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Scene di vita italiana: Traduzione di Stefano Franchini
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E-book244 pagine3 ore

Scene di vita italiana: Traduzione di Stefano Franchini

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Scene di vita italiana è la traduzione del racconto del viaggio fatto in Italia nel 1834 da Joseph Méry (1797-1866). Méry fu scrittore, poeta, giornalista e librettista di famose opere, tra le quali il Don Carlo musicato da Verdi. L’autore venne ricevuto da diversi parenti di Napoleone, esuli a Firenze e a Roma.
LinguaItaliano
Data di uscita20 dic 2020
ISBN9791220240277
Scene di vita italiana: Traduzione di Stefano Franchini

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    Anteprima del libro

    Scene di vita italiana - Joseph Méry

    DIGITALI

    Intro

    Scene di vita italiana è la traduzione del racconto del viaggio fatto in Italia nel 1834 da Joseph Méry (1797-1866). Méry fu scrittore, poeta, giornalista e librettista di famose opere, tra le quali il Don Carlo musicato da Verdi. L’autore venne ricevuto da diversi parenti di Napoleone, esuli a Firenze e a Roma.

    INTRODUZIONE

    Joseph Méry (1797-1866) è poeta, romanziere, librettista, traduttore di classici, polemista, viaggiatore. Ha velleità di matematico, una scomoda passione per il gioco d’azzardo, una innocua consuetudine col gioco degli scacchi.

    Nato il due pluvioso del quinto anno repubblicano, ha appena diciotto anni quando Napoleone abbandona l’isola d’Elba. In quel frangente, come tanti Marsigliesi, si arruola volontario contro l’Imperatore. Grande errore perché Napoleone, in quei primi giorni, travolse ogni resistenza interna. Grande errore anche perché, in seguito, Joseph Méry diventerà un devoto bonapartista. Questo è un particolare molto interessante che dovrebbe dissuadere i diciottenni dal partecipare alle guerre civili.

    Vedremo, in queste pagine, con quanto rimpianto Joseph Méry parli dell’Imperatore. Vedremo che, a Firenze e Roma, andrà a trovare parenti dell’Imperatore. Sfiora la piaggeria ma è solo sincera devozione. Il curatore-traduttore non si insisterà sulla copiosa biografia. Nella seconda edizione del Dictionnaire des Contemporains (Hachette 1861) il nome Méry Joseph è seguito da quello del fratello Louis.

    Il traduttore qui consegna alla lingua italiana Scènes de la vie italienne. L’opera fu pubblicata nel 1837 da due editori di Bruxelles.

    Il libro è composto da due distinte parti. Qui il traduttore presenta solo la prima e, della seconda, il capitolo " La Norma al Carlo Felice. Non è una scelta arbitraria. Lo stesso Méry, nel 1853, omise quasi tutta la seconda parte, fece piccole aggiunte e cambiò il titolo pubblicando Les nuits italiennes. Dalle Nuits il traduttore cattura il capitolo Souvenirs ritenendolo complementare del capitolo Une visite à la mère de l’empereur". In conclusione qui c’è tutto il primo tomo, un capitolo del secondo ed un capitolo preso da un lavoro rimaneggiato dall’autore e pubblicato 16 anni dopo.

    Il traduttore ha eliminato tutto ciò che era, nell’edizione del 1837, di fantasia. Rimane una storia vera, di un viaggio vero, in un’Italia vera. Italia che può apparire lontana. Lo è infatti essendo il 1834.

    Nella Cappella Sistina cantano i castrati. La cera delle candele è gialla. Però, nei porti, già fanno regolarmente scalo i piroscafi. I viaggiatori del grand tour già incrociano dinamici rappresentanti di commercio. Nei teatri e nelle strade si canta il Barbiere, L’ Elisir, Fra’ Diavolo, Norma. Nei teatri succede ancora. Nelle strade è altra musica.

    Il Granducato di Toscana è un esempio di buon governo, di ricchezza, di civiltà. Joseph Méry lo percorre a piedi oppure noleggiando calessini con vetturino.

    Lo Stato pontificio non ha la stessa efficienza del Granducato. I doganieri si arrangiano come possono. La parola tricolore compare una sola volta riferita, ovviamente, alla bandiera francese. Roma non conosce la pizza ma sono di moda i friggitori. Piazza Venezia non ospita l’Altare della patria. Vi abita Letizia: vecchia, cieca, esule. È la madre di Napoleone. Avrà la bontà di ricevere più volte Joseph Méry. Gli regalerà, oltre a tangibili doni, anche un aneddoto familiare: Napoleone bimbo, ad Aiaccio, durante un temporale. Joseph Méry, spiegando le ragioni della sua reticenza, non lo pubblicherà nelle Scènes. Solo 16 anni dopo, nelle Nuits, quando Letizia Ramolino Bonaparte è da tempo deceduta, l’autore aggiungerà un delicato capitolo intitolato Souvenirs.

    Anche Cesare Pascarella, percorrerà a piedi la Cassia. Ma ben 51 anni dopo (Taccuino di viaggio dal 3 al 14 agosto 1895).

    Joseph Méry, da Marsiglia a Roma, utilizza tre mezzi di trasporto: il piroscafo Sully, dei calessi di piazza e, soprattutto, i piedi.

    Joseph Méry ci regala non solo un racconto di viaggio ma anche una crestomazia sulla famiglia Bonaparte tra primo e secondo impero. Ad esempio incontriamo Jérôme Bonaparte esule a Firenze in palazzo Orlandini del Beccuto: era il più giovane dei fratelli e fu re di Westfalia. Abbondano le citazioni classiche. Troviamo il pastore Aristeo, il fedele Acate, la bella Stratonice, Coriolano, i Scipioni e tanti altri personaggi.

    Il traduttore non intende diventare fuori tempo un fervente bonapartista tuttavia, parlando di Lui, scriverà Imperatore con l’iniziale maiuscola.

    All’inizio del capitolo " Siena Radicofani Acquapendente" c’è un panegirico un po’ noioso su Michelangelo. Per fortuna non è lontana Acquapendente dove neppure l’estrema indigenza della contrada riesce a nascondere qualche esilarante scenetta degna di un vaudeville.

    Le note dell’autore, indicate da un asterisco, sono cinque. Quelle del traduttore-curatore oltre trecento.

    Il periodare ipotattico diventa paratattico. Il passato diventa presente.

    L’oblio diventa pellegrinaggio infatti il traduttore, nella primavera del 2000 in automobile ma anche a piedi, ha ripercorso l’itinerario italiano di Méry. Il traduttore ha visto, negli antichi registri parrocchiali della chiesa della Loggia, alcune annotazioni del venerabile parroco ottantenne: quello che accettò soltanto una tazza di cioccolato nella villa della famosa soprano Angelica Catalani. Il traduttore è entrato nell’atelier Bartolini dopo 166 anni: era infatti l’anno 2000.

    Stefano Franchini

    PREFAZIONE

    Non è una guida d’Italia. Contiene pure racconti di fantasia. ¹

    L’autore ha solo raccolto appunti sparsi. Il turista troverebbe questo libro stranamente incompleto. La vera guida d’Italia è quella del Richard ² che indica distanze, misure, altezze, alberghi, cenni storici, descrizioni geologiche. E contiene i cataloghi dei quadri e delle statue con l’indicazione dei luoghi e dei monumenti da non perdere.

    Io scrivo quello che sento, scrivo quello che voglio, scrivo quello che sogno sull’Italia. Libri utili ce ne sono già troppi. Questo paese è stato misurato, palmo a palmo, da mille matematici e da mille geometri. Anch’io ne ho visti che misuravano obelischi la cui altezza è arcinota. Ma vi sono sempre persone che si divertono a misurare. Io invece non avevo né strumenti, né metri, né cicerone. Ho solo annotato a mio capriccio ³ qualche idea su un quaderno. Sarò meno utile del Richard, ma sarò me stesso e darò quel che posso. Un giorno forse pubblicherò sull’Italia cose meno incomplete e meno disordinate. Oggi un libro costa molto tempo, oggi ci sono troppe distrazioni. ⁴ In questo quaderno italiano avevo fretta di parlare di qualche illustre personaggio, di scrivere qualche riga per esprimere la mia riconoscenza. Cosa che qui faccio incorniciando i miei sentimenti di gratitudine ⁵ tra le mie emozioni di viaggiatore.

    Cito pochi nomi di città perché poche ne ho visitate. Poche ma importanti: Genova, Pisa, Firenze, Siena, Roma. Nel racconto L’anima trasmessa e nel poema Ercolan ⁶ ho ambientato la parte descrittiva relativa a Roma ed alla campagna romana, relativa a Napoli ed al suo golfo. Ne risulta un mosaico italiano senza però tutta la ricchezza del contesto e dei colori. ⁷

    SCENE DI VITA ITALIANA

    Genova - Gênes

    Il piroscafo Sully ⁸ fa la spola da Marsiglia a Napoli con scalo in tre porti italiani.

    Il Sully è come un ponte a tre arcate gettato tra Marsiglia e Vesuvio. Puoi fare la traversata stando a letto, se hai il mal di mare. Male questo che non fa morire. Anzi è il buon Mediterraneo a procurartelo, quale purga naturale. La partenza assomiglia a una festa. La tenda è stesa sul ponte, ⁹ l’argano coperto di fiori, la vela scintillante di sole. È come l’imbarcazione delle deputazioni votive che andavano dal Pireo a Delos. Il mare è calmo tra due solchi di schiuma.

    Coi visi sereni, gli occhi rivolti a sud, tutti parlano dell’Italia che è tanto vicina.

    Nessuno è preoccupato per la traversata. Da Marsiglia a Genova è come attraversare un canale. È il più bel tragitto che ci sia!

    Non c’è pellegrino che sia partito per l’Italia sentendo più di me quella forte emozione che si lega a tanti imponenti ricordi classici. Io non andavo a visitare l’Italia degli altri. Io cercavo la mia. L’Italia dei miei giovanili studi, dei miei sogni di collegiale. ¹⁰ L’Italia di Menalca e Palémone, di Eurialo e Niso. ¹¹

    Il Lazio di Giano: terra di Lavinia. E l’Italia dei miei studi successivi: Antonini, Sisto quinto, Leone decimo. E quella di Dante, Giotto, Michelangelo, Raffaello. Nomi e sensazioni cui avevo, fin da bambino, collegato immagini sentimenti, figure. Mi appartengono, impressi nella mia mente, i colori di quei luoghi. Nessun’altra avventura di viaggi li aveva cancellati o modificati. Avevo anche letto tantissimi racconti di viaggi. Avevo letto scrittori che, esprimendo l’entusiasmo con frasi gelide, sono costretti a riscaldarle con punti esclamativi. Avevo letto autori che, al contrario di questi, hanno un approccio negativo e criticano tutto: i monumenti nuovi perché non sono antichi, quelli antichi perché non sono nuovi. Avevo letto pure opere che rientrerebbero nel genere L’Italia sbagliata i cui autori si prodigano alla ricerca di una imperfezione microscopica su una magnifica statua, perfettamente scolpita.

    Ora voglio prendere contatto con l’Italia muovendo soltanto dalle mie impressioni personali derivanti dalla storia dell’arte piuttosto che da racconti di viaggi. Sono impaziente di sapere se sto per perdere i miei vecchi miti scoprendomi vittima di puerili illusioni. O se, al contrario, sarò pienamente confermato in un culto che avevo eletto a mia seconda religione.

    Sono a prora, come Enea, su questo stesso mare. Cala la notte: fresca come tutte le notti di primavera. Con un certo rammarico scendo in cabina. Mi conforta un pensiero piacevolissimo: quando tornerò sul ponte, potrò vedere l’Italia. Non riesco ad addormentarmi. Dopo qualche ora rinuncio ad inseguire il sonno e torno sul ponte, a prua.

    Magnifica notte stellata. La costa così vicina che si distinguono i paesi ed il profilo delle montagne. Il Sully vola come un uccello. Le sue pale ¹² sembrano frullare polvere di stelle in due solchi di schiuma. Nell’aria c’è un profumo che solo questo mare, questa costa, questo cielo hanno.

    Improvvisamente pongo freno ai miei pensieri incantati per rivolgermi al comandante della nave, il capitano Arnaud, che stava passeggiando sul ponte.

    Dove siamo?.

    Mi risponde: Ecco le coste italiane. Quel paese è Albenga. Non ricordo neppure nome di donna amata che sia suonato più dolce al mio orecchio. Qual nome può essere più armonioso? Ricorderò per tutta la vita il nome di Albenga, pronunciato sotto le stelle, nella notte silenziosa, sul mare calmo, di fronte alle coste d’Italia. Vorrei portare con me l’aria profumata, la brezza tranquilla, che ha appena raccolto quelle tre preziose sillabe.

    Appoggiato coi gomiti al parapetto del Sully, attraverso una rarefatta foschia notturna, a lungo seguo il campanile di Albenga e un’isola vicina con sopra una torre. ¹³

    All’alba, guardando a ritroso, verso l’orizzonte che fugge, vedo nitidamente tutta la montagna di Albenga. L’Italia si era presentata a me con un nome melodioso come il mormorio dei suoi boschi di pini e di limoni. Potessi vivere anche mille anni mai dimenticherei il nome di quel paese. Il Sully faceva rotta su Genova. Già la superba città emergeva dal mare ai piedi dell’Appennino. Quelle coste lontane sembravano cosparse di punti bianchi e splendenti, a ogni slancio della nave sempre più grandi. Dopo qualche ora la città appare in tutto il suo splendore. Bagnava i piedi nel golfo ligure ed innalzava la sua fronte in un’atmosfera luminosa. Siamo ancora molto lontani ma già possiamo distinguere i suoi edifici giganteschi. Possiamo vedere la Lanterna, le fortificazioni svettanti, i campanili e le ville affacciate sul mare. Genova egregiamente presenta l’Italia. Genova è una degna arcata di marmo di un’esedra che finisce solo nel golfo di Taranto. È il peristilio di un museo che espone le sue città, i suoi quadri, le sue statue, sui fianchi degli Appennini, nell’aria rinfrescata dalle brezze incrociate dei suoi due mari.

    Entrando nel porto devo ammettere che non sono per niente preso, come tanti viaggiatori, dal ricordo delle glorie dei Dogi. Le glorie dogali mi hanno sempre lasciato indifferente. Una prospettiva imponente occupa i miei occhi. Ho di fronte un incredibile scenario, perfettamente adatto al quinto atto di un dramma. È un palazzo che arriva a toccare il mare specchiando un bel colonnato di marmo bianco nell’acqua calma. La solitudine gli conferisce un aspetto che colpisce. Così ben collocato, così bello! Di quali scene gioiose, di quali avventure sarà mai stato teatro? In quel momento si presentava a me come una immensa tomba dove l’ombra di un re dormiva al dolce mormorio degli alberi di arancio e delle onde. Ecco palazzo Doria!, dice, passandomi vicino, un passeggero che, commerciante in paste, veniva a Genova due volte l’anno. Mentre ostenta di non guardare niente, si limita a dire a destra e a manca: Andate da Michel. Starete benissimo. Il ristorante è conveniente. Io vado sempre da Michel. Ho una camera prenotata. Ci sono donne francesi deliziose e si mangiano ostriche grandi come monete da dieci soldi. A proposito, non perdetevi il ponte di Carignano. ¹⁴ Io l’ho già visto cento volte. Pensate che, passandovi sopra, si vedono case di sei piani sotto i propri piedi. Questa è la cosa più bella di Genova.

    L’invenzione del parafulmine è stata da tutti esaltata: come se metà del genere umano perisse normalmente folgorata dal cielo. Ma ci sono fulmini che restano ancora imparabili. Colpiscono in pieno il viaggiatore romantico rovinandogli, ad ogni passo, i momenti più emozionanti. Peccato che il signor Franklin non abbia trovato rimedio anche a quest’ultimo fenomeno magnetico! Appena un pensiero, una fantasia, un sogno si propaga nell’aria subito, immancabilmente, da una maledetta bocca cade una parola greve. E rovina l’incanto. Mica avevo io chiesto, a quel demolitore di emozioni, se si trattava del palazzo Doria. Senza nome era tutto. Adesso è niente. Ridotto a casa di un comandante la cui flotta, oggi, potrebbe essere colata a picco da una sola delle nostre fregate. Il guaio è che, quando un sogno comincia a svanire, non è più possibile tornare indietro.

    Arriva pure il vicario sanitario di San Rocco. Quell’infettatore di professione ti chiede se hai il colera. Poi un cameriere d’albergo ti infila tra le mani un biglietto in italiano con sopra scritto: Cucina francese.

    Un doganiere del re di Sardegna pretende il passaporto. Il capitano mette in fila i passeggeri e li conta come pecore. Tutti balzano sulle barche. I traghettatori che non sono stati favoriti imprecano e maledicono: quasi che una persona potesse prendere venti scialuppe per andare a terra. Dov’è finita Genova, la superba! Dov’è la marmorea città, regina della Liguria?

    Moli sporchi, case orribili, porte che sembrano sportelli di celle. Una dogana che fruga nelle tasche. Poi, passando attraverso vie fangose, buie, strette, arriviamo finalmente da Michel. Qui troviamo sia da mangiare, sia camere per dormire. Ma quando si va alla finestra non si vede niente. Solo la casa di fronte. Talmente vicina che quasi bisogna fare attenzione a non battervi contro la testa. È questa Genova, la superba?

    Dopo il pranzo usciamo dall’albergo per vedere la città. Passando davanti alla chiesa di San Siro saliamo una dolce salita. Eccola, Genova!

    Montagne di marmo, tagliate a pezzi, si sono trasformate in questa prodigiosa strada fiancheggiata da palazzi.

    Gli occhi non sono preparati a tanta meraviglia. Abbagliati come quando si passa all’improvviso dal buio alla luce. Non c’è cosa al mondo che colpisca più di questo susseguirsi monumentale di portici da ambo i lati della carreggiata di granito. I portici splendono avvolti in quella luce dorata ed evanescente che spesso il cielo italiano si compiace di regalare alle opere dei suoi figli. Ti senti così leggero al cospetto di architetture tanto leggiadre che ti sembra di galleggiare nella luce. Ti sembra di non aver bisogno delle scale per balzare sulle terrazze. L’aria tersa, lo splendore del giorno, il cielo sereno, il profumo del mare: tutto conferisce a questa strada una grazia insuperabile. Poesia, incanto di un sogno. Puoi a lungo sostare in estasi e davanti a portici e scalinate difese da leoni scolpiti in pose superbe oppure animate da statue, tra colonne marmoree. Sono scalinate che accompagnano trionfalmente ai giardini pensili dove, all’ombra di aranci, si schiudono conche di fontane. Ti scopri commosso di gioia, sulla soglia di un palazzo, se riesci ad intravvedere, in una luce misteriosa, un cortile discreto e voluttuoso. Qui, dai marmi, escono zampilli d’acqua pura sotto rami di limoni in fiore. Qui conversano e ridono giovani donne nate per questi alberi, per queste fontane, per questi giardini. Donne ricche e spensierate, serene e vivaci, vere fate di questi fantastici palazzi. Dalle loro bocche escono suoni dolci come il fruscio di un abito di raso. Intanto, fuori, altre donne passano leggere sul liscio selciato. Hanno capelli neri e sono belle. Hanno la carnagione bianca e fresca. Spesso sembra una processione di vergini uscite da un quadro di Raffaello per visitare via Balbi. ¹⁵ Per collegarla al cielo.

    Con gli occhi spalancati ti fermi ai piedi di quel palazzo Durazzo che sembra toccare le nuvole con le sue aeree logge. Ti fermi davanti a palazzo Doria-Tursi che riposa a suo agio, con la facciata coronata di giardini, dopo aver saccheggiato le cave marmoree di Carrara. Devi fermarti ad ogni passo, dappertutto, perché la meraviglia che hai di fronte è nuova e diversa da quella che vedrai dopo e da quella appena lasciata.

    Devi salire a palazzo Serra. Ti attende col suo favoloso salone di lapislazzuli e d’oro, cinto da colonne corinzie e sfingi nere. Le sue alte finestre si aprono su edifici marmorei, come quelli sognati dall’Ariosto, qui realizzati con gran perizia dall’architetto Tagliafichi. ¹⁶

    In questi palazzi le gallerie sono popolate da incantevoli ed eterei personaggi: quelli che Van Dyck ¹⁷, Guido Reni, Andrea del Sarto, Veronese, Tiziano, Albano, lo Spagnoletto ed i tre Carracci misero sulle loro tele.

    La ricchezza portata dai commerci non avrebbe potuto cadere in mani migliori: deve ammetterlo anche un poeta. Queste meravigliose realizzazioni furono permesse grazie alla protezione di quegli illustri mercanti. La solitudine ed il silenzio danno, oggi, a queste dimore un carattere di solenne malinconia: magnifiche coreografie dalle quali sembra si siano appena ritirate le feste, le danze, le donne.

    Nella brezza che canta sotto gli aranceti delle terrazze sembra quasi d’udire ancora i cori italiani delle magnifiche feste ormai finite. Quando mai fu più gaia la vita?

    In via Balbi, ai tempi dello splendore di Genova, la vita era vita! Immersa com’era in un’insuperabile aureola di luce, di donne, di profumi marini e montani. La vita, in via Balbi, era corteo di artisti e di poeti. Era musica napoletana, dolci sieste sotto il voluttuoso demone del mezzogiorno. Crepuscoli al suono di serenate, notti d’intimità e d’amore.

    Doveva essere proprio bello palazzo Durazzo, con la sua bandiera con lo scudo d’oro caricato di tre gigli d’argento. Doveva essere proprio bello la sera che Van Dyck presentò il ritratto della divina contessa Brignole! ¹⁸

    Quanta allegria, musica e profumo, avrà aleggiato sotto quelle leggiadre logge. Lei, regina della festa, era qui: sotto la rotonda di marmo. Come se la Venere Medici fosse scesa dal piedistallo per vestire e seta e raso. ¹⁹ Quante parole di fuoco, desideri celati, labbra ardenti dovevano fremere attorno all’adorabile contessa! Gli occhi dei giovani patrizi si animavano nel dipinto di Van Dyck per morire di desiderio sul divino viso della modella, sul suo collo d’avorio, sulle sue spalle nude, sulle morbide curve dell’abito di seta. Il grande pittore non era riuscito a disegnarle perfettamente perché la sua mano tremava d’emozione. Tra quella gente ebbra di desiderio e di passione, sotto quelle leggiadre logge bianche

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