoghi residenziali, afferma March Bloch, il grande storico francese studioso del Medioevo, sono gruppetti di case circondate da poca terra fertile e poi da distese di terre ove non passa l’aratro. Quanto rimane tra i radi raggruppamenti è in prevalenza patrimonio e dominio incontrastato di alberi d’alto fusto.

    Le foreste occupano intere province, si confondono talvolta con le terre di frontiera: lungo la Mosa separano l’Impero germanico dal regno francese di Roberto il Pio. Anche la Neustria e l’Aquitania sono separate da una zona incolta e boscosa che costituisce una vera e propria marca di confine. Gli uomini ricavano dalle foreste, elemento essenziale della vita economica di quel tempo, anzitutto il legname, ricchezza e sostegno della società occidentale. Il legno prende il posto del ferro, della pietra e del carbone, con il legno si accende il fuoco, si sostengono volte e gallerie, si fabbricano mobili, utensili, tetti e ponti, case, navi, argini, dighe e palizzate per rendere abitabili le lagune.

    Ogni parte dell’albero è sfruttata dal lavoro umano. Con la corteccia si conciano le pelli; dalla resina si ricava la colla e sempre con la resina si ricoprono torce e ceri. La corteccia è anche impiegata per intrecciare solide corde. Le piante producono medicinali e tinture. Le ceneri della legna bruciata vengono usate dai cosiddetti fabbricatori di ceneri nell’industria del vetro – le celebri e celebrate vitrailles francesi destinate ad arricchire chiese e palazzi reali e gentilizi vengono così confezionate – e in quelle del sapone e della lisciva utilizzati per il bucato che si ottiene lindo e bianchissimo pure in assenza di sostanze velenose e scarsamente detergenti. Il suolo e le piante del bosco danno spontaneamente vari e diversi prodotti: i funghi, i tartufi, il miele, le castagne, i frutti selvatici. Non ultimi ricordiamo i generi faunistici: carni, pelli e pellicce. La caccia della selvaggina è regolata e riservata spesso ai più potenti, pur se abbondano i cacciatori di frodo che, più o meno indisturbati, nelle foreste rinvengono motivo di divertimento e attività fisica e, più ancora, di sostentamento assicurato dalla cacciagione. Infine la foresta forma immense distese di pascolo utili per il bestiame dei ricchi e per quello delle comunità agricole. Cavalli, buoi, ovini, caprini e maiali trovano qui alimento – erba, foglie dei rami e degli arbusti, bacche, ghiande, faggiole – al punto che soprattutto in Inghilterra ma pure in Francia, meno in Italia, l’estensione forestale è calcolata – già l’abbiamo accennato – dal numero di porci in grado di assicurarvisi nutrimento.

    Sappiamo infatti, per esempio, che il bosco di Pakenham, nell’odierno Suffolk, nell’XI secolo, nutre sino a cento maiali, mentre più tardi, verso il 1217, dopo l’emanazione della Magna Charta a malapena può sfamarne la metà. Spesso ai limiti delle terre coltivate si moltiplicano l’incolto e la sodaglia; brughiera, boschi, paludi, sono compresi nelle proprietà e destinati, quando la situazione economica migliora, ad essere messi a coltura, dissodati e bonificati. E tuttavia gli uomini sono attratti e respinti dall’aspetto tragico e immenso delle masse boschive popolate da animali selvaggi, sede favolosa di elementi magici – maghi, gnomi, elfi, fate, silfidi, doridi, sirene, ninfe –, rifugio di gente pericolosa come i fuorilegge, gli outlaws inglesi, i quali, dopo l’invasione normanna ripareranno proprio nel folto delle silvae. Come non pensare a Robin Hood, il brigante gentiluomo che spoglia i ricchi per vestire i poveri?²

    Di tutte le forme della natura, il bosco è il luogo più propizio alla finzione romanzesca e ai segreti incontri degli innamorati; con la sua profondità e i suoi antri misteriosi favorisce la penetrazione nel mistero che bandisce ogni confine fra realtà e incantamento.

    Dal Trecento in poi la rappresentazione del bosco servirà a ornare gli arazzi delle pareti e abbellirà con sculture i portali delle grandi cattedrali gotiche, contorna le ali degli angeli, circonda il volto dei santi.

    Lo spazio forestale si presta nel folto dei rami intricati e nella più rigogliosa vegetazione a sbrigliare la fantasia di poeti e prosatori del ciclo cavalleresco. Nelle foreste infatti i cavalieri incontrano i draghi e, a volte, daini e cervi. Racconti, leggende, poemi e fonti letterarie fanno delle foreste un inaccessibile rifugio di eremiti, meta di proscritti, di selvaggi, di belve feroci, di amanti sfortunati. I boschi sono i luoghi dei cattivi incontri, pieni di pericoli e di tristi presagi, sicché il limite che divide i rischi reali dai signa, dai prodigi soprannaturali è malcerto. Lì vanno alla ricerca di avventure i cavalieri della Tavola Rotonda.

    Nella foresta si reca il valoroso Calogrenant, cavaliere della corte di Artù, senza macchia e senza paura. Nella foresta si rintanerà Yvain, il protagonista del romanzo di Chrétien de Troyes, Yvain ou le Chevalier au Lion, alla ricerca di eventi portentosi e di fate. Venuto a conoscenza di una terribile calunnia di cui è vittima la bella Lienor, l’imperatore lì presente parte per trovare rifugio al suo dolore nella più desolata e profonda radura.

    Ivano poi finisce quasi per smarrire la ragione, caccia nel bosco le belve, le uccide e divora le loro carni crude e tanto a lungo si intrattiene a contatto della natura selvaggia da regredire paurosamente, quasi a livello ferino. Un eremita che lo scorge appressarsi nudo alla sua capanna comprende che questi non è interamente in senno, ma lo soccorre, gli dona del pane e dell’acqua che quegli beve avidamente. Nel bosco Ivano si comporta da animale fra gli animali ed è in pratica simile ai vari boscaioli, carbonari, taglialegna che, separati dal resto dell’umanità, vivono in questa realtà silvana semianimalesca e terribile.

    Come è chiaro in questo romanzo il bosco è inteso come scenario di eventi fantastici ma finisce per rappresentare l’essenza di una società a livello umano di cui la foresta diviene essa stessa simbolo.

    Tra gli amanti in cerca di un ricovero compiacente figurano altri personaggi romanzeschi, Tristano e Isotta che, ci narra il grande Beroul, per sfuggire all’irato re Marco si nascondono nella foresta di Mourois, così selvaggia ed aspra che nessuno osa entrarvi. Tristano invece vi sta sicuro come se si trovasse «in un castello cinto di mura» e poiché è «arciere provetto» caccia mettendo a punto un arco che non falla «un arc qui ne faut». Così procura il nutrimento per sé e la sua dama, poi con il legno costruisce un’accogliente capanna. La narrazione qui s’intreccia a temi e motivi diversi: mette in luce la paura per la foresta ignota, valorizza la vita selvaggia, i beni del bosco, sottolinea il suo significato di rifugio e di luogo di penitenza al quale vengono affidati, come è risaputo, quanti abbiano smarrito «la diritta via», come insegna Dante.

    Anche in Aucassin et Nicolette, altro famoso romanzo di Chrétien de Troyes, gli amanti in fuga finiscono nella più fitta vegetazione. Nicoletta, del tutto sola in quel frangente, è spaventata, teme di venir divorata dai serpenti e, per difendersi, costruisce con le sue mani una capanna. Aucassin la cerca fra rovi e spine che lo martirizzano, incurante della presenza di un giovane selvaggio lì sulle tracce di un bue smarrito e solo in seguito a infinite peripezie finisce per scorgerla. Riunitisi così i due innamorati escono dal profondo bosco e giungono presso il mare, ritrovando il mondo e la sua civiltà.

    Presso i trovatori, i romanzieri, il tema degli amanti in fuga nella foresta diviene un leitmotiv, una rappresentazione idilliaca, una sorta di evasione nel sogno silvestre, nel deserto dell’amore. Il trovatore Bernard Marti esprimerà così il suo proposito: «Voglio diventare un eremita del bosco, affinché la mia donna mi segua. Là voglio vivere e morire e trascuro perciò ogni altra cosa».

    Il motivo dell’amante desideroso di trasformarsi in solitario per amore ci ricorda che accanto agli avventurieri e nelle zone più selvagge, nelle radure, circondati da secolari alberi attraverso i quali il sole «raggia e non penetra», troviamo non di rado anche gli eremiti – anche in Yvain ne troviamo uno – gli stessi che in Oriente scelgono la loro dimora nei deserti e che nell’Occidente si nascondono nelle boscaglie ove vivono alla stato brado, come selvaggi vestiti di pelli di montone e di capra, al pari di san Giovanni Battista nel deserto, allorché sarà tratto in catene dal crudele Erode.

    Gli eremiti sono invero popolari, a loro si rivolgono i fedeli e quanti hanno bisogno di consiglio e anche i re come Enrico II Plantageneto li proteggono. Agli eremiti, naturalmente, fanno capo i fuorilegge. Ricordo in proposito solo il brano di una leggenda, The eremyte and the outlaw, in cui Robin Hood si imbatte proprio in un eremita il quale diverrà geloso di lui, in quanto la vita stentata che quest’ultimo conduce nella foresta, consentirebbe all’eroe di guadagnarsi il paradiso con troppa facilità!³

    Chi vive in solitudine insomma ha bisogno di avere intorno uno squarcio di scenario silvestre, anche perché solo così egli riuscirà a liberarsi dalle frustrazioni maturate nell’ambito del privato feudale, a volte invero opprimente e tale da comprimere le aspirazioni della libertà della persona. Vivere nella solitudine di un sacro eremo vale a dire liberarsi di tutte le menzogne che bisogna dire nella vita di ogni giorno.

    Tanto per cominciare gli amanti, qualora costretti a vivere in società, sono obbligati a mascherare il loro sentimento d’amore. Tristano e Isotta ad esempio, usciti che sono dal travolgente, squassante turbine della passione, chiedono all’eremita Ogrino come potranno rientrare nel normale ordine sociale e la risposta è quasi scontata: essi dovranno pentirsi, promettere di resistere alle tentazioni e poi dissimulare sempre, specialmente a corte, i loro sentimenti in quanto per eliminare «il male e la vergogna qualche bugia si impone».

    Senza dubbio, all’inizio del XII secolo, sottolineerà l’importanza del bosco e del deserto Guiberto di Nogent allorché racconta la storia di Everard di Breteuil, visconte di Chartres, il quale lascia la vita mondana per rintanarsi nella solitudine della foresta dove vive da carbonaio. Ma se verso le lande solitarie si cerca rifugio in Occidente, ancor più ciò si farà in Oriente ove si fugge spesso e volentieri verso il deserto della Tebaide: dirà Chrétien Courtois⁴ che mai i deserti si riveleranno più «popolosi» che nell’epoca tardo antica, allorché diverranno meta di numerosissimi anacoreti. In Occidente poi, fra il IV e il VII secolo ci si cela nelle selve anche per sottrarsi ai barbari, mentre fra il secolo XI e il XII lo si farà per sottrarsi all’inferno del traffico e della vita chiassosa delle popolose città, allora risorte. Noi abbiamo lasciato tutto il chiasso per ripararci nelle foreste, dirà in una predica Pier Damiani nel 1072, con accenti che difficilmente riusciamo a ritenere credibili noi che siamo abituati al chiasso degli agglomerati urbani dei nostri giorni!

    Più di cento anni dopo san Bernardo insiste: «Le foreste ti insegneranno e ti ammaestreranno più dei libri. Gli alberi e le rocce ti diranno cose che non apprenderai dagli scienziati!». Insomma, l’ideale desertico e silvestre rimarrà in voga sino alla fine dell’età media: lo testimonia fra gli altri, sia pure in negativo, il teologo scolastico Guglielmo D’Auvergne, vescovo parigino, che ai primi del Duecento, discettando della «città ideale» ormai tornata in auge con la ripresa della vita economica e politica e con il rafforzamento dei regni nazionali, afferma che a paragone il resto dell’umanità appare come una selva selvaggia e tutti gli altri uomini costituiscono una sorta di «ligna silvatica».

    Funzione del tutto centrale e riconoscibile assume dunque il bosco nella letteratura e tout court nella vicenda umana medievale, allorché l’immenso territorio continentale riunito da Carlomagno sotto il suo scettro deve considerarsi estremamente differenziato anche all’interno e quindi risulta di difficile gestione economica e organizzativa e procede dai territori italiani di chiara impronta romana a quelli della Germania ove le invasioni barbariche hanno cancellato quasi ogni precedente impronta in Baviera come in Fiandra, mentre più che visibile essa è in Alvernia e nelle regioni transalpine ove le città appaiono ancora meno fatiscenti e contrassegnate da un animus latino.

    Va aggiunto che queste stesse terre non conoscono vere e proprie frontiere e appena ci si allontani dal proprio villaggio ognuno si sente uno straniero che può essere depredato di tutto. Nelle regioni spagnole, ad esempio, non ci sono soluzioni di continuità fra le zone islamizzate e le cristiane e cinque anni prima del Mille Al Mansur devasta Santiago de Compostela mentre intorno al 1010 il conte di Barcellona occuperà la musulmana Cordova. Piccoli signori musulmani sono assoggettati alla Castiglia o all’Aragona. Il mar Mediterraneo è a tratti musulmano, a volte bizantino e in più di un caso appannaggio carolingio.

    In una realtà così cangiante e poco rassicurante l’ampio paesaggio silvestre, un paesaggio che nasconde e difende a un tempo, che crea e conserva, diviene un fattore di coesione, una sorta di collante in cui nascono pian piano il villaggio, la corte, il castello, la fattoria.

    Tra foreste ricche di fauna e covo di belve feroci, fra stagni, laghi e fiumi pescosi, fra i pesci abbondanti negli acquitrini dell’East Anglia e del Poitou, nelle distese di saline utili e sfruttate, di paludi provviste di canne, giunchi e torba – il prezioso carbone vegetale la cui raccolta sarà poi regolamentata – dal VII-VIII secolo in avanti la natura assiste alla nascita di una rete sempre più articolata di insediamenti: i fundi e le curtes, i casalia e i vici con le chiese e le loro pievi. Centri agricoli complessi saranno i castra, i castelli-fortezza, sorti a imitazione degli accampamenti militari romani. Drenate e prosciugate, grandi e sterminate silvae acquitrinose daranno luogo ai fens inglesi. Sulle coste brettoni, fiamminghe e del Poitou, si generano invece i Polder, in cui si acclimateranno agevolmente pascoli e coltivazioni.

    La foresta insomma per gli uomini dei dieci secoli dell’era medievale può considerarsi un serbatoio spaziale indispensabile, un naturale prolungamento e complemento dei campi. Allo stesso tempo essa è tuttavia il luogo delle grandi, ancestrali paure dell’uomo, una sorta di notte dell’essere e allo stesso tempo di soglia sacra che tutto copre e protegge e sul cui limite l’uomo cessa di compiere le sue imprese profane.

    Essa poi è il rifugio dei residui culti pagani – si pensi a Falstaff delle shakespeariane Allegre Comari di Windsor condotto per beffa presso la fatidica quercia di Horn, ove l’uomo è preso da incantesimi – il covo ove si concentrano gli emarginati e i diversi, gli avventurieri, i briganti e gli assassini e come tale assume un doppio volto: respinge e attrae, sembra inospitale ma accoglie tutti.

    Numerosi toponimi o nomi di luoghi conservano traccia del passaggio delle dominazioni gotiche e longobarde. Le misure di superficie variano però molto nelle stesse terre e province, dove ci si serve delle più svariate denominazioni per indicare la avvenuta spartizione dei terreni strappati alla foresta: si chiamano biolche, tornature, campi, tavole e simili.

    Ma gettiamo uno sguardo nelle immense proprietà altomedievali ove la produzione più che finalizzata ai commerci è destinata al cosiddetto auto-consumo. Tali proprietà risultano per solito suddivise in tal modo: terre dominicali direttamente dipendenti dal signore, terre massariciae affidate ai contadini e alle loro famiglie che devono ai padroni parte del raccolto, prestazioni di lavoro – corvées, angariae o operae – nonché gli exenia ovvero i donativi in natura – bestiame, frutta e verdura – da corrispondere per solito a Natale, Pasqua e per la Madonna di Ferragosto.

    I mansi sono variabili e sono più o meno grandi in rapporto alla consistenza della famiglia che li lavora, alla fertilità del terreno e al tempo che occorre per arare e seminare una superficie di terra bastevole al mantenimento annuale di una unità familiare. Mansi vestiti sono quelli ove i contadini hanno la loro abitazione, absi quelli ove le unità si recano a lavorare giornalmente senza risiedervi: in Italia meridionale e in Sicilia ve ne erano moltissimi e la loro presenza non si è ancora del tutto estinta.

    L’economia curtense costituì il modo di produzione e di gestione di tali aziende – uno o più fundi – e non fu mai del tutto chiusa: in parte vendette i prodotti ivi coltivati e in parte fu costretta all’acquisto di materie prime ivi non reperibili. Il saltus invece fu la zona boschiva a volte fructuosa quando permetteva la raccolta delle ghiande e l’allevamento del bestiame, dei maiali in primis, a volte infructuosa quando era del tutto incolta. La zona più importante del podere era il sedimen ove si trovavano le case, le stalle, i magazzini di raccolta di granaglie, ortaggi e frutta, dove crescevano gli alberi da frutta contenuti nell’orto pomario, e dove si trovavano ortaggi – olera – erbe e radici commestibili. Herbularius era l’orto ove crescevano le piante medicinali.

    Chi erano gli uomini che vivevano su questi appezzamenti? Anzitutto i servi, ovvero quanti ricevevano il sostentamento dal padrone, lavoravano esclusivamente le loro terre ed erano denominati prebendarii. Con loro troviamo i familiares addetti alla casa signorile. Dallo stato di servitù tutti costoro uscirono solo se affrancati dal padrone o per riscatto nei pochi casi in cui si poteva conquistare la propria libertas. Vi erano poi i massarii legati direttamente al mansus e privi di contratto scritto, mentre i libellarii erano liberi coloni, provvisti di libellum detti manentes se obbligati alla residenza sul fondo stesso. I bobolci erano lavoratori stagionali provvisti di aratro e buoi e, a volte degli attrezzi agricoli, vanga, badile, roncola, falce e simili e la loro condizione era di braccianti agricoli cui furono assegnati un compenso in natura e, a volte, quote minori di terreno.

    La configurazione della curtis medievale, come l’abbiamo testé descritta, non differisce sensibilmente da quella romana, come viene attestato dai mosaici riportati alla luce dagli archeologi in Europa e in Africa settentrionale: si tenga presente l’africano saltus burunitanus in Tunisia, simile dalle descrizioni a una nostra moderna masseria. Quasi sempre, come in quel caso, l’area della casa padronale è limitata da un alto muro o da una fitta siepe. Fuori si trovano stalle, porcilaie, rimesse, tinaie, frantoio, macine, forno, fienile, granai e pozzi.

    Gli alloggi dei contadini, collocati attorno all’edificio padronale, ne riproducono più modestamente l’aspetto e l’architettura, secondo un modello non lontano da quello delle odierne fattorie lombardo-padane e delle abitazioni rurali del delta padano. Con il passare del tempo una notevole quantità di documenti attesta le consuetudini relative ai contratti agrari, elenca le qualità e i generi delle colture, gli allevamenti di animali e chiarisce la condizione giuridica di quanti si dedicano alle fatiche della coltivazione. I lavori campestri, quelli consueti e gli straordinari, diventano i soggetti prediletti dei miniaturisti e degli scultori per sottolineare il succedersi dei mesi legati a singole, importanti operazioni agricole: giugno è consacrato alla mietitura, ottobre alla vendemmia, novembre alla monda delle olive e così via. Nascono i primi trattati di agrimensura e di altri problemi legati alla tecnica agricola, dovuti a gromatici, pittori, artisti o semplici operatori del settore che rappresentano con gusto e competenza il variare del paesaggio, lasciandoci preziose immagini di vita campestre.

    Il lavoro sui campi è duro e la quotidiana fatica di donne, uomini e ragazzi consente alle città di continuare a vivere, sia pure più a stento che nell’età romana. Dai campi provengono le derrate alimentari avviate sulle tavole di corti e abbazie, di case di ricchi e poveri cittadini. Con i prodotti della terra i commercianti alimentano le loro attività. Comunque in tutta l’età medievale l’agricoltura si manterrà fra le maggiori fonti di sostentamento, anche quando nel corso delle invasioni barbariche, fra il V e il VII secolo, imponenti moltitudini abbandonano le zone più fittamente abitate per riparare nelle isolate campagne. I piccoli proprietari timorosi del fisco chiederanno allora protezione ai più forti latifondisti, affidando loro i fondi di cui conserveranno l’uso come accommendati, per continuare a vivere. Allo stesso modo padroni, coloni e conduttori di piccoli poderi donano i loro beni ai monasteri per assicurarsi la salvezza spirituale – si tratta delle donazioni pro anima – e per garantirsi una più certa protezione materiale.

    I monaci amministrano così con varie misure giuridiche un’agricoltura ragguardevole, primo coefficiente di una ricomposta ricchezza fondiaria nell’Occidente. Agli accommendati poi, il fondo viene assegnato – vi abbiamo fatto cenno dianzi – con un contratto livellare (da livellum o libellum), una tavoletta ove sono riportate da una parte le prerogative del coltivatore e, dall’altra, quelle del proprietario. Di solito il contratto è a tempo indeterminato, contro il pagamento di un canone in natura non esoso e con l’obbligo di migliorare – lo chiede la clausola ad meliorandum – il terreno ricevuto in affidamento.

    Altra forma di concessione spesso rinvenuta è l’enfiteusi romana della durata di 99 anni. L’affermazione dell’assetto feudale e l’ereditarietà del feudo progressivamente realizzate stringono così un forte, permanente legame fra terra e contadini. Per costoro anzi, diverrà sempre più difficile dedicarsi ad attività diverse dalle agricole. Nasce in tal modo la servitù della gleba. Se spesso i contadini risulteranno legati al padrone, troveremo anche liberi proprietari di terreni – allodi – distinti dal feudo. Alla campagna ricorre la schiera di coloni, servi, schiavi, cui il cristianesimo offre miglioramenti in una condizione sociale comunque mai interamente riscattata.

    Dal secolo XI al XV in una società già meno precaria si privilegiano lavori pacifici e si affermano le signorie fondiarie,⁷ quando si registra il primo miglioramento delle tecniche agricole. L’attrezzatura necessaria per lavorare i campi in età carolingia è così composta: due scuri, una marra, due succhielli, un’ascia, un sarchio, una pialla, un coltello a doppio manico, due falci, due falcetti, due badili ferrati.

    Con tali attrezzi e con i buoi è però difficile coltivare la terra. Dopo l’anno Mille, interverranno pertanto mutamenti: per il traino comincia a utilizzarsi il cavallo al posto del cosiddetto bue da lavoro, con innegabile vantaggio della terra e del contadino. Si è calcolato difatti che, a pari carico, un cavallo percorre 65 metri al minuto, mentre il bue a stento giunge ai 45. A completare l’opera, interviene poi il cambiamento della trazione: dal sistema iugulare che prevede la concentrazione dello sforzo sul collo dell’animale, si passa a quello pettorale, allorché il complesso di cinghie è trasferito sul petto della bestia da lavoro.

    E in tal modo possibile il trasporto di carichi maggiori in precedenza non sopportati dall’animale da soma che, eccessivamente gravato, stentava a respirare e rischiava di finire soffocato. A loro volta gli aratri a versoio migliorano le pratiche del sovescio e moltiplicano la produzione del grano, fino ad allora scarsa. L’uso dei mulini ad acqua o a vento, a seconda delle condizioni del suolo, evita inoltre la macina a mano, più o meno effettuata come nelle

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