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Grandi Speranze II
Grandi Speranze II
Grandi Speranze II
E-book328 pagine5 ore

Grandi Speranze II

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Info su questo ebook

Philip, detto Pip, avviato a diventare fabbro del villaggio, si trova a possedere una ingente somma di denaro, donatagli da un misterioso benefattore che lui crede essere Miss Havisham, una donna eccentrica che da quando vive a Londra va talvolta a trovare. Pip si innamore di Estella, protetta della Havisham, educacata da lei con lo scopo di far soffrire gli uomini per vendicarsi di essere stata abbandonata il giorno delle nozze. Narratore e protagonista, Pip ripercorre con humour e passione il suo cammino di conoscenza e disillusione, facendo i conti con la propria cecità di fronte ai casi della vita.Questo è il secondo di 2 volumi.-
LinguaItaliano
Data di uscita27 gen 2021
ISBN9788726568943
Grandi Speranze II
Autore

Charles Dickens

Charles Dickens (1812-1870) was one of England's greatest writers. Best known for his classic serialized novels, such as Oliver Twist, A Tale of Two Cities, and Great Expectations, Dickens wrote about the London he lived in, the conditions of the poor, and the growing tensions between the classes. He achieved critical and popular international success in his lifetime and was honored with burial in Westminster Abbey.

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    Anteprima del libro

    Grandi Speranze II - Charles Dickens

    Grandi Speranze II

    Translated by Maria Felicita Melchiorri

    Original title: Great Expectations II

    Original language: English

    Charles Dickens

    Copyright © 1861, 2021 Free rights and SAGA Egmont

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    ISBN: 9788726568943

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga Egmont - a part of Egmont, www.egmont.com

    Capitolo trentaduesimo

    Un giorno in cui ero occupato coi miei libri e Mr. Pocket, ricevetti per posta un biglietto, la cui sola busta bastò a gettarmi in uno stato di grandissima agitazione; infatti, anche se non avevo mai visto prima la scrittura di chi lo aveva indirizzato, indovinai chi ne fosse l'autore. Non aveva alcuna frase d'esordio convenzionale, come Caro Mr. Pip, o Caro Pip, o Caro Signore, o Caro Qualcosa, ma conteneva quanto segue:

    Arriverò a Londra dopodomani con la diligenza di mezzogiorno. Credo che fosse deciso che tu venissi a prendermi. In ogni caso questa è l'impressione di Miss Havisham, e io ti scrivo conformemente ai suoi ordini. Ella ti manda i suoi saluti.

    Tua Estella

    Se ci fosse stato tempo, avrei probabilmente ordinato diversi vestiti nuovi per l'occasione; ma poiché non ce n'era, fui costretto a rassegnarmi e a contentarmi di quelli che avevo. Persi all'istante l'appetito, e non conobbi pace o riposo finché non arrivò quel giorno. Non che il suo arrivo mi portasse l'uno o l'altro; perché, anzi, mi sentii peggio che mai, e cominciai a vagabondare nei pressi della stazione delle diligenze di Wood Street, a Cheapside, ancor prima che la diligenza avesse lasciato il Cinghiale Azzurro nella nostra cittadina. E anche se mi rendevo perfettamente conto di tutto ciò, pure avevo la sensazione che non fosse prudente perdere di vista la stazione delle diligenze per più di cinque minuti consecutivi; e, in questo stato di irrazionalità, avevo completato la prima mezz'ora di una sorveglianza destinata a durarne quattro o cinque, quando mi imbattei in Wemmick.

    «Salve, Mr. Pip», disse; «come sta? Non avrei davvero pensato che questa zona facesse parte del suo itinerario consueto».

    Spiegai che stavo aspettando qualcuno che sarebbe arrivato con la diligenza, e gli chiesi notizie del Castello e dell'Anziano.

    «Entrambi fiorenti, grazie», disse Wemmick, «in particolare l'Anziano. E in forma splendida. Compirà ottantadue anni al prossimo compleanno. Mi piacerebbe sparare ottantadue colpi, se i vicini non si lamentassero e se il mio cannone si dimostrasse all'altezza della pressione. Comunque, questi non sono discorsi che si addicono a Londra. Dove crede che stia andando?»

    «In ufficio?», dissi, perché si stava dirigendo da quella parte.

    «Quello che gli sta vicino», rispose Wemmick, «sto andando alla prigione di Newgate. Ci stiamo occupando di un caso di furto ai danni di un banchiere, al momento; sono appena andato a dare un'occhiata alla scena dell'azione, e ora devo scambiare un paio di parole col nostro cliente».

    «E il vostro cliente è responsabile del furto?», chiesi.

    «Che Iddio la benedica, anima e corpo, no», rispose Wemmick, molto asciutto. «Ma ne è stato accusato. Come potrebbe succedere a me o a lei. Ognuno di noi potrebbe venirne accusato, lei capisce».

    «Solo che nessuno di noi lo è», sottolineai.

    «Già!», disse Wemmick, toccandomi coll'indice sul petto. «Lei è molto profondo, Mr. Pip! Le piacerebbe dare un'occhiata a Newgate? Ha un po' di tempo a disposizione?».

    Avevo così tanto tempo a disposizione, che la proposta mi giunse come un sollievo, nonostante la sua incompatibilità col mio latente desiderio di tenere d'occhio la stazione delle diligenze. Borbottando che sarei andato a informarmi per vedere se avevo il tempo di andare con lui, entrai nell'ufficio e mi feci dire dall'impiegato, con la massima precisione e mettendo a dura prova la sua pazienza, a che ora, al più presto, sarebbe potuta arrivare la diligenza... cosa che sapevo fin da prima, perfettamente quanto lui. Poi raggiunsi Mr. Wemmick, e facendo finta di consultare il mio orologio e di essere sorpreso dell'informazione ricevuta, accettai la sua offerta.

    Arrivammo a Newgate in pochi minuti e, attraversata la portineria, dove alcuni ferri erano appesi alle pareti spoglie tra i regolamenti carcerari, ci ritrovammo dentro la prigione. A quel tempo le prigioni erano molto trascurate, e il periodo di reazione esagerata che fa seguito a tutte le malefatte pubbliche - e ne rappresenta sempre la punizione più durevole e severa - era ancora molto lontano. Così, i criminali non venivano alloggiati e nutriti meglio dei soldati (per non parlare dei poveri), e di rado appiccavano il fuoco alle loro prigioni con l'intenzione scusabile di migliorare il sapore della loro zuppa. Era l'ora delle visite quando Wemmick mi fece entrare; un garzone d'osteria stava facendo il suo giro con la birra, e i prigionieri, nei cortili dietro le sbarre, compravano la birra e chiaccheravano con gli amici; ed era uno spettacolo ripugnante, sgradevole, disordinato e deprimente.

    Mi sembrò che Wemmick passasse tra i detenuti nel modo in cui un giardiniere potrebbe passeggiare tra le sue piante. L'idea mi venne in mente per la prima volta quando, visto un germoglio spuntato durante la notte, egli disse: «Cosa, capitano Tom? Lei qui? Ah, davvero!», e anche: «Ma è forse Black Bill quello là dietro la cisterna? Be', non l'ho cercata in questi due mesi; come va?». E allo stesso modo, quando si fermava alle sbarre e prestava ascolto a quegli ansiosi sussurri - sempre uno alla volta - Wemmick, con la sua buca delle lettere perfettamente immobile, li guardava come se stesse prendendo dettagliata nota dei progressi che avevano fatto da quando li aveva osservati l'ultima volta, in vista della piena fioritura al processo.

    Era molto popolare, e capii che svolgeva la parte familiare dell'attività di Mr. Jaggers, sebbene qualcosa dell'aria di Mr. Jaggers aleggiasse anche su di lui, vietando l'intimità oltre certi limiti. Il suo modo personale di far capire che aveva riconosciuto i diversi clienti, era racchiuso in un cenno del capo, accompagnato dal gesto con cui si sistemava un po' più comodamente il cappello sulla testa con entrambe le mani, e poi serrava la buca delle lettere e si metteva le mani in tasca. In una o due occasioni, si presentò qualche difficoltà per il pagamento delle parcelle, e allora Mr. Wemmick, indietreggiando il più possibile davanti al denaro insufficiente che gli veniva offerto, diceva: «È inutile, ragazzo mio. Io sono solo un dipendente. Non posso prenderlo. Non continuare a comportarti così con un dipendente. Se non sei in grado di mettere insieme la tua quota minima, ragazzo mio, faresti meglio a rivolgerti a un rappresentante; ce n'è in abbondanza nella nostra professione, lo sai, e quello che può non bastare con uno, può bastare con un altro; questo è il mio consiglio, parlando da dipendente. Non provare con delle somme insufficienti. Perché dovresti? Allora, chi è il prossimo?».

    Così, passeggiammo per la serra di Wemmick, finché egli si girò verso di me e mi disse: «Osservi l'uomo al quale ora stringerò la mano». Lo avrei fatto comunque, anche senza il suo avvertimento, perché finora non aveva stretto la mano a nessuno.

    Aveva appena finito di parlare, che un uomo prestante e ben diritto (che mi sembra di rivedere ora, mentre scrivo), con una giubba militare color verde oliva molto consunta, e sul viso uno strano pallore diffuso che copriva il rossore della sua carnagione, e occhi che vagavano qua e là quando cercava di fissarli su un oggetto, si avvicinò da un angolo dell'inferriata, si portò la mano al cappello - che aveva una superficie untuosa e grassa simile a un brodo freddo - con un saluto militare a metà tra il serio e il faceto.

    «Colonnello, saluti a lei!», disse Wemmick. «Come sta, colonnello?»

    «Benone, Mr. Wemmick».

    «Si è fatto tutto quello che si poteva fare, ma le prove erano troppo schiaccianti, colonnello».

    «Sì, erano troppo schiaccianti, signore... ma a me non importa niente».

    «No, no, certo», disse Wemmick, freddamente, «a lei non importa niente». Poi, rivolgendosi a me: «Quest'uomo è stato al servizio di Sua Maestà. Ha fatto il soldato e ha pagato per essere messo in congedo».

    Io dissi: «Davvero?», e gli occhi dell'uomo mi guardarono, e poi guardarono sopra la mia testa, e poi guardarono tutt'intorno a me, e poi si passò una mano sulle labbra e rise.

    «Penso che ne uscirò lunedì, signore», disse a Wemmick.

    «Forse», rispose il mio amico, «ma non si sa mai».

    «Sono lieto di aver avuto l'opportunità di dirle addio, Mr. Wemmick», disse l'uomo, allungando la mano tra due sbarre.

    «Grazie», disse Wemmick, stringendogli la mano. «Anch'io, colonnello».

    «Se quello che avevo addosso quando sono stato preso fosse stato vero, Mr. Wemmick», disse l'uomo, riluttante a lasciar andare la mano, «le avrei chiesto il favore di portare un altro anello... come segno di riconoscenza per le sue attenzioni».

    «Accetto la buona intenzione», disse Wemmick. «A proposito, lei era un appassionato di piccioni, se non sbaglio». L'uomo alzò gli occhi al cielo. «Mi è stato detto che aveva uno stupendo allevamento di piccioni tombolieri. Potrebbe incaricare un suo amico qualsiasi di portarmene un paio, se non sa più che farsene?»

    «Sarà fatto, signore».

    «Molto bene», disse Wemmick, «saranno tenuti con gran cura. Buon pomeriggio, colonnello. Addio!». Si strinsero nuovamente la mano, e mentre ci allontanavamo Wemmick mi disse: «Un falsario, un ottimo artigiano. Il rapporto per il Segretario di Stato verrà steso oggi, e lui sicuramente verrà giustiziato lunedì. Comunque, lei capisce, anche un paio di piccioni è pur sempre un bene mobile». Ciò dicendo si voltò indietro, fece un cenno di saluto alla sua pianta morta e poi, uscendo dal cortile, si diede un'occhiata intorno, quasi si stesse chiedendo quale altro vaso potesse star meglio al suo posto.

    Nel lasciare la prigione passando per la portineria, mi resi conto che i secondini non apprezzavano certo meno di coloro che avevano in custodia la grande importanza del mio tutore. «Bene, Mr. Wemmick», disse il secondino che ci trattenne tra due cancelli muniti di punte di ferro e di borchie, chiudendone accuratamente uno prima di aprire l'altro, «che ha intenzione di fare, Mr. Jaggers, con quell'assassino del fiume? Lo farà passare per omicidio non premeditato?»

    «Perché non lo chiede a lui?», rispose Wemmick.

    «Oh sì, proprio!», disse il secondino.

    «Ecco, è così che fanno tutti qui, Mr. Pip», osservò Wemmick, rivolgendosi a me con la buca delle lettere allungata. «Non c'è cosa che non chiedano a me, il dipendente; ma non li sorprenderà mai a fare una sola domanda al mio principale».

    «Questo giovanotto è uno degli apprendisti o praticanti del vostro ufficio?», chiese il secondino, sogghignando alla battuta di Mr. Wemmick.

    «Ed ecco che ci riprova, vede!», esclamò Wemmick. «Gliel'ho detto! Fa' un'altra domanda al dipendente, prima che la precedente si sia raffreddata! Be', e se Mr. Pip fosse davvero uno di quelli?»

    «Be', allora», disse il secondino, sogghignando di nuovo, «sa chi è Mr. Jaggers».

    «Già!», esclamò Wemmick, dando improvvisamente un colpetto al secondino con fare scherzoso. «Lei diventa muto come una delle sue chiavi quando ha a che fare col mio principale, lo sa bene. Ci faccia uscire, o gli dirò di avviare un'azione contro di lei per imprigionamento abusivo».

    Il secondino rise e ci augurò una buona giornata, e continuò a ridere, al di sopra delle punte ferrate del cancello, mentre ci guardava scendere la gradinata verso la strada.

    «Sa, Mr. Pip», mi disse Wemmick gravemente in un orecchio, mentre mi prendeva per un braccio per essere più confidenziale, «credo che Mr. Jaggers faccia benissimo a mantenere a dovere le distanze. Si comporta sempre con fare estremamente distaccato. La sua costante superiorità è perfettamente in carattere con le sue immense abilità. Il colonnello non oserebbe prendere congedo da lui, proprio come quel secondino non oserebbe mai chiedergli le sue intenzioni in merito a una causa. Allora, tra la sua distanza e loro, lui infila il suo dipendente... capisce?... e così li ha completamente in pugno, anima e corpo».

    Fui molto impressionato, e non per la prima volta, dall'acume del mio tutore. A dire la verità, desiderai di cuore, e non per la prima volta, di avere un altro tutore meno capace di lui.

    Mi separai da Mr. Wemmick allo studio di Little Britain dove, come al solito, indugiavano dei postulanti che speravano di ottenere l'attenzione di Mr. Jaggers, e tornai a fare la guardia alla stazione di posta, con circa tre ore a mia disposizione. Trascorsi tutto il tempo a pensare come fosse strano che dovessi essere circondato da quest'atmosfera corrotta di prigione e crimine; che vi fossi venuto in contatto per la prima volta in una sera d'inverno della mia infanzia, là nella nostra palude solitaria; che fosse ricomparsa in due occasioni, riaffiorando come una macchia sbiadita ma non scomparsa; che, in questa nuova forma, dovesse permeare la mia sorte e il mio avanzamento nella vita. Mentre la mia mente era così occupata, pensai alla bella e giovane Estella, orgogliosa e raffinata, che mi stava venendo incontro, e pensai con assoluta repulsione al contrasto tra lei e la prigione. Desiderai che Wemmick non mi avesse visto, o che io non avessi acconsentito ad andare con lui, affinché proprio quel giorno, tra tutti i giorni dell'anno, non mi fossi ritrovato con Newgate nel respiro e sugli abiti. Mi scossi via la prigione dalle scarpe mentre passeggiavo avanti e indietro, e me la spolverai via dai vestiti, e ne espulsi l'aria dai polmoni. Mi sentivo così contaminato, al pensiero di chi stava per arrivare, che la diligenza arrivò troppo presto, alla fine, e non mi ero ancora liberato dalla lordante consapevolezza della serra di Mr. Wemmick, quando vidi il volto di Estella al finestrino della diligenza, e la sua mano che mi salutava.

    Che cos'era quell'ombra senza nome che era di nuovo passata in quell'istante?

    Capitolo trentatreesimo

    Nel suo abito da viaggio foderato di pelliccia, Estella appariva di una bellezza ancor più raffinata di quanto fosse mai apparsa finora, persino ai miei occhi. I suoi modi erano più seducenti di quanto si fosse curata di farli essere con me, in passato, e in quel cambiamento pensai di ravvisare l'influenza di Miss Havisham.

    Restammo nel cortile della locanda della posta mentre lei mi indicava i suoi bagagli, e quando tutto fu radunato mi ricordai - avendo dimenticato tutto, nel frattempo, meno che lei - che non sapevo nulla della sua destinazione.

    «Vado a Richmond», mi disse. «Le nostre istruzioni dicono che ci sono due Richmond, una nel Surrey e una nello Yorkshire, e che la mia è la Richmond nel Surrey. La distanza è di dieci miglia. Devo prendere una carrozza e tu devi venire con me. Questa è la mia borsa, devi pagare le mie spese con questo denaro. Oh, devi prendere la borsa! Non abbiamo altra scelta, tu e io, non possiamo che obbedire alle istruzioni. Non siamo liberi di seguire i nostri piani, tu e io».

    Poiché nel porgermi il borsellino mi guardò, sperai che ci fosse un significato recondito in quelle parole. Le pronunciò in modo sdegnato, ma non dispiaciuto.

    «Manderemo a chiamare una carrozza, Estella. Vuoi riposarti un poco?»

    «Sì, devo riposarmi un po', e devo bere del tè, e nel frattempo tu devi prenderti cura di me».

    Infilò il suo braccio sotto il mio, come se si dovesse fare così, e io chiesi a un cameriere, che era rimasto a fissare la diligenza come se non avesse mai visto nulla di simile in vita sua, di accompagnarci in un salottino riservato. Alle mie parole, egli tirò fuori un tovagliolo, come se fosse un filo magico senza il quale non gli sarebbe stato possibile arrivare al piano superiore, e ci condusse in un buco nero dello stabile, arredato con uno specchio che rimpiccioliva (un articolo decisamente superfluo, considerate le dimensioni del buco), un'ampolla di salsa di acciughe e gli zoccoli di chissà chi. Alle mie proteste, ci guidò in un'altra stanza con un tavolo per trenta persone e nel focolare, sotto un mucchietto di cenere, il foglio bruciacchiato di un quaderno. Dopo aver guardato i residui di quell'estinta conflagrazione e aver scosso la testa, prese la mia ordinazione e, riducendosi essa semplicemente a: «Un po' di tè per la signorina», se ne andò in uno stato d'animo molto depresso.

    Ero, e sono, consapevole che l'aria di quella stanza, con la sua forte combinazione di odori di stalla e brodo, avrebbe potuto far pensare che il settore delle diligenze non andasse particolarmente bene, e che l'intraprendente proprietario stesse facendo bollire i cavalli per il settore alimentare. Eppure la stanza era tutto per me, perché Estella era lì. Pensai che con lei avrei potuto vivere lì, felice, per tutta la vita. (Non mi sentivo affatto felice, lì, in quel momento, si noti bene, e lo sapevo perfettamente).

    «Dove andrai a stare a Richmond?», chiesi a Estella.

    «Starò», disse, «a prezzo molto alto, da una dama di lì, che può - o almeno così dice - portarmi in giro, e presentarmi a diversa gente, e mostrare loro a me e me a loro».

    «Suppongo che sarai felice di tanta varietà e ammirazione». «Sì, suppongo di sì».

    Rispose con una tale noncuranza, che dissi: «Parli di te come se parlassi di qualcun altro».

    «Che ne sai di come parlo degli altri? Su, su», disse Estella, sorridendo in modo divertito, «non devi aspettarti che venga a scuola da te; devo parlare a modo mio. Come va con Mr. Pocket?»

    «Mi trovo molto bene, lì; almeno...», mi parve che stessi perdendo un'occasione favorevole.

    «Almeno?», ripetè Estella.

    «Per quanto mi è possibile trovarmi bene in qualsiasi posto, lontano da te».

    «Sciocco ragazzo», disse Estella con la massima compostezza, «come puoi dire simili stupidaggini? Il tuo amico, Mr. Matthew, è superiore al resto della famiglia, vero?»

    «Decisamente superiore, senza dubbio. Non è nemico di nessuno...».

    «Non aggiungere se non di se stesso», mi interruppe Estella, «perché odio quel tipo di uomini. Ma è vero che è disinteressato, e al di sopra delle piccole invidie e delle ripicche, come ho sentito dire?»

    «Ho tutte le ragioni di affermarlo».

    «Mentre non hai tutte le ragioni di dire lo stesso del resto della sua famiglia», disse Estella, annuendo verso di me, in viso un'espressione insieme seria e beffarda, «perché tempestano Miss Havisham di racconti e insinuazioni a tuo danno. Ti spiano, ti dipingono sotto una falsa luce, scrivono delle lettere contro di te (qualche volta anonime): insomma, tu sei il tormento e l'occupazione della loro vita. Non puoi renderti conto veramente dell'odio che quelle persone provano per te».

    «Non mi faranno del male, spero?», dissi.

    Invece di rispondere, Estella scoppiò a ridere, e a me parve tanto strano che la guardai notevolmente perplesso. Quando smise - e non aveva riso in modo languido, ma con vero gusto - dissi, con la mia solita diffidenza nei suoi confronti:

    «Spero di poter suppore che non ti divertiresti, se mi facessero del male».

    «No, no, puoi esserne sicuro», disse Estella. «Puoi essere sicuro che rido perché non ci riescono. Oh, quella gente con Miss Havisham, e le torture cui si sottopongono!». Rise di nuovo, e anche ora che me ne aveva detto il motivo, la sua risata mi parve molto strana: non potevo infatti dubitare che fosse sincera, eppure mi sembrava eccessiva per l'occasione. Pensai che ci dovesse essere veramente più di quanto sapessi; ella lesse il pensiero che attraversava la mia mente e vi rispose.

    «Nemmeno per te è facile», disse Estella, «capire la soddisfazione che mi dà vedere quella gente frustrata nei suoi tentativi, o il piacevole senso del ridicolo che provo a vederli cadere nel ridicolo. Perché tu non sei cresciuto fin da piccolo in quella strana casa. Io sì. Tu non hai dovuto aguzzare il tuo piccolo ingegno per via dei loro intrighi contro di te, oppresso e indifeso, mascherati dietro la finzione della simpatia e della compassione e di quant'altro c'è di dolce e consolante. Io sì. Tu non hai spalancato a poco a poco i tuoi occhi rotondi di bambino alla scoperta di una donna tanto ingannatrice da calcolare le sue riserve di pace mentale, per quando si sveglia di notte. Io sì».

    Ora Estella non rideva più, né rievocava questi ricordi da un luogo superficiale della memoria. Non avrei voluto essere la causa di quell'espressione, per tutte le mie speranze messe insieme.

    «Due cose posso dirti», disse Estella. «Primo, nonostante il proverbio che l'acqua cheta rode i ponti, puoi stare tranquillo perché quella gente non riuscirà mai - non ci riuscirebbe nemmeno in cento anni - a farti perdere terreno con Miss Havisham, in nessuna cosa, piccola o grande. Secondo, ti sono grata per essere la causa dei loro vani e meschini raggiri, e per questo ti do la mano».

    Nel momento in cui mi diede scherzando la sua mano - il suo umore più cupo era durato solo un attimo - io la presi e la portai alle labbra. «Ragazzo ridicolo», disse Estella, «non vuoi proprio imparare, dunque? O mi baci la mano con lo stesso sentimento con cui io una volta ti ho permesso di baciarmi la guancia?»

    «Che sentimento era?», dissi.

    «Devo pensarci un attimo. Un sentimento di disprezzo per gli adulatori servili e per i cospiratori».

    «Se dico di sì, posso baciarti nuovamente la guancia?»

    «Avresti dovuto chiederlo prima di baciarmi la mano. Ma, sì, se ti fa piacere».

    Mi chinai, e il suo volto calmo era come quello di una statua. «Ora», disse Estella, scivolando via nel momento in cui le sfiorai la guancia, «devi preoccuparti di farmi portare il tè, e devi condurmi a Richmond».

    Il suo tornare a questo tono, come se la reciproca compagnia ci fosse imposta e noi non fossimo che delle marionette, mi fece soffrire; ma tutto nei nostri rapporti mi faceva soffrire. Qualunque fosse il suo tono con me, non potevo fidarmene, né fondare su di esso alcuna speranza; eppure persistevo, contro la fiducia e contro la speranza. Perché ripeterlo mille volte? Era sempre così.

    Suonai per il tè, e il cameriere, riapparendo col suo filo magico, portò gradualmente una cinquantina di accessori per quella bevanda, ma del tè nemmeno l'ombra. Un vassoio da tè, tazze e piattini, piatti, coltelli e forchette (incluse quelle per trinciare), cucchiai (svariati), saliere, una piccola docile focaccina segregata con la massima precauzione sotto un robusto coperchio di ferro, Mosè tra i giunchi, rappresentato da un morbido pezzetto di burro in una gran quantità di prezzemolo, una pallida pagnottina con la testa incipriata, due calchi di prova delle sbarre del focolare della cucina su dei pezzetti triangolari di pane, e infine una grossa teiera da famiglia, con cui il cameriere entrò barcollando ed esprimendo in volto sofferenza e fatica. Dopo una prolungata assenza a questo stadio dell'intrattenimento, tornò infine con un cofanetto dall'aspetto prezioso, contenente dei rametti. Li immersi nell'acqua calda, e così, dall'insieme di tutti questi accessori, ricavai una tazza di non so che, per Estella.

    Pagato il conto, e ricordato il cameriere, non dimenticato lo stalliere, e presa in considerazione la cameriera... in una parola, corrotta tutta la locanda, tanto da provocare uno stato d'animo generale di disprezzo e animosità, e alleggerita di molto la borsa di Estella... salimmo sulla nostra carrozza della posta e ci avviammo. Svoltato per Cheapside e percorsa con gran frastuono la strada di Newgate, ci trovammo presto sotto le mura delle quali mi vergognavo tanto.

    «Che è quell'edificio?», mi chiese Estella.

    In un primo momento finsi scioccamente di non riconoscerlo, poi glielo dissi. Dopo che lo ebbe guardato ed ebbe ritirato il capo, mormorando: «Sventurati!», non le avrei confessato la mia visita per nulla al mondo.

    «Mr. Jaggers», dissi, cercando di riversare tutto su qualcun altro, «ha la fama di essere addentro nei segreti di quel lugubre posto, più di chiunque altro a Londra».

    «Lui è più addentro di altri nei segreti di qualsiasi posto, credo», disse Estella a bassa voce.

    «Immagino che sarai abituata a vederlo spesso?»

    «L'ho sempre visto a intervalli regolari, da che ho memoria. Eppure, non lo conosco meglio ora di quanto lo conoscessi quando non sapevo ancora parlare bene. E tu, che cosa sai di lui? I vostri rapporti sono buoni?»

    «Da quando mi sono abituato ai suoi modi diffidenti», dissi, «me la sono cavata molto bene».

    «Siete intimi?»

    «Ho cenato una volta a casa sua».

    «Immagino», disse Estella rabbrividendo, «che debba essere un posto bizzarro».

    «È un posto bizzarro».

    Avrei dovuto essere cauto e non parlare troppo liberamente del mio tutore nemmeno con lei; ma sarei anche arrivato a descrivere la cena a Gerrard Street se, proprio in quel momento, non ci fossimo trovati all'improvviso nel pieno bagliore di un lampione a gas. Finché durò, tutto parve essere infiammato e ravvivato da quell'inesplicabile sensazione che avevo avuto in precedenza; e quando ne fummo fuori, per alcuni istanti rimasi abbacinato come se fossi stato esposto a un lampo.

    Così iniziammo a parlare di altro, e soprattutto della strada che stavamo percorrendo, e di quali parti di Londra si trovassero su un lato e quali sull'altro, e di cosa si trovasse dove. La grande città le era quasi completamente sconosciuta, mi disse, perché non aveva mai lasciato il quartiere della casa di Miss Havisham prima di recarsi in Francia, e anche allora, sia all'andata che al ritorno, si era semplicemente limitata ad attraversare Londra. Le chiesi se fosse affidata al mio tutore per la durata della sua permanenza lì, al che lei rispose con molta enfasi: «Dio non voglia!», e non aggiunse altro.

    Mi era impossibile fare a meno di

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