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Chi ha ucciso Berta Cáceres?: Dighe, squadroni della morte e la battaglia di una difensora indigena per il pianeta
Chi ha ucciso Berta Cáceres?: Dighe, squadroni della morte e la battaglia di una difensora indigena per il pianeta
Chi ha ucciso Berta Cáceres?: Dighe, squadroni della morte e la battaglia di una difensora indigena per il pianeta
E-book396 pagine6 ore

Chi ha ucciso Berta Cáceres?: Dighe, squadroni della morte e la battaglia di una difensora indigena per il pianeta

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Info su questo ebook

"L’esercito ha una lista di persone da uccidere, con il mio nome in cima. Io voglio vivere, ma in Honduras l’impunità è totale. Quando vorranno ammazzarmi, lo faranno". Nel 2015 la leader indigena Berta Cáceres ha vinto il Goldman Prize, il premio ambientale più prestigioso al mondo, per aver guidato la campagna contro una diga idroelettrica finanziata dalle multinazionali sul fiume sacro del popolo Lenca. Meno di un anno dopo è stata uccisa. Nina Lakhani ripercorre la sua storia, il suo impegno a difesa dell’ambiente, dipingendo il ritratto intimo di una donna straordinaria, che si è battuta nonostante le intimidazioni e la morte di numerosi compagni. Ma al tempo stesso racconta la storia di un Paese, l'Honduras, oppresso dai poteri delle grandi aziende, del narcotraffico e dall’ombra degli Stati Uniti. Un'inchiesta potente, condotta con decine di interviste e anni di ricerche sul campo, nonostante le minacce ricevute dall'autrice, unica giornalista straniera ad assistere al processo in cui funzionari della sicurezza statale, sicari e dipendenti della compagnia incaricata della costruzione della diga sono stati condannati. Molte domande sui mandanti rimangono senza risposta.
LinguaItaliano
EditoreCapovolte
Data di uscita24 mag 2021
ISBN9791280361028
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    Anteprima del libro

    Chi ha ucciso Berta Cáceres? - Nina Lakhani

    Ringraziamenti

    Prologo

    Gli ultimi mesi della vita di Berta Cáceres furono pieni di segnali inquietanti. Appena prima del Natale 2015, Berta confidò alla sorella Agustina che la propria vita era in pericolo: «I messaggi non finiscono mai, le intimidazioni non finiscono mai, mi tengono sotto sorveglianza. A loro non importa che io abbia dei figli. Quei figli di puttana mi ammazzeranno».

    Berta era coinvolta in molte battaglie per la terra e per l’acqua, a fianco delle comunità indigene Lenca nell’Honduras occidentale. La lotta per fermare la costruzione di una diga idroelettrica sul fiume Gualcarque, nella comunità di Río Blanco, le causava però maggior preoccupazione del solito. Berta aveva detto ai figli di essere spaventata e aveva chiesto loro di prendere sul serio le minacce. «Mamma disse che c’era un gruppo di pericolosi sicarios [sicari, in spagnolo nel testo originale, ndt] che stava attaccando la comunità di Río Blanco e chiedendo di noi, le sue figlie», ha raccontato Laura, ventitré anni, la più giovane delle sorelle, tornata a casa dagli studi universitari in ostetricia per le vacanze di Natale. «Sapevo che le minacce erano serie perché non intendeva lasciarmi in casa da sola, neppure per una sola notte».

    Berta aveva ragione a sospettare che dei sicari fossero stati assoldati dalla DESA, l’impresa di costruzione della diga. Le accuse inventate dalla DESA contro di lei e altri leader del Consiglio civico delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras (COPINH) non erano riuscite a zittirli. Ora la DESA stava forse ricorrendo ad altri mezzi per fermare chi si opponeva?

    La sua sensazione d’inquietudine s’intensificò il 12 febbraio 2016. Quel giorno Douglas Bustillo, malvivente ex tenente dell’esercito ed ex capo della sicurezza della DESA, all’improvviso scrisse al vice di Berta al COPINH, Tomás Gómez Membreño, accusando lei di aver approfittato della battaglia di Río Blanco per vincere il prestigioso Goldman Environmental Prize.

    «Non avete lo stesso appoggio di prima, sembra che abbiate svenduto la vostra coscienza e i vostri ideali, avete lasciato sola la gente di La Tejera [a Río Blanco]... avete solo usato quelle persone per ottenere il premio della vostra capa e non le avete aiutate, nemmeno con un centro maternità, anche se lei ha ricevuto quasi quattro milioni. Ora la gente ha capito e non vi appoggerà».

    Tomás inoltrò il messaggio a Berta, che lo rimandò indietro a Bustillo e poi gli scrisse: «Non ti stanchi mai di fare da prestanome alla DESA, ripetendo tutto quel che dicono».

    «Ahahah. Non sono un prestanome, ho dimenticato tutto di quella compagnia», fu la risposta di Bustillo.

    Quattro giorni dopo, mentre lasciava Río Blanco in auto, l’auto di Berta fu seguita da due SUV con a bordo uomini armati del posto, che lei sapeva essere legati alla DESA.

    Il 20 febbraio, Berta guidò un convoglio al Gualcarque, fiume considerato sacro dal popolo Lenca, per opporsi al tentativo della compagnia di aggirare i diritti indigeni sulla terra spostando la diga dall’altra parte del fiume. La DESA fu informata della protesta tramite la sua rete di informatori pagati e convocò i suoi alleati politici e della sicurezza per ostacolare la manifestazione. Prima, i pullman e le auto del COPINH furono fermati a un posto di blocco dove tutte le persone furono costrette a uscire dai veicoli, gli uomini e le donne furono separati, registrati e fotografati da poliziotti e militari. Poi, un piccolo gruppo lanciò pietre e insulti. «Tu, vecchia strega, non tornerai mai più qui!», gridò a Berta il vice sindaco favorevole alla diga.

    Mentre la folla urlava, Sergio Rodríguez, il responsabile per le comunità e l’ambiente della DESA, salutò educatamente Berta prima di metterla in guardia dal tornare indietro. «Ci sono uomini armati al fiume, se le succederà qualcosa non ne saremo responsabili».

    «Non ce ne andremo, abbiamo il diritto di restare qui», rispose Berta. E ripartì.

    La strada pubblica verso il fiume, però, era bloccata da macchinari dell’azienda, quindi Berta avanzò a piedi sotto il sole feroce, dirigendosi all’accampamento alla diga. In attesa, lungo il sentiero faticoso e privo d’ombra, c’erano i ceffi, le guardie di sicurezza armate e i poliziotti assoldati, tra cui alcuni Tigre – una SWAT, Squadra armi e tattiche speciali, sostenuta dagli Usa, addestrata per il combattimento urbano.

    Un drone ronzava sulle loro teste scattando fotografie, mentre i dimostranti del COPINH lanciavano sassi contro i macchinari della compagnia. Il capo della sicurezza della DESA, l’ex maggiore della polizia Jorge Ávila, comparve con un macabro avvertimento: «En unos días, ustedes van a comer el hígado de una persona» [in spagnolo nel testo, ndt]. Tra pochi giorni, mangerete il fegato di qualcuno».

    Imperterrita, Berta proseguì con il gruppo esausto verso il fiume, sedendo poi sulla sponda ombrosa per riposare e connettersi con il sacro spirito del Gualcarque. Quando se ne andarono era buio, l’auto di Berta era stata bersagliata con bottiglie di birra e pietre, il lunotto posteriore era frantumato.

    Meno di una settimana dopo, verso mezzogiorno del 26 febbraio, un pickup a doppia cabina con finestrini oscurati percorse la stretta strada senza uscita che portava all’ufficio centrale del COPINH nella città di La Esperanza. Un uomo alto, con un taglio di capelli in stile militare, uscì dall’auto e chiese di Berta, mentre l’autista teneva il veicolo in moto. Alla richiesta di identificarsi, rientrò velocemente nell’auto che sfrecciò via.

    Questi fatti resero Berta ancor più nervosa, quindi si organizzò per restare a Utopía, il vivace centro di formazione del COPINH a La Esperanza, in modo da non restare sola a casa quando Laura dovette ripartire per tornare all’università a Buenos Aires.

    Contattò anche l’amica Brigitte Gynther, ricercatrice alla School of Americas Watch (SOAW), che registrava le minacce al COPINH. «Devo parlarti», le scrisse in un messaggio testuale il 29 febbraio. «Ho delle novità». Brigitte stava lavorando nelle campagne della Colombia ma si accordarono per parlarne in seguito.

    La mattina del 1 marzo, Berta accompagnò in auto Laura all’aeroporto Toncontín alla periferia della capitale, Tegucigalpa. «Sono orgogliosa di te», le disse. «Goditi la vita, traine il massimo, ma ricordati che tu appartieni a questo posto, l’Honduras, e alla lotta per renderlo un luogo migliore».

    Appena prima che Laura superasse i controlli di sicurezza, Berta abbracciò la figlia più giovane ancora una volta. «Questa nazione è fottuta ma, qualsiasi cosa mi accada, non avere paura».

    Laura pensò che la madre temesse di essere di nuovo arrestata. «Mia mamma era così conosciuta che, davvero, dubitavo le potesse succedere qualcosa di grave. Pensavo che incontrare il Papa e vincere il Goldman Prize l’avrebbe protetta».

    Alle 14.08, Sergio Rodríguez inviò un messaggio su WhatsApp, in una chat di gruppo chiamata Security PHAZ (Progetto idroelettrico Agua Zarca). Rivolgendosi agli azionisti e ai dirigenti della DESA, tra cui il presidente della compagnia David Castillo, ex ufficiale dell’intelligence militare addestrato dagli Usa, confermò che Berta sarebbe stata a La Esperanza il giorno successivo.

    L’aereo di Laura decollò proprio mentre un vecchio amico di Berta, Gustavo Castro, ambientalista messicano astuto politico, atterrava all’aeroporto internazionale San Pedro Sula, dall’altra parte del Paese. Berta aveva invitato Gustavo a tenere un seminario sull’energia alternativa per i membri del COPINH. I due, che si conoscevano da tempo, non si vedevano da anni e trascorsero la serata parlando nella nuova casa di Berta a Colonia Líbano, area residenziale privata alla periferia meridionale de La Esperanza.

    Berta gli raccontò del fermento generato dalla campagna per fermare la diga, progetto di costruzione appoggiato da membri di uno dei clan più potenti del Paese, la famiglia Atala Zablah, così come da banche internazionali. «Era strano, perché non mi aveva mandato idee per il seminario, solo il biglietto, ma non avevo idea di quanta fosse la pressione cui era sottoposta», avrebbe poi ricordato Gustavo.

    Entrambi erano stanchi, quindi Berta propose di andare a dormire e si offrì di accompagnare Gustavo al luogo in cui lui alloggiava, ma l’uomo si preoccupò della sua sicurezza. «È così buio e isolato qui, sarà sicuro per te guidare da sola al ritorno a un’ora così tarda?», chiese. «Cheque, hermano [Okay, fratello, in spagnolo nel testo originale, ndt], andrà tutto bene. Ma perché non vieni a stare qui con me da domani notte? Ho internet, quindi possiamo lavorare insieme».

    Il giorno dopo, martedì 2 marzo, Berta diede il via al seminario a Utopía prima di andare nella cucina all’aperto, portando con sé i suoi tre telefoni cellulari continuamente squillanti, i soliti blocco note e penna. Scrisse un messaggio a Laura, dicendole di non preoccuparsi perché Gustavo sarebbe stato in casa con lei. Chiamò anche l’amico e collega Sotero Chavarría, che era andato a Tegucigalpa per sottoporsi a cure mediche. «Hermano, ho bisogno che torni qui, vieni presto, devo dirti delle cose, è importante», gli disse.

    Poco dopo, Sotero ricevette un’altra chiamata: il capo della sicurezza Ávila e una decina di persone di Río Blanco vicine alla DESA si stavano avvicinando a La Esperanza in un pickup Toyota scuro.

    Che cosa avevano da fare quel giorno, stavano andando a tenere d’occhio Berta? Sulla via del ritorno verso La Esperanza, Sotero si accorse che il posto di blocco della polizia all’ingresso della città non era presidiato. Si trattava di un fatto talmente insolito che lo fece notare ai colleghi.

    Più tardi, quella mattina, Lilian Esperanza, coordinatrice finanziaria del COPINH, arrivò a Utopía con alcuni assegni e la lettera di un finanziatore su cui serviva la firma di Berta. «Dobbiamo cambiare la firma», le disse Berta. «Se mi succedesse qualcosa? Potrei essere incarcerata o uccisa. Se aveste problemi ad accedere al denaro, cosa succederebbe al COPINH? Continuo a denunciare le minacce, ma nessuno le considera».

    «Non essere sciocca. Non ti succederà nulla», insistette Lilian.

    Perché Berta si comportava come se il tempo si stesse esaurendo?

    Era tarda mattina quando lasciò il seminario con Gaspar Sánchez, il giovane coordinatore sui temi della diversità sessuale del COPINH, diretta al mercato centrale. Berta aveva trascorso molte notti con i venditori che occupavano le sgangherate strutture vecchie di novant’anni, opponendosi al piano del sindaco di sostituirle con un centro commerciale. «Era stanca, ma chiamarono chiedendo il suo aiuto, quindi andammo e li incoraggiò a continuare a combattere», Gaspar mi ha poi raccontato.

    Incontrarono Sotero e uno dei fratelli di Berta al mercato, insieme andarono a pranzo a casa della loro madre. Berta ancora non aveva spiegato a Sotero che cosa fosse così urgente, dicendo che ne avrebbero parlato più tardi.

    In auto per tornare al seminario, Gaspar intervistò Berta per la radio comunitaria del COPINH. «L’energia non è solo una questione tecnica», dichiarò lei. «È un tema politico che ha a che fare con la vita, i territori, la sovranità e il diritto della comunità all’autodeterminazione. Crediamo che questo sia il momento per discutere a fondo del capitalismo e di come l’energia sia parte della dominazione delle comunità indigene e della violazione dei loro diritti. È ciò che in questo momento le comunità Lenca come quella di Río Blanco stanno vivendo. In questo forum vogliamo spiegare l’impatto del capitalismo sull’Honduras, elaborare una proposta comunitaria su come condurremo questa battaglia... Per lasciarci alle spalle la logica del consumismo e della privatizzazione, per pensare all’energia alternativa come a un diritto umano, parte del processo di liberazione ed emancipazione».

    Sarebbe stata la sua ultima intervista.

    Berta più tardi chiamò l’amico Ismael Moreno, prete gesuita conosciuto come Padre Melo, per confermargli che Gustavo sarebbe stato ospite della sua trasmissione radio. «Era spaventata, ma più di tutto era preoccupata per Camilito», ha ricordato Melo. Berta di recente aveva infatti ricevuto un messaggio anonimo contenente la minaccia di fare a pezzi il suo unico nipote.

    Tornata al seminario, Berta mandò un messaggio a Brigitte Gynther del SOAW alle 16.44, chiedendole quando sarebbe tornata dalla Colombia. «Non ho mai scoperto che cosa volesse dirmi», ha poi raccontato Brigitte. «Ma sapevo che qualcosa non andava. Mi contattava soltanto quando succedeva qualcosa di davvero grave».

    Dopo il seminario, Berta scrisse a un giornalista svizzero che era interessato ai conflitti sulle miniere in Honduras. «Non abbiamo consentito alle miniere di entrare [nel territorio Lenca], ma ci sono comunità minacciate», gli scrisse alle 19, promettendo che ne avrebbero parlato il giorno successivo.

    Berta e Gustavo poi lasciarono Utopía, facendo di nuovo una veloce visita alla madre prima di andare nel ristorante preferito di Berta in centro città, El Fogón, per cenare e bere una birra. Appena prima delle 21.30, un pickup scuro Toyota a doppia cabina con i vetri oscurati e senza targa fu visto da un vicino fuori dalla casa della madre. Berta e Gustavo rientrarono a casa di lei poco dopo le 21.30.

    Il bungalow color verde e oro di Berta fa parte di una distesa di case dipinte a tinte sgargianti, alcune ancora disabitate o in costruzione, delimitate da un misto di rete metallica e paletti di legno bianco, con veduta su un lago e su lontane colline ricoperte di pini. Il suo bungalow si affaccia su una strada sterrata a circa 150 metri dal cancello di sicurezza, controllato da due guardie che lavorano su turni di dodici ore.

    La disposizione dell’abitazione è insolita, con la porta principale che si apre su un salotto open-space e una leggera porta sul retro che dà sulla cucina. Lei e Gustavo restarono seduti nel patio davanti alla casa, parlando per un’ora e mezza circa, godendosi il vento leggero. Poi lui fumò una sigaretta, mentre lei finiva di lavorare a un documento. Un paio d’auto, intanto, passarono lungo la barriera metallica perimetrale.

    Gustavo si spostò nella camera da letto degli ospiti, vicina al salotto. La stanza di Berta era al lato opposto dell’ingresso. Dopo aver indossato una maglietta verde oliva e pantaloncini neri rifiniti in rosso e bianco, Berta si sedette sul letto, con le gambe allungate, e continuò a lavorare. Alle 23.25 mandò un messaggio a Juan Carlos Juárez, l’agente di collegamento della polizia incaricato della sua protezione. «Dovunque tu sia, ti auguro il meglio. Per favore stai attento, besos [baci, in spagnolo nel testo originale, ndt]».

    Verso le 23.35, Gustavo udì un rumore. Tap! Tap! Tap! Pensò fosse Berta che puliva o prendeva qualcosa dalla cucina, a malapena alzò lo sguardo dal computer portatile. Un minuto dopo, o forse meno, ci fu un altro rumore, più forte e sordo. Un tonfo. Gustavo immaginò che Berta avesse lasciato cadere qualcosa in cucina. Poi la sentì chiedere: «Chi c’è?».

    «Fu allora che realizzai che in casa c’era qualcuno e che sarebbe successo qualcosa di brutto», ha ricordato Gustavo. Alcuni secondi dopo, un giovane alto e con la pelle scura, i capelli rasati, con indosso una giacca nera e una sciarpa bianca, spalancò la porta della camera da letto e gli puntò una pistola alla testa da circa due metri di distanza. Gustavo sentì il ronzio delle ricetrasmittenti. Seduto sul letto, guardava quell’uomo armato dritto in faccia, quando sentì che la porta della camera di Berta veniva forzata. Sembrava che lei lottasse per respingere qualcuno. Poi sentì tre colpi. Bang! Bang! Bang! Le gambe di Berta cedettero e lei cadde all’indietro. Tentò di difendersi e graffiò l’uomo armato chino su di lei. Ma era debole e l’assassino schiacciò a terra con i piedi il suo corpo sanguinante finché lei non riuscì più a opporre resistenza.

    Gustavo saltò giù dal letto e in una frazione di secondo alzò la mano sinistra per proteggersi il volto, mentre l’uomo sparava un singolo colpo. Bang! Il proiettile sfiorò il dorso della sua mano e la parte alta dell’orecchio sinistro. Gustavo restò completamente immobile sul pavimento mentre il sangue sgorgava dalle ferite. Il killer si convinse che fosse morto e uscì, ma Gustavo non osò muoversi. Non sentì alcuna auto allontanarsi. Se gli assassini fossero stati ancora all’interno della casa? Qualche istante dopo udì la voce di Berta. «Gustavo! Gustavo!».

    Corse da lei e vide l’amica distesa sulla schiena, tra la porta della camera da letto e l’armadio di legno. Faticava a respirare. I suoi ricci capelli neri erano impregnati del sangue causato da tre ferite di proiettili, che si stava allargando anche su pantaloncini e maglietta.

    Gustavo si strinse per passare nella fessura tra la porta e il corpo tremante di Berta. Si inginocchiò e la cinse con le braccia, tentando di tenerla al caldo e in vita. «Non andare Berta! Non morire, stai con me!», la implorò. Ma Berta Cáceres stava morendo dissanguata.

    «Prendi il mio telefono», mormorò lei. «Sul tavolo». Circa un quarto d’ora prima di mezzanotte, Berta pronunciò le sue ultime parole. «Chiama Salvador! Chiama Salvador!».

    Poi, morì.

    Berta Cáceres era stata assassinata. Uccisa nella sua camera da letto, meno di un anno dopo aver vinto il più importante premio per i difensori dell’ambiente.

    Gustavo sopravvisse. Le sue dichiarazioni di testimone oculare, però, sarebbero state sufficienti a identificare gli assassini? E chi c’era dietro questa sfacciata esecuzione? Avrebbe mai potuto esserci giustizia per qualcuno come Berta in un Paese come l’Honduras, dove l’impunità regna sovrana?

    Avremmo mai saputo chi aveva ucciso Berta Cáceres?

    Controinsurrezione di Stato

    Río Blanco, aprile 2013

    Con indosso la sua abituale tenuta, pantaloni, camicia a quadri e ampio sombrero, Berta Cáceres stava in piedi in cima a una piccola collinetta erbosa, sotto l’ombra di un’antica quercia, per parlare a una folla di uomini, donne e bambini che avevano percorso chilometri, provenendo da tutta Río Blanco, per discutere della diga. «Nessuno – dichiarò – si aspettava che il popolo Lenca si sarebbe opposto a questo potente mostro. Eppure noi, persone indigene, resistiamo da oltre 520 anni, sin dall’invasione spagnola. Settanta milioni di persone sono state uccise in tutto il continente per le nostre risorse naturali e questo colonialismo non è finito. Ma noi abbiamo potere, compañeros [compagni, ndt], ed è per questo che ancora esistiamo».

    Río Blanco è un gruppo di 13 campesinos, comunità indigene agricole, sparse su un terreno collinoso e ricoperto di pini nel dipartimento di Intibucá, regione a maggioranza Lenca nell’Honduras sudoccidentale. Qui famiglie allargate lavorano per lunghe giornate, coltivano mais, fagioli, frutta, verdure e caffè su modesti appezzamenti di terreni comuni, in gran parte accessibili solo a piedi o a dorso di cavallo. Polli e cani pelle e ossa corrono dentro e fuori ogni casa. Alcune famiglie allevano anche bovini, maiali e anatre per mangiarli, non per venderli, visto che ci sono poche strade asfaltate o mezzi di trasporto che colleghino le comunità con i mercati cittadini. Da quando negli anni Quaranta ottennero la terra da un ex presidente, queste comunità sono state ampiamente ignorate dai governi successivi – nonostante le promesse elettorali di garantire servizi sanitari e scolastici di base e strade asfaltate¹. Disponendo di pochi servizi di base, le comunità dipendono dal fiume Gualcarque, che scorre da nord a sud fiancheggiando l’estremità di Río Blanco. Il fiume sacro è fonte di nutrimento spirituale e fisico per il popolo Lenca. Fornisce pesce da mangiare, acqua da bere per gli animali, tradizionali piante medicinali e divertimento: mancando l’elettricità, non parliamo di internet, i bambini si ritrovano al fiume per giocare e nuotare. Le comunità vivono in armonia con il fiume e tra loro. O, almeno, così avveniva un tempo.

    Il governo del Partito nazionale filo-imprese ha autorizzato la diga idroelettrica Agua Zarca nel 2010, ignorando il requisito legale di una consultazione formale da tenere prima [corsivo nell’originale, ndt] di approvare progetti su territorio indigeno. Inoltre, i permessi ambientali e i contratti lucrativi sull’energia sono stati firmati a velocità vertiginosa senza l’adeguato controllo, lasciando pensare a illeciti da parte di un gruppo di funzionari pubblici e dirigenti aziendali. In Honduras, questo non è insolito: il fiume Gualcarque era stato svenduto nell’ambito di un pacchetto di concessioni sulle dighe riguardanti decine di corsi d’acqua nel Paese dopo il colpo di stato del 2009 – orchestrato dalle élite affariste, religiose, politiche e militari di destra per destituire il presidente democraticamente eletto Manuel Zelaya. Non solo dighe: miniere, sviluppo turistico, progetti di biocarburante e concessioni sull’abbattimento di alberi sono stati portati avanti a tutta velocità al Congresso senza consultazione, studi sull’impatto ambientale o supervisione, molti destinati alle terre indigene. Il processo è stato manovrato a danno delle comunità; la domanda era a quale livello fosse arrivata la corruzione.

    Il progetto idroelettrico avrebbe diviso il fiume sacro e deviato le sue acque lontano dalle necessità locali, generando elettricità da vendere alla compagnia energetica nazionale (ENEE). Il popolo Lenca sapeva che, senza il fiume, non ci sarebbe potuta essere vita a Río Blanco.

    Ecco perché, pochi giorni prima della visita di Berta, i membri della comunità avevano creato una barricata umana, bloccando la strada d’accesso al Gualcarque in un estremo tentativo d’impedire che la costruzione proseguisse.

    Berta, in quel giorno di aprile, parlò alla folla a due passi dal blocco stradale improvvisato, mantenuto a rotazione dalle famiglie stanche di essere trattate come intruse nella loro stessa terra. La bandiera blu e bianca dell’Honduras pendeva tra due pali che impedivano il passaggio sulla strada sterrata. La comunità aveva chiesto per la prima volta sostegno al COPINH vari anni prima. Berta e altri leader del COPINH l’aiutarono a presentare petizioni alle autorità locali e nazionali, all’impresa di costruzione della diga Desarrollos Energéticos SA (DESA), al gigante cinese dell’energia Sinohydro cui era stata assegnata la costruzione, rendendo chiarissimo di non volere la diga sul fiume sul quale facevano affidamento per cibo, acqua, medicine e nutrimento spirituale. Le generose promesse di costruire strade e scuole si rivelarono vane. La gente tenne assemblee, votò, marciò sul Congresso e avviò azioni legali contro le agenzie governative e le autorità.

    Il sindaco di Intibucá, Martiniano Domínguez, sosteneva però che resistere fosse inutile. La diga aveva il sostegno del presidente, diceva, e loro avrebbero dovuto essere grati alla DESA, che prometteva lavoro e sviluppo per la comunità emarginata. Alla fine del 2011 Domínguez diede il via libera alla costruzione, sostenendo falsamente che la gran parte della popolazione fosse a favore della diga. Una consultazione truccata – piena di nomi e firme di persone apertamente schierate contro la diga e di altre che non sapevano leggere e scrivere – venne usata come prova dell’appoggio della popolazione, per sostenere le richieste di permessi e gli investimenti. Quando arrivarono i macchinari pesanti, i cavi che connettevano i pannelli solari ai server per internet e ai computer della scuola furono distrutti, la terra della comunità invasa, i campi di mais e fagioli sulle rive del fiume devastati, sentieri ben tracciati furono bloccati. Attorno all’area di costruzione della diga apparvero dei cartelli: Vietato: non entrare in acqua. Per molti, questa umiliazione rappresentava l’ultima goccia.

    Berta scoprì solo in seguito, e forse troppo tardi, che il progetto della diga era appoggiato dai membri di uno dei clan più potenti del Paese, gli Atalas, e che il presidente della DESA e il suo capo della sicurezza erano ex ufficiali dell’esercito dell’Honduras formati dagli Usa, addestrati alla controinsurrezione. Una dottrina a lungo usata in tutta l’America latina per dividere e conquistare le comunità che resistevano all’espansione neoliberista. Ma Berta era cresciuta durante la Guerra sporca e, al momento del suo discorso a El Roble, aveva vent’anni d’esperienza di lotte comunitarie. Conosceva i rischi dell’opporsi agli interessi della grande industria e voleva essere certa che anche la gente di Río Blanco li comprendesse.

    «Siete sicuri di voler combattere contro questo progetto? Perché sarà difficile», disse dalla collinetta erbosa sotto la quercia. «Lotterò al vostro fianco fino alla fine, ma voi, la comunità, siete pronti per questa battaglia che richiederà anni, non giorni?». Un mare di mani si alzò verso l’alto: i presenti votarono per opporsi alla diga.

    Non lontano, in piedi, c’era Francisco Chico Javier Sánchez, leader comunitario tarchiato e con i baffi, in testa un cappello da cowboy nero. «Berta ci avvertì che combattere contro la diga avrebbe comportato minacce, violenza, morte, divisioni, persecuzione, infiltrati, militarizzazione, polizia, sicarios, e che sarebbe stato fatto di tutto per distruggerci. Il COPINH era pronto a sostenerci nelle proteste e nelle azioni pacifiche, ma doveva essere una nostra decisione, della comunità, perché saremmo stati noi a subire le conseguenze. Eravamo del tutto ignoranti, ma lei fu molto chiara. Tutto ciò che ci disse quel giorno si è verificato, in modo ancor peggiore».

    Tre anni dopo, cinque abitanti di Río Blanco erano morti, e morta era anche Berta Cáceres.

    Figure di riferimento

    La madre di Berta, Austra Berta Flores López, è una fervente cattolica, matriarca pragmatica, la più importante figura di riferimento nella vita di Berta. Nata nel 1933 a La Esperanza, Doña Austra è infermiera, levatrice, attivista e politica del Partito liberale. Proviene da una lunga discendenza di noti progressisti in ambito sociale e politico, additati e perseguitati come comunisti durante una serie di dittature repressive. Ho intervistato varie volte la schietta Doña Austra, prima e dopo l’assassinio di Berta – sempre nella spaziosa casa coloniale a un solo piano che aveva costruito all’inizio degli anni Settanta, e sempre bevendo caffè nero dolce nel suo leggendario salotto ornato di gingilli religiosi e vecchie fotografie. È in questa stanza che Doña Austra, nel corso di quarant’anni, ha ospitato un variegato numero di coloriti personaggi, tra cui comandanti della guerriglia del Salvador, rivoluzionari cubani, presidenti dell’Honduras e diplomatici americani. Se i muri potessero parlare!

    La Esperanza, che in spagnolo significa speranza, è un luogo pittoresco tra le colline, circondato da profumate foreste di pini e decine di piccoli villaggi. Situata a 190 chilometri a ovest dalla congestionata e cementificata capitale, Tegucigalpa, alla fine di una zigzagante strada piena di buche, è la cittadina più fresca e alla massima altitudine in Honduras. Politicamente vive una situazione un po’ strana, perché La Esperanza si fonde in modo fluido con la città di Intibucá; sono separate solo da una strada, ma sono amministrate da autorità municipali diverse. Intibucá è la più antica delle due città gemelle ed è storicamente Lenca. La Esperanza ospita la più recente comunità mestiza o ladina. I bisnonni materni di Berta (provenienti dal Guatemala e dal vicino dipartimento di Lempira) furono tra i primi a insediarsi, nella prima metà dell’Ottocento. Crescendo, Doña Austra fu testimone del rigido apartheid etnico che vietava agli abitanti indigeni di Intibucá di entrare nelle scuole mestize e nelle chiese di La Esperanza.

    Da bambina, Austra viaggiò a cavallo per far visita al padre a El Salvador, dove fu esiliato più volte negli anni della dittatura del generale Tiburcio Carías Andino (1933-1949). «Su un animale caricavamo il cibo, come carne secca e tortillas, sul secondo cavalcavamo io e mia madre per due giorni, per raggiungere mio padre», avrebbe ricordato poi. «Venivo da una famiglia di guerriglieri. Alcuni finirono in manette come prigionieri politici, altri furono esiliati o uccisi. La mia famiglia ha sempre combattuto per il cambiamento sociale e per questo eravamo etichettati come comunisti».

    Austra Flores è rimasta vedova a quindici anni, dopo un matrimonio durato tre anni con un uomo di età molto più avanzata. Si formò come infermiera e poi come ostetrica e, siccome a quel tempo era spesso l’unica professionista in materia di salute nella cittadina, i pazienti camminavano per chilometri per arrivare alla sua casa. Aspettavano il loro turno su panche allineate all’ombra del porticato di fronte alla casa e nel patio sul retro. Molti erano campesinos poveri che pagavano in natura, con polli, legna da ardere o un sacco di mais. «Non avevamo molto denaro, ma c’era sempre cibo a sufficienza», raccontava Doña Austra, che tiene tuttora la sua borsa in pelle da medico a portata di mano, pronta per i pazienti che arrivano. Alcuni ancora camminano chilometri e ancora attendono sulle stesse panche di legno.

    Prima della metà degli anni Settanta, le rivolte studentesche erano parte di un fiorente scenario legato al tema dei diritti umani in cui era attivo il fratello maggiore di Berta, Carlos Alberto, quinto figlio di Austra nato da una diversa relazione. Eletto leader studentesco alla scuola di formazione per insegnanti di La Esperanza, la Escuela Normal Occidente, capeggiò uno sciopero della fame con l’obiettivo di rimuovere il direttore, violento e inefficiente. Quando i soldati, mandati a cacciare dall’istituto gli studenti in sciopero, gli spararono alla spalla sinistra, fu Doña Austra a portarlo a Tegucigalpa perché fosse operato.

    Quella ferita lo spinse a diventare più di un attivista studentesco locale e, in seguito, guidò una serie di scioperi a livello nazionale, costringendo una sfilza di pessimi direttori scolastici a dimettersi. Convocò poi incontri clandestini nella casa di famiglia, per organizzare un sostegno concreto ai gruppi della guerriglia nei vicini El Salvador e Nicaragua. La sua battagliera leadership venne notata e la famiglia divenne così obiettivo del temuto servizio d’intelligence dello Stato, la Dirección Nacional de Investigación (DNI).

    «La casa fu circondata di orejas [orecchie, in spagnolo, termine usato per indicare gli informatori], era sempre sotto sorveglianza e sentivamo passi sul tetto. Soldati e uomini della DNI entravano e perquisivano l’abitazione, ma non cercarono mai qui», mi ha raccontato Austra, mostrandomi un armadio di legno nella camera da letto, dove un tempo venivano nascosti libri e materiali considerati sovversivi. «Se la DNI li avesse trovati, saremmo stati portati via, alla base del 10° Battaglione [situata nella vicina Marcala], dove i salvadoregni che cercavano provviste o salvezza venivano rinchiusi e poi scomparivano».

    Anche vari amici di Carlos, altri leader studenteschi, furono fatti scomparire negli anni Settanta, quando ormai la casa di Austra era di fatto il quartier generale socialista (con la ‘s’ minuscola), usato per la raccolta di medicinali e cibo per i guerriglieri salvadoregni e per nascondere i loro comandanti. Nascose anche giovani uomini, in verità ragazzi, che cercavano di evitare la leva militare, rimasta in vigore fino al 1995. Francisco Alexis, ottavo figlio di Austra, fu incarcerato, ridotto alla fame e torturato alla base del 10° Battaglione, dopo che a sua volta tentò di evitare il servizio militare. «Francisco era così traumatizzato dalla barbarie che gli furono inflitte, che lo mandammo a vivere negli Usa», ha detto Austra. Per farlo attraversò illegalmente il confine usando un falso documento d’identità.

    Dopo essersi diplomato come insegnante, Carlos si unì al Partito comunista e si trasferì a nord, nella regione del Bajo Aguán, per lavorare con le cooperative contadine di banane, che militavano per la redistribuzione della terra. Secondo Doña Austra, prese parte al gruppo armato studentesco di guerriglia Los Cinchoneros, anche noto come Movimento di liberazione popolare, fondato nel dipartimento ribelle dell’Olancho, nell’Honduras orientale. Carlos andò poi in Russia con una borsa di studio, per studiare storia e scienze politiche. Quindi visse in Nicaragua, dove difese la Rivoluzione sandinista contro i Contras armati dagli Usa. Per Berta, Carlos era

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