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Immaginare la realtà: Conversazioni sul cinema
Immaginare la realtà: Conversazioni sul cinema
Immaginare la realtà: Conversazioni sul cinema
E-book137 pagine1 ora

Immaginare la realtà: Conversazioni sul cinema

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Info su questo ebook

«Mi sono innamorato del cinema da piccolo, fin dal primo film che ho visto».
«In ogni film c’è in filigrana la società, il Paese, la grande Storia maiuscola, ma c’è sempre – ed è quello che a me importa di più – la storia minuscola, quella dei personaggi che agiscono o, soprattutto, ne sono agiti, quelli che volenti o nolenti vi inciampano o ne sono le vittime».
Il cinema e la televisione fanno parte della nostra vita, della cultura, della politica. Sono un’espressione importante della società. Marco Tullio Giordana li attraversa ormai da 40 anni. I cento passi e La meglio gioventù hanno emozionato e ispirato molte generazioni di spettatori. Così come molti altri suoi film, che spaziano dagli ultimi sussulti del fascismo sino alle stragi impunite della Repubblica, dagli anni di piombo alle migrazioni, dalla condizione femminile alla cronaca, in uno spazio di rappresentazione che tiene insieme impegno, delusioni, speranze.
LinguaItaliano
Data di uscita3 giu 2021
ISBN9788865792506
Immaginare la realtà: Conversazioni sul cinema

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    Anteprima del libro

    Immaginare la realtà - Marco Tullio Giordana

    instagram.com/edizionigruppoabele

    Il libro

    Il cinema e la televisione fanno parte della nostra vita, della cultura, della politica. Sono un’espressione importante della società. Marco Tullio Giordana li attraversa ormai da 40 anni. I cento passi e La meglio gioventù hanno emozionato e ispirato molte generazioni di spettatori. Così come molti altri suoi film, che spaziano dagli ultimi sussulti del fascismo sino alle stragi impunite della Repubblica, dagli anni di piombo alle migrazioni, dalla condizione femminile alla cronaca, in uno spazio di rappresentazione che tiene insieme impegno, delusioni, speranze.

    Gli autori

    Marco Tullio Giordana, regista e scrittore, attraverso i suoi film ha raccontato importanti pagine di cronaca dell’Italia contemporanea. Tra le sue opere più acclamate: Maledetti vi amerò (1980), Pasolini, un delitto italiano (1995), I cento passi (2000), La meglio gioventù (2003), Romanzo di una strage (2012).

    Andrea Bigalli, prete e parroco fiorentino, è docente all’Istituto Superiore di Scienze Religiose della Toscana e socio dell’Associazione Teologica Italiana. Giornalista pubblicista, è critico cinematografico iscritto al Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani. È referente regionale di Libera.

    Indice

    I. Perché cinema. La formazione

    II. I conti con la storia e il fascismo

    III. Misteri italiani

    IV. Mafia e antimafia

    V. Speranze e delusioni della politica

    VI. Il cinema, la tecnica, la vita

    VII. C’è un futuro per il cinema?

    Nota biografica

    Appendice

    a Carlo Mazzacurati, amico dilettissimo

    mtg

    L’intervista che segue si è svolta in più riprese nel marzo 2021. Le domande di Andrea Bigalli sono riportate in corsivo, le risposte di Marco Tullio Giordana in tondo.

    I.

    Perché cinema. La formazione

    Inizio, se mi permetti, con un’annotazione personale. Un ricordo degli anni Ottanta: esco da un cinema, dove ho appena assistito alla proiezione de Lo stato delle cose di Wim Wenders e decido in cuor mio che mi occuperò di cinema, che il cinema sarà uno dei grandi elementi della mia esistenza. Ecco, c’è un momento in cui tu decidi che vuoi fare il regista?

    Mi sono innamorato del cinema da piccolo, fin dal primo film che ho visto: Le avventure di Davy Crockett del 1955. Però la vocazione, se posso usare un termine forse adatto più alla tua professione che alla mia…

    Sei autorizzato, ci sono delle correlazioni tra le nostre professioni.

    La vocazione mi raggiunse un pomeriggio d’agosto del 1967. Ero andato a vedere Blow-Up di Michelangelo Antonioni infilandomi nel cinema Corso di Milano al primo spettacolo. Ne uscii a mezzanotte, cacciato via dalle maschere, dopo averlo visto quattro volte di seguito. La sceneggiatura, dello stesso Antonioni e di Tonino Guerra, era pubblicata da Einaudi; il giorno dopo andai nella libreria sotto casa e la comprai al volo. L’introduzione di Antonioni finiva così: «Io sono emiliano, Tonino è romagnolo: non si potrebbero immaginare caratteri più diversi. Forse è per questo che andiamo d’accordo». Come se già nell’atto di scrivere, nell’idea stessa di Cinema, ci fosse un segno di conciliazione, di sintesi. Fatto sta che, facendone più o meno un calco, scrissi la mia prima sceneggiatura, piuttosto ingenua e presuntuosa, priva di qualsiasi originalità. Fortunatamente l’ho persa, speriamo che non venga mai ritrovata.

    La vita degli autori (di ogni genere) è piena di soggetti che è bene non siano ritrovati…

    Uscito dal cinema ero in uno stato di eccitazione tale che dissi a me stesso: «È meraviglioso il cinema, ecco quello che voglio fare!». Poi arrivò il Sessantotto con le sue estasi e veleni connessi: la politica, l’idea che tutto ciò che non era impegno, collettivo, assemblea, fosse trascurabile. Ma era anche un modo di stare con gli altri, di non essere condannati alla solitudine che fa disperare ogni adolescente. Mi dimenticai di quella prima folgorazione, subentrarono altre passioni. Volevo suonare, dipingere, tutto in modo velleitario però, senza vero studio, né consapevolezza, né scuola. Passavo i miei pomeriggi nei musei, studiavo tutto da autodidatta, non mi rendevo conto che così rischiavo di rimanere un dilettante.

    I giri a vuoto di ogni adolescente. Pericoloso, forse, non averne. Quindi?

    La vocazione tornò qualche anno dopo, nel 1972, anche se in modo casuale, abbastanza miracolistico. Mi trovavo a Parigi per vedere la più grande esposizione di Francis Bacon mai fatta prima, un’antologica di tutta la sua opera, una mostra memorabile. Ne rimasi sconvolto. Perché se avessi avuto qualche qualità o talento, era così che avrei voluto dipingere. Avevo già visto qualche dipinto di Bacon, lo ammiravo, ma vedere in successione tutti i suoi quadri, alcuni dei quali enormi, altri con la vernice ancora fresca, mi gettò nella costernazione. Mi fu evidente che non sarei stato altro che un epigono, un patetico imitatore! Uscii dal Grand Palais con la morte nel cuore e la sensazione che tutto fosse perduto. Pensai di buttarmi nella Senna, lo so che fa un po’ ridere, ma in quel momento ero veramente disperato. Mi incamminai lungo il fiume cercando il ponte adatto, come Bertoldino che doveva scegliere l’albero a cui farsi impiccare e naturalmente nessuno andava bene. Arrivai al ponte di Bir-Hakeim, nel lussuoso quartiere di Passy. Mi sembrava adatto alla bisogna, ma c’era la complicazione di un sacco di gente in giro: infatti stavano girando un film. Sentii che parlavano italiano, mi avvicinai. Vidi Marlon Brando, avvolto in un cappotto color cammello. Stavano girando…

    Ultimo tango a Parigi. Davvero un grande colpo di scena!

    Stavano girando quella che sarebbe diventata la scena iniziale di Ultimo tango. Un grande dolly, anzi una gru altissima che scendeva vertiginosamente su Brando. Rimasi a guardare affascinato. Mi colpivano soprattutto due ragazzi, eccitati e autorevoli, che un po’ si assomigliavano: belli, aitanti, raggianti di energia e felicità. Tutti ne erano ipnotizzati, Marlon Brando compreso. Indossavano giacconi di montone (allora molto di moda) e cappellacci neri. Non capivo le loro funzioni ma sentivo che tutta la troupe ne era dominata, voleva compiacerli. Questi due bellissimi ragazzi erano Bernardo Bertolucci e Vittorio Storaro, il suo direttore della fotografia. Mi accoccolai in un angolo e rimasi lì tutto il giorno a spiare. Avevo visto un film di Bertolucci, Prima della rivoluzione, alla Cineteca di Milano, e la sera stessa andai nel quartiere latino in un piccolo cinema d’essai per vederne un altro: La Stratégie de l’araignée (La strategia del ragno). Mi sembrava di esser diventato intimo.

    Cosa ti colpì in particolare?

    Il film trattava di situazioni a me vicine: il rapporto con la figura del padre scomparso, il tradimento, la somiglianza, il confronto mancato… tutte cose che in quel momento (avevo ventuno anni) mi tormentavano e mi facevano soffrire. In quel film vidi una possibilità di esorcizzarle. Forse più che esorcizzare, direi mettere in forma, dare a quelle ossessioni una sistemazione, una disposizione nello spazio, un po’ come avviene nella pittura, ma in modo molto più diretto. Trovare qualcosa che non è la soluzione (esiste la soluzione?) ma una disposizione razionale degli elementi, una sorta di loro composizione, di identificazione, di messa in riga. Non esattamente quello che senti o quello che provi e che si agita dentro di te, ma qualcosa che ci avvicina a un ordine, a un nòmos che finalmente riesce ad aver ragione del caos… Fu per me come una rivelazione. Anzi, una ierofanìa, l’apparizione del sacro. In più – l’avevo visto quel pomeriggio! – il cinema era un lavoro di gruppo, gli altri sarebbero stati lì intorno pronti a soccorrerti, nessuno ti avrebbe lasciato solo. Provai una commozione così intensa che avrei voluto abbracciare tutti gli spettatori di quella sala, all’epoca ancora immersa nel fumo azzurro delle sigarette.

    Ed è rimasto questo rapporto fra l’arte, in particolare la pittura, e il tuo stile compositivo, il tuo approccio all’inquadratura?

    Penso di sì, perché non ho mai smesso di amare la pittura. L’ho amata forse maggiormente proprio perché non dovevo più prendere partito, schierarmi, scegliere la mia strada abbracciando questa o quella corrente. Non dovevo più lambiccarmi fra figurativo, astratto o informale, né su cosa fosse moderno in quel lontano 1972 o quali fossero, invece, le prospettive se avessi voluto esprimermi come artista concettuale. Insomma, ho potuto amare tutta la pittura, includerla in ogni sua declinazione. Ancora oggi, in qualsiasi Paese vada, la prima cosa che faccio è infilarmi nei musei e nelle chiese. Amo la pittura del passato, ma anche l’arte contemporanea; per me non esistono gerarchie. Questa passione deve aver esercitato qualche influenza anche nel mio istinto di regista. Non in modo diretto, non ho mai composto un’inquadratura pensando: «Adesso riproduco Poussin, adesso riproduco Velasquez…». Non ho seguito l’esempio di Pasolini che ne La ricotta, ricalca alla lettera i quadri di Pontormo o Rosso Fiorentino (anche se Pasolini li utilizza per farsi beffe del regista che filma la Passione in modo tanto manierista: Orson Welles!). Non l’ho mai fatto, ma certamente nella composizione di ogni inquadratura – che curo stando talvolta addirittura in macchina – e nei cromatismi c’è un occhio formatosi guardando molti quadri. Anche non volendo replicarli, senz’altro è rimasto dentro qualcosa.

    Dagli intenti alla meta: quando sei arrivato dietro la macchina da presa, da regista?

    Andò così. Vivevo a Milano, frequentando senza convinzione l’Università, Lettere, indirizzo antropologico. Nel 1974 nacque mia figlia Alice e io ero ancora senza arte né parte, volevo fare il cinema ma a Milano non c’era modo: si faceva la pubblicità, si iniziava a fare la televisione, ma per il cinema toccava trasferirsi a Roma, affrontare il viaggio del provinciale. Uso questa parola, non necessariamente negativa, perché mi resi subito conto che, rispetto a Roma, tutto il resto del Paese era provincia. Tutto era chiuso, circoscritto, pantografato in piccolo, e i legami col resto del mondo abbastanza trascurati. Anche a Milano, malgrado il suo sentirsi così europea, così capitale morale. Roma mi apparve sontuosa e dispersiva, indulgente, non ostile. Era d’altronde la città dov’era nato mio padre, qualcosa nel mio Dna deve averla riconosciuta. Ero partito senza veri contatti, l’unica persona che conoscevo era un mio coetaneo, Leone Colonna, che faceva il negro (come si diceva in gergo di chi prepara

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