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Diritti e poteri
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E-book262 pagine3 ore

Diritti e poteri

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Info su questo ebook

Tra garanzia dei diritti e limitazione dei poteri esiste un nesso strettissimo, per questo parlare di diritti e di poteri significa parlare di democrazia e di partecipazione. Questo libro raccoglie i testi delle lezioni tenute, nel 2013, da studiosi di varie discipline nell’ambito delle attività della Scuola per la buona politica di Torino.
Contributi di: Maria Vittoria Ballestrero, Luigi Bonanate, Michelangelo Bovero, Paolo Comanducci, Luigi Ferrajoli, Maurizio Franzini, Massimo Luciani, Peppino Ortoleva, Elena Paciotti, Valentina Pazé, Adriano Prosperi, Giorgio Sobrino.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2021
ISBN9788865792476
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    Diritti e poteri - Michelangelo Bovero

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    Diritti e poteri

    a cura di

    Michelangelo Bovero, Valentina Pazé

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    Edizioni Gruppo Abele

    © 2021 Edizioni Gruppo Abele Impresa Sociale srl

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500

    edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    ISBN 9788865792476

    Edizione per la stampa

    © 2013 Associazione Gruppo Abele onlus

    In copertina: scultura di Michele Fabbricatore

    (www.michelefabbricatore.it)

    Segui le promozioni e le attività della casa editrice:

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    instagram.com/edizionigruppoabele

    Il libro

    Tra garanzia dei diritti e limitazione dei poteri esiste un nesso strettissimo, per questo parlare di diritti e di poteri significa parlare di democrazia e di partecipazione. Questo libro raccoglie i testi delle lezioni tenute, nel 2013, da studiosi di varie discipline nell’ambito delle attività della Scuola per la buona politica di Torino.

    Contributi di: Maria Vittoria Ballestrero, Luigi Bonanate, Michelangelo Bovero, Paolo Comanducci, Luigi Ferrajoli, Maurizio Franzini, Massimo Luciani, Peppino Ortoleva, Elena Paciotti, Valentina Pazé, Adriano Prosperi, Giorgio Sobrino.

    Indice

    Introduzione

    Michelangelo Bovero e Valentina Pazé

    Parte prima

    Questa nostra Costituzione

    Il principio di eguaglianza (art. 3)

    Paolo Comanducci

    Il diritto al lavoro (art. 4)

    Maria Vittoria Ballestrero

    La libertà religiosa (art. 8)

    Adriano Prosperi

    L’Italia ripudia la guerra (art. 11)

    Luigi Bonanate

    La libertà di espressione (art. 21)

    Valentina Pazé

    Libertà economica e utilità sociale (art. 41)

    Massimo Luciani

    Parte seconda

    Poteri e contropoteri tra istituzioni e società civile

    Il potere, i poteri

    Michelangelo Bovero

    Il potere politico. Tra Stato e istituzioni sovrastatali

    Elena Paciotti

    Legislativo ed Esecutivo. Tra Parlamento e Governo

    Giorgio Sobrino

    Il potere giudiziario nel sistema delle garanzie

    Luigi Ferrajoli

    Il potere economico

    Maurizio Franzini

    Il potere ideologico. Totalitarismo e democrazia

    Peppino Ortoleva

    Gli autori/Le autrici

    Introduzione

    Michelangelo Bovero e Valentina Pazé

    Questo libro raccoglie i testi delle lezioni tenute da studiosi di varie discipline nell’ambito delle attività della Scuola per la buona politica di Torino (www.sbptorino.org). È, in questo senso, l’ideale prosecuzione di un precedente volumetto, La democrazia in nove lezioni (Laterza, 2010), frutto del primo anno di attività della stessa Scuola. Questa volta le lezioni sono dodici. Corrispondono, con alcune varianti, alle relazioni tenute nei corsi del 2011 e del 2012, che sono stati dedicati, rispettivamente, al tema dei diritti e a quello dei poteri. L’organizzazione del volume in due parti rispecchia l’ordine di successione in cui i vari interventi sono stati presentati, ma anche e soprattutto l’ordine normativo in cui i diritti e i poteri sono trattati nella nostra Costituzione, e in molti altri documenti analoghi: prima i diritti, poi i poteri.

    Le Costituzioni, nell’accezione moderna del termine, sono «patti di convivenza» finalizzati alla garanzia dei diritti e all’organizzazione e limitazione dei pubblici poteri. Come recita l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: «Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione». Tra garanzia dei diritti e limitazione dei poteri – attraverso la loro separazione, ma non solo – esiste un nesso strettissimo, di natura logica. La limitazione del potere è infatti lo strumento più efficace finora escogitato per garantire i diritti degli individui, che rappresentano i valori ultimi sui quali si fonda il contratto sociale.

    Oggi il modello di ordinamento politico e giuridico basato sulla garanzia dei diritti e sulla limitazione dei poteri è sotto attacco per ogni dove, non solo in Italia. L’evoluzione storica degli ultimi decenni, soprattutto dopo la fine del «secolo breve», ha fatto nascere e crescere nemici pericolosi della civiltà dei diritti e della divisione dei poteri, ossia del modello della democrazia costituzionale. Su scala mondiale, grandi soggetti economico-finanziari si impongono come poteri di fatto, extra legem, «selvaggi» – come li chiama Luigi Ferrajoli –, insofferenti a regole e vincoli. Accanto al potere economico globale, l’età contemporanea ha visto crescere in forme inedite quello che Bobbio chiamava «potere ideologico»: il potere di controllo sulle menti e sulle coscienze, un tempo monopolio dei «chierici», che oggi si esercita in modo capillare e pervasivo attraverso i media. Nello stesso periodo, si sono formati e sono divenuti egemoni nuovi soggetti e indirizzi politici, di natura neo-oligarchica, che cercano di sottrarsi ai controlli di legalità e di aggirare le procedure della democrazia parlamentare.

    Quanto sta avvenendo in questi mesi in Italia è emblematico. L’ultimo ventennio si è caratterizzato per la crescente insofferenza da parte dei governi nei confronti dei limiti costituzionali, che ha condotto all’approvazione di un numero abnorme di leggi poi dichiarate invalide e a ripetuti tentativi di mettere mano alla Carta del 1948 – si ricordi la riforma organica varata dalle Camere a maggioranza di destra nella XIV legislatura, poi bocciata dal referendum del 2006 – o ad alcune sue parti qualificanti, come l’articolo 1, l’articolo 41, l’organizzazione della Magistratura. Ora sembra essersi realizzato un ampio accordo tra forze di opposti (?) schieramenti politici sulla necessità di riformare alla radice la Costituzione. Di ridisegnarne completamente i connotati.

    In un periodo di crisi profonda, non solo economica, che investe le forme della rappresentanza politica e sociale, un Parlamento dalla debole legittimità democratica, eletto con una legge che la Corte ha giudicato in buona misura incostituzionale, sembra oggi più che mai determinato a realizzare la «grande riforma», che muterebbe l’Italia in una repubblica presidenziale o semipresidenziale (e forse non è superfluo ricordare che una simile riforma, agli albori della Repubblica, era originariamente nel programma del Movimento sociale italiano, erede del Partito nazionale fascista). Eleggere direttamente il capo dell’Esecutivo per restituire ai cittadini la possibilità di contare davvero? Per accrescere la «governabilità» e l’efficienza del sistema politico? È ciò che vogliono farci credere, ma entrambi gli argomenti sono contestabili alla radice. Per un verso, coloro che non avranno votato per il candidato vincente, quand’anche fossero il 49%, non avranno alcuna possibilità di contare, ossia di influire sull’indirizzo politico da questi promosso. Per l’altro verso, basterebbe riflettere sulle difficili e a volte drammatiche vicende che hanno segnato la storia recente di molti regimi presidenziali – da ultimo, mentre scriviamo queste pagine, quella dell’Egitto –, per rendersi conto della rigidità di una forma di governo che non consente ai cittadini di rimuovere in modo pacifico presidenti rivelatisi, dopo le elezioni, inadeguati a svolgere la loro funzione.

    Ma non è tutto. La riforma di cui oggi si discute viene presentata come se riguardasse esclusivamente la seconda parte della Costituzione, quella relativa all’organizzazione dei poteri. In realtà, se sarà realizzata, non potrà non avere effetti anche sulla prima parte. Si pensi a quanto già accaduto con la costituzionalizzazione del vincolo di pareggio di bilancio, in ossequio alle direttive provenienti dai vertici dell’Unione europea. Vietando, di fatto, a Parlamenti e Governi di adottare politiche economiche di ispirazione keynesiana, il nuovo articolo 81 entra in forte tensione con l’obbligo – anch’esso di rango costituzionale – di garantire i diritti sociali al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla previdenza.

    Il rischio che la nostra Costituzione venga nei prossimi mesi radicalmente riscritta e snaturata (con una procedura, oltretutto, che deroga a quella prevista dall’articolo 138) non sta suscitando l’allarme che ci si potrebbe aspettare nell’opinione pubblica. Eppure pochi anni fa, nel 2006, i cittadini avevano bocciato con un referendum la riforma voluta dalle destre, ispirata anch’essa all’obiettivo di spostare il baricentro del potere dal Parlamento a un Esecutivo rafforzato. Che cosa è successo nel frattempo? L’attuale disattenzione può forse essere spiegata, almeno in parte, con il carattere pressoché clandestino che ha finora assunto il dibattito sulle riforme, nel chiuso della commissione di «saggi» incaricata di avviarle. Ma il peso maggiore è dovuto probabilmente agli effetti diseducativi e cumulativi di vent’anni di «populismo mediatico», basato sulla sistematica disinformazione dei cittadini e sulla diffusione di idee semplificate e distorte, come quella secondo cui la democrazia coincide con l’onnipotenza della maggioranza.

    La Scuola per la buona politica di Torino è nata, nel 2008, proprio per tentare di reagire alla diseducazione politica diffusa, promuovendo spazi di discussione critica e informata su problemi di interesse collettivo. Speriamo, con questo piccolo volume, di offrire un ulteriore contributo a tale fine.

    Parte prima

    Questa nostra Costituzione

    Il principio di eguaglianza (art. 3)

    Paolo Comanducci

    1. Il principio di eguaglianza nella Costituzione italiana

    Recita l’articolo 3 della Costituzione italiana:

    Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

    È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

    Analoghe enunciazioni si incontrano in tutte le costituzioni moderne, a partire dalla Déclaration des droits de l’homme et du citoyen (1789), che all’articolo 1 lapidariamente proclama: «Gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti». In modo simile, il XIV emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America (1868) prescrive: «Nessuno Stato […] potrà […] negare a qualsiasi persona sotto la sua giurisdizione l’eguale protezione delle leggi».

    Tali testi costituzionali si ritiene che esprimano il principio di eguaglianza, che viene spesso distinto in formale e sostanziale: nella nostra Costituzione il principio formale sarebbe espresso dal primo comma dell’articolo 3, quello sostanziale dal secondo. Variamente intrecciato coi precedenti, e anch’esso previsto a livello costituzionale, vi è poi il principio di eguaglianza di fronte alla legge.

    Scopo di queste pagine è proporre, in primo luogo, una breve analisi dell’idea di eguaglianza nei vari contesti in cui essa si colloca, cui far seguire una rapida carrellata su alcune concezioni dell’eguaglianza in ambito morale e politico, per concentrarsi infine sull’eguaglianza in campo giuridico e in particolare sul principio di eguaglianza contenuto nella nostra Costituzione.

    2. Contesti d’uso

    Per analizzare l’eguaglianza, idea antichissima, multiforme e spesso sfuggente, è necessario situarla nei suoi differenti contesti d’uso: è infatti chiaro che il termine «eguaglianza» trasmette significati diversi a seconda dei discorsi nei quali viene impiegato. Si possono individuare almeno tre grandi contesti d’uso dell’idea di eguaglianza: quelli formalizzati, quelli descrittivi e quelli prescrittivi.

    Nei contesti formalizzati, ad esempio nei campi della matematica, della logica e della geometria euclidea, quando si sostiene che due entità sono eguali si intende dire che sono indistinguibili in tutte le loro caratteristiche. Un giudizio di eguaglianza, nei contesti formalizzati, si traduce quindi in una relazione di identità: dire che «uno più due è eguale a tre» equivale infatti a dire che il numero che è il risultato della somma di uno e due è (identico a) tre.

    Nei contesti descrittivi, quando si compiono cioè osservazioni o rilevazioni empiriche, l’eguaglianza è quel concetto mediante il quale si descrive, o si instaura, una relazione di comparazione tra due o più oggetti, che possiedono almeno una caratteristica rilevante in comune. L’importanza di tale caratteristica dipende dalla scelta di uno standard di valutazione, quello standard in base al quale si dice appunto che gli oggetti in questione sono eguali. Ad esempio due vasi possono essere descritti come eguali sulla base di almeno due caratteristiche che si potrebbero considerare rilevanti: la forma e il colore. Se i due vasi hanno la stessa forma e lo stesso colore, si dirà che i due vasi sono eguali, mentre si dirà che sono eguali di forma, ma non di colore, se si riscontrano tra loro soltanto delle differenze cromatiche. E tali giudizi dipendono ovviamente dalla applicazione di un comune standard di misurazione.

    Dire che due oggetti sono eguali non equivale però ad asserire che sono identici. Equivale ad asserire che, pur non essendo identici, si fa astrazione dalle loro differenze, le si trascurano, assumendo come rilevanti le caratteristiche che essi hanno in comune. Possono esservi infatti altri standard di misurazione, che non si sceglie di adottare nel momento in cui si formula un giudizio di eguaglianza fra due oggetti, applicando i quali si individuerebbero invece delle differenze. I due vasi dell’esempio potrebbero avere un diverso peso, una diversa età, una diversa composizione chimica eccetera, ma quando li si giudica eguali si stabilisce tra loro una relazione di equivalenza che non tiene conto di tutte quelle caratteristiche differenziali.

    Proferire un giudizio di eguaglianza, in contesti descrittivi, ossia asserire che due o più oggetti sono eguali, equivale dunque a dire che appartengono alla stessa classe logica, sulla base di una o più caratteristiche comuni. Dire, ad esempio, che due vasi sono eguali in peso comporta che appartengano alla stessa classe (l’insieme dei vasi che hanno eguale peso, sulla base di un medesimo standard di misurazione), che non possano appartenere ad altre classi (sulla base di quello stesso standard di misurazione) e che nessun altro vaso possa appartenere a quella classe, se non ha lo stesso peso. Un giudizio di eguaglianza (basato ad esempio sullo standard del peso) divide l’insieme degli oggetti, misurabili secondo quello standard, in due classi mutuamente esclusive e congiuntamente esaustive: rispettivamente, quella degli oggetti eguali tra loro sulla base dello standard e quella di tutti gli altri oggetti (che sulla base di quello stesso standard non sono eguali ai precedenti). Va ribadito peraltro che due oggetti che sono giudicati eguali, se misurati secondo uno standard, possono essere giudicati diseguali, se misurati secondo un differente standard: due vasi possono ovviamente essere eguali per il peso, e diversi per la forma.

    Anche l’idea di eguaglianza in contesti prescrittivi presenta analoghe proprietà. Nel campo della morale, della politica e del diritto, infatti, l’eguaglianza è quel concetto mediante il quale si prescrive, o si instaura, una relazione comparativa tra due o più soggetti, due o più azioni, due o più situazioni eccetera, che possiedono almeno una caratteristica rilevante in comune. La rilevanza di tale caratteristica dipende, anche nei contesti prescrittivi, dalla scelta di uno standard di valutazione, quello standard in base al quale i soggetti, le azioni o le situazioni sono appunto detti essere eguali.

    Nell’ambito etico a cui si farà d’ora in poi esclusivo riferimento – che è quello della filosofia pratica, ossia della morale, della politica e del diritto –, è una norma (o un criterio, o un principio) che prescrive di assumere come rilevanti alcune caratteristiche comuni a due o più soggetti, azioni o situazioni. È la norma (o il criterio, o il principio) in questione che istituisce l’eguaglianza.

    Entro un giudizio di eguaglianza vi è sempre, in ambito etico, un giudizio di valore, o, in altri termini, un giudizio di eguaglianza che non è solo descrittivo di fenomeni, non è avalutativo, non è neutrale. Ogni giudizio di eguaglianza presuppone, implicitamente o esplicitamente, la norma che istituisce l’eguaglianza, prescrivendo di astrarre dalle caratteristiche differenziali, per considerare rilevanti alcune caratteristiche comuni. Da ciò discende una conseguenza degna di nota: risultano infatti confutati, come logicamente erronei, tutti quegli argomenti che si presentano nella forma: «X e Y sono di fatto diversi, quindi non devono essere trattati in modo eguale» (ad esempio: «i neri sono meno intelligenti dei bianchi, è un fatto; quindi devono essere discriminati»; «le donne sono meno efficienti degli uomini, è un fatto; quindi devono essere discriminate», positivamente o negativamente qui non rileva). Questi argomenti derivano un dover essere (la prescrizione di un trattamento eguale o diverso) da un essere (un giudizio di fatto, sbagliato o corretto che sia), e sono perciò logicamente scorretti, configurando quella che viene definita una fallacia naturalistica.

    Non si può quindi criticare un giudizio di eguaglianza adducendo solo un fatto: è necessario addurre, oltre a questo fatto, una norma che prescriva di ritenere irrilevanti, anche e soprattutto, quelle caratteristiche che un’altra norma, quella istitutiva di eguaglianza, considera invece rilevanti.

    Un esempio. Per screditare, in ambito etico, il giudizio di eguaglianza secondo cui «le donne sono eguali agli uomini» non è sufficiente, da un punto di vista logico, addurre un giudizio di fatto relativo alle caratteristiche psico-fisiche che differenziano le donne dagli uomini. È necessario invece addurre una norma secondo cui quelle caratteristiche psico-fisiche differenziali debbono essere considerate rilevanti ai fini della formulazione del giudizio di eguaglianza, e debbono al contrario essere ritenute irrilevanti quelle caratteristiche (ad esempio l’appartenenza alla specie umana) che sono considerate rilevanti dalla norma che istituisce l’eguaglianza tra donne e uomini.

    In contesti prescrittivi, è possibile individuare un concetto unitario, abbastanza ben determinato, di eguaglianza, che ricomprende però molte differenti concezioni dell’eguaglianza. Il concetto può essere configurato come la classe cui appartengono tutte le concrete e particolari concezioni dell’eguaglianza; o come quel nocciolo di significato comune che il vocabolo «eguaglianza» mantiene in ogni suo uso prescrittivo. Il concetto è neutro, avalutativo, e, di per sé, non viene generalmente contestato. Ma poiché le varie concezioni che ricomprende sono assiologicamente connotate e controverse, sembra a volte che anche il concetto sia controverso, mentre in realtà non lo è. L’eguaglianza in contesti prescrittivi sembra così essere per tutti la stessa cosa e, contemporaneamente, cose diverse per persone differenti.

    Il concetto prescrittivo di eguaglianza consiste nell’idea secondo cui «si devono trattare gli eguali in modo eguale, e i diversi in modo diverso»: un’idea antica, presente già negli scritti di Platone (ad esempio nella Repubblica, nel Fedone, e nelle Leggi) e di Aristotele (ad esempio nella Politica e nell’Etica Nicomachea), e che è giunta più o meno invariata fino ai giorni nostri. Tale concetto è spesso definito come «formale», giacché non prescrive nulla di concreto fino a quando non venga riempito di un contenuto, non si chiarisca cioè chi sono gli eguali, e rispettivamente i diversi, ed in che cosa sono eguali, e rispettivamente diversi. Il concetto prescrittivo di eguaglianza equivale infatti al concetto di applicazione di una regola, o meglio di qualunque regola generale e astratta, secondo quanto da essa prescritto. Ogni regola di condotta istituisce una classe di eguali (i destinatari della regola stessa) e una classe di diversi (coloro cui la regola non si applica): e gli eguali sono tali proprio in quanto la regola li tratta nello stesso modo, e i diversi sono tali proprio in quanto la regola non si applica loro. Così come varia il contenuto delle differenti regole da applicare, pur rimanendo invariato il concetto di applicazione di una regola, altrettanto succede con l’eguaglianza: pur rimanendo invariato il concetto formale, variano le concezioni dell’eguaglianza, a seconda del contenuto che di volta in volta presentano.

    3. Concetto e concezioni dell’eguaglianza

    Quando si pongono problemi di giustizia distributiva, e si risolvono con la individuazione di qualche criterio sulla base del quale effettuare la distribuzione, il concetto di eguaglianza è sempre coinvolto, dato che, qualunque sia il criterio prescelto, esso necessariamente istituisce una relazione di eguaglianza tra i destinatari della distribuzione. Le differenti concezioni dell’eguaglianza competono invece (tra loro ed eventualmente con altri princìpi di giustizia) rispetto ai criteri sulla base dei quali effettuare la distribuzione stessa.

    Ogni tentativo di classificare le diverse concezioni dell’eguaglianza non può esimersi dal sottolineare la differenza tra quelle concezioni che pongono l’accento sull’eguaglianza dei punti di partenza e quelle che pongono l’accento sull’eguaglianza dei punti di arrivo, e tra quelle che vogliono realizzare un’eguale distribuzione di beni e quelle che vogliono realizzare un’eguale distribuzione di benessere. Tali differenze sono spesso trascurate nel dibattito politico, in cui vige un generale consenso sul fatto che ogni Stato, attraverso il diritto, debba assicurare a tutti i suoi cittadini una «eguaglianza di opportunità». Quest’ultima espressione è infatti fortemente ambigua: l’obiettivo dell’eguaglianza di opportunità gode di così largo favore proprio

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