In/movimento: Territorio, beni comuni, politica
Di Matteo Massi
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Anteprima del libro
In/movimento - Matteo Massi
Bue
Il libro
I partiti sono morti o stanno morendo. La fiducia nella politica e nelle istituzioni è scesa a percentuali di una sola cifra. Ma altre forme di partecipazione si diffondono. In ogni parte del mondo. Nei Paesi ricchi e in quelli poveri, nelle economie in crisi e in quelle emergenti. Sono i movimenti: realtà composite ed eterogenee che hanno in comune il rifiuto di ogni organizzazione burocratica e, spesso, di ogni forma organizzata tout court. L’Italia del terzo millennio ne ha conosciuto una vera e propria fioritura, spesso seguita da una rapida scomparsa. Ma che cosa sono in realtà i movimenti, come si rapportano con la società e con la politica? Si colloca qui il reportage di Matteo Massi, che ripercorre vittorie, sconfitte, difficoltà di questo arcipelago soffermandosi, in particolare, sulle esperienze più longeve o di maggior impatto: il popolo di Genova per un altro mondo, i forum dell’acqua, il movimento No Tav.
L’autore
Matteo Massi, nato a Senigallia, nel 1979, si è laureato in teorie e tecniche del linguaggio cinematografico. Giornalista professionista, vive a Bologna e lavora alla redazione Interni-Esteri di Quotidiano Nazionale (il Resto del Carlino - La Nazione - Il Giorno). In passato ha collaborato con La Gazzetta dello Sport e Narcomafie. Sul sito internet www.quotidiano.net ha un blog che si chiama Blow Up (http://blog.quotidiano.net/massi), in cui si occupa di musica e di produzioni indipendenti. Ha anche un blog personale (http://matteomassi.wordpress.com).
Indice
Introduzione
Un altro mondo era possibile
L’acqua è nostra
Quel treno per Lione
La democrazia oltre i partiti
Ringraziamenti
Movimenti, associazioni, iniziative, gruppi
Aiuti per la lettura
Introduzione
Non può essere solo una questione semantica. Un participio passato (statico), contro un sostantivo (dinamico). Partito contro movimento. Non è un derby sulla politica, ma è il bipolarismo vero, non sempre efficace, degli ultimi tre lustri in Italia, che si rivela di fronte a una sola domanda: chi ci rappresenta?
La partita si gioca tutta o quasi sul concetto di rappresentanza ed è inevitabilmente anche storica. La democrazia rappresentativa così come è stata teorizzata e spesso praticata in malo, malissimo modo in Italia, rischia di essere spazzata via. I partiti, nella storia repubblicana, hanno avuto sempre un ruolo fondamentale. Ma adesso l’idea stessa di partito, come derivava dall’inizio del Novecento, è in discussione e rischia di essere travolta dagli eventi: la struttura verticistica, con una rigorosa divisione dei ruoli, è un retaggio del passato ed è ormai fuori tempo massimo, perché non sembra più applicabile alla realtà.
Una cartina geografica superata. La distanza, infatti, tra quella che veniva considerata la base del partito, solida per definizione e non fluttuante come ora («liquida» per dirla alla Bauman, riprendendo anche l’analisi di Marco Revelli in Finale di Partito)¹, e i vertici si è allungata sempre di più, tanto da trasformarsi in vera e propria sfiducia generalizzata. Colpa di una selezione poco accorta della classe dirigente, ma anche di un maggior livello di scolarizzazione degli elettori (spesso superiore a quello dei leader politici o presunti tali). Colpa di una spinta all’autodeterminazione che non intercetta più gli interessi del partito. Anche perché questo sembra troppo ripiegato su stesso, a guardarsi l’ombelico anche di fronte agli scandali che inquinano il Paese (dal finanziamento pubblico eccessivo e usato in modo improprio agli incredibili rimborsi chiesti dai consiglieri regionali per soddisfare qualsiasi esigenza personale).
Il cocktail micidiale italiano si arricchisce poi di un sistema elettorale, il Porcellum (nomen est omen, dicevano i latini), che rende i partiti e i loro rappresentanti mondi completamente lontani dalla realtà. Gli elettori non scelgono un bel nulla, si fidano o meglio si dovrebbero fidare dei partiti: ma non è più così, come dimostrano impietosamente i dati delle affluenze alle ultime tornate elettorali.
E se, come succede nel centrodestra, il partito personale, o del capo, si arrabatta a livello nazionale rimediando sconfitte a livello locale, in generale i partiti non riescono più a incidere nella vita pubblica. Un po’ per l’inevitabile sfiducia degli elettori, un po’ anche per un sistema italiano sempre di più a sovranità limitata. Dal novembre 2011 a oggi abbiamo avuto due Governi che non hanno rappresentato minimamente il voto uscito dalle urne. Prima il Governo tecnico di Mario Monti e poi quello a larghe intese di Enrico Letta. Inquietanti segnali di una democrazia eterodiretta dai mercati e dagli organismi di controllo europei.
Di fronte ai partiti che emettono gli ultimi gemiti, c’è stata, dalla fine degli anni Novanta del secolo scorso, una proliferazione di movimenti. Padre Alex Zanotelli, in prima linea per la battaglia altermondista e per quella referendaria sull’acqua pubblica, dice con una vena malinconica: «A quell’epoca l’Italia aveva la più numerosa e vivace cittadinanza attiva d’Europa». Vero, ma poi cos’è successo?
I movimenti hanno rappresentato una parte importante della storia d’Italia degli ultimi vent’anni. Hanno fatto politica senza bisogno di servirsi dell’antipolitica, prassi ormai consolidata in questi tempi. Hanno commesso, inevitabilmente, errori, perché l’orizzontalità come modello è stata più spesso teorizzata che praticata e perché altrettanto spesso l’eccessiva autoreferenzialità ne ha distorto il campo visivo. Il leaderismo, poi, si è insinuato anche tra le loro pieghe, producendo sconquassi e divisioni. La storia dei movimenti degli ultimi tre lustri, quindi, non può essere agiografica e acritica. In essa colpisce lo spontaneismo, che supera le coordinate che continuiamo a seguire per un’etichettatura più facile (ma non sempre efficace), e si traduce, banalmente, nella voglia di esserci, di fare, di sporcarsi le mani
.
Ma che cos’è un movimento? E quali sono i parametri per una definizione?
La nuova resistenza – come la chiama Antonino Caponnetto dopo lo sconforto per le stragi di Capaci e via D’Amelio – può essere definita un movimento? In quella tremenda estate del 1992 ci sono lenzuola bianche esposte alle finestre di Palermo, ci sono giovani che in corteo sfilano per le vie del centro, davanti alle case dei boss, che chiedono misure, leggi più stringenti per combattere la mafia. Un anno dopo – sia o meno una derivazione dello spontaneismo palermitano che contagia l’Italia frastornata dalle morti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – nasce Libera. Un’associazione, una rete di associazioni, forte sui territori e con un coordinamento centrale, in grado di muovere persone e idee. Un’organizzazione strutturata, insomma, solida e con una divisione di ruoli ben definita.
Tre anni dopo, nel 1996, arriva un primo risultato concreto: la legge 109, quella sul riutilizzo dei beni sociali confiscati alle mafie, considerata un modello anche dal Parlamento europeo che si prepara a varare una legge in tal senso. È una vittoria, un esempio concreto di come, pur non essendo un partito, si possa incidere sull’agire pubblico. Ma Libera può considerarsi movimento? Di certo rappresenta, meglio dei partiti (anche di sinistra o di quello che resta della sinistra), una base impegnata e attiva nella lotta alla mafia che chiede segnali. E dei segnali – leggi o proposte di legge di iniziativa popolare, un modo per avvicinarsi al concetto di democrazia partecipativa – arrivano.
Dopo vent’anni Libera è ancora lì a battersi sugli stessi temi, con proposte concrete come la richiesta di una legge anticorruzione. Con la campagna «Riparte il futuro» (lanciata insieme al Gruppo Abele) ha pubblicamente chiesto ai candidati alle ultime elezioni politiche di prendere posizione e impegnarsi contro un malaffare che continua a divorare l’Italia (solo nel 2011 la corruzione ha pesato sulle casse dello Stato per sessanta miliardi di euro, secondo l’allarme lanciato dalla Corte dei Conti). L’ultima battaglia è quella per la proposta di legge di iniziativa popolare «Io riattivo il lavoro» per far ripartire, in un percorso di legalità che crei anche occupazione, le aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata. Un’operazione che vede impegnate anche cgil e arci. E i politici dei partiti dove sono? Aspettano. E intanto, il loro monopolio dell’agire pubblico viene eroso, giorno dopo giorno, da chi si muove e rappresenta le esigenze di quanti stentano a riconoscersi nei simboli politici e manifestano insofferenza crescente verso gli appuntamenti elettorali. L’avvicinamento alla società civile si trasforma in marketing politico, con la candidatura di esponenti di associazioni o comitati. Operazioni di facciata che non riescono ad arginare la caduta verticale della fiducia nei confronti dei partiti.
Ancora. Dalla metà degli anni Novanta, mentre l’invenzione linguistica della Seconda Repubblica mostra tutti i limiti delle definizioni gattopardesche (cambia tutto per non cambiare niente
), arriva un’altra ventata che investe soprattutto la sinistra, concentrata a riattivare quella «gioiosa macchina da guerra» (la definizione era dell’allora segretario del pds, Achille Occhetto) che si era schiantata contro Silvio Berlusconi.
All’inizio del berlusconismo, il 25 aprile 1994, è una lettera di don Giuseppe Dossetti, padre costituente rifugiatosi, dopo aver abbandonato la politica, nell’abbazia di Monteveglio, indirizzata all’allora sindaco