I Tabù: Tratto da Il Ramo d'Oro
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Anteprima del libro
I Tabù - James G. Frazer
Intro
Questo fondamentale studio sui Tabù tribali, tratto da Il Ramo d’Oro: il famoso (e voluminoso) capolavoro di James G. Frazer, è articolato in quattro parti: Tabù di azioni
, Tabù di persone
, Tabù di oggetti
e Tabù di parole
, a loro volta suddivisi in vari paragrafi.
I TABÙ
Tabù di azioni
Tabù sui rapporti coi forestieri
Possono bastare gli esempi precedenti intorno alle concezioni primitive dell’anima e ai pericoli cui essa è esposta. Queste concezioni non sono limitate a un popolo o a un paese: con particolari diversi si trovano in tutto il mondo e come abbiamo visto sopravvivono nell’Europa moderna. Credenze così profonde e diffuse debbono necessariamente aver contribuito a plasmare lo stampo in cui furono fuse le prime forme di regalità. Perché se ciascuno si dava tanta pena per salvare la propria anima dai pericoli che minacciavano da tutte le parti, con quanta maggior cura dev’esser stato custodito colui dalla cui vita dipendeva il benessere e anche l’esistenza di tutto un popolo e che era quindi interesse generale di conservare? È perciò da supporre che troveremo la vita del re protetta da un sistema di precauzioni o difese anche più numerose e minute di quelle che nella società primitiva ogni uomo adotta per la salvezza della sua anima.
La vita dei re primitivi è infatti regolata, come abbiamo visto e come vedremo presto più ampiamente, da un codice di regole molto esatto. Non possiamo dunque congetturare che queste regole siano effettivamente le salvaguardie che ci aspettavamo di trovare per la protezione della vita del re? Un esame delle regole stesse conferma questa congettura. Da esso appare che alcune delle regole osservate dai re sono identiche a quelle osservate dalle persone comuni per l’incolumità della loro anima; e anche di quelle che sembrano speciali pel re molte, se non tutte, si spiegano assai più facilmente con l’ipotesi che esse non siano altro che salvaguardie per la vita del re. Enumererò ora alcune di queste regole regali, o Tabù, dando per ciascuna quei commenti e quelle spiegazioni che servano a mettere in giusta luce la sua originale intenzione.
L’oggetto dei Tabù regali è quello di isolare il re da ogni sorgente di pericolo. Loro effetto generale: costringerlo a vivere in uno stato di isolamento più o meno completo, secondo il numero e la strettezza delle regole che egli osserva. Ora il selvaggio teme la magia e la stregoneria più di qualunque altra sorgente di pericolo e sospetta tutti i forestieri di praticare queste arti. Quindi il preservarsi dall’influenza deleteria esercitata volontariamente o involontariamente dagli stranieri è per i selvaggi un elementare precetto di prudenza. Perciò prima che sia permesso a forestieri di entrare in una regione, o almeno prima che si possano liberamente mescolare con gli abitanti, vengono spesso praticate dagli indigeni del paese delle cerimonie speciali per disarmare gli stranieri dei loro poteri magici, combattere la deleteria influenza che emana da essi o disinfettare, per così dire, l’atmosfera viziata dalla quale si suppone che siano avvolti. Così quando Giustino II imperatore d’Oriente mandò i suoi ambasciatori per concluder la pace coi Turchi, questi arrivati a destinazione furono ricevuti dagli sciamani che li assoggettarono a un cerimoniale di purificazione per scongiurare ogni influenza malefica. Avendo disposto in luogo aperto i bagagli portati dagli ambasciatori, gli stregoni girarono intorno a questi portando rami accesi d’incenso, mentre suonavano una campana e battevano un tamburello sbuffando ed entrando in uno stato frenetico nei loro sforzi per disperdere i poteri malefici. Poi purificarono gli ambasciatori facendoli passare attraverso le fiamme.
Nell’isola di Nanumea, nel Pacifico meridionale, gli stranieri non dovevano aver rapporti con la gente del paese finché, o tutti od alcuni come rappresentanti degli altri, non fossero stati condotti a ciascuno dei quattro templi dell’isola e non fossero state fatte delle preghiere perché il dio volesse sviare ogni malattia o tradimento che i forestieri avessero portato con loro. Si facevano anche offerte di carne sopra gli altari accompagnate da canti e da danze in onore del dio. Durante queste cerimonie, tutto il popolo, meno i sacerdoti e i loro accoliti, si tenevano fuori di vista. Tra gli Ot Danom del Borneo è uso che gli stranieri quando entrano nel territorio debbano pagare agli indigeni una certa somma, che viene spesa per sacrificare bufali o porci agli spiriti della terra e dell’acqua, onde conciliarli alla presenza degli stranieri e indurli a non ritirare la loro benevolenza dalla gente del paese, a benedire il raccolto del riso, e via dicendo.
Gli uomini di una regione del Borneo avevano paura di guardare un viaggiatore europeo per timore che li facesse ammalare e avvertivano le mogli e i figli a tenersi lontani da lui. Quelli che non potevano frenare la loro curiosità uccidevano dei polli per pacificare gli spiriti maligni e s’imbrattavano del loro sangue. «Gli spiriti maligni che accompagnano da lontano i viaggiatori sono più temuti di quelli del vicinato», dice un viaggiatore del Borneo centrale, «Quando una schiera venuta dal medio Mahakam mi fece visita tra i Blu-u Kayan nell’anno 1897, nessuna donna si fece vedere fuori di casa senza un fascio infiammato di corteccia di plehiding, di cui il fumo puzzolente allontana gli spiriti malvagi».
Quando Crevaux viaggiava nell’America del Sud entrò in un villaggio d’indiani Apalai. Pochi minuti dopo il suo arrivo alcuni Indiani gli portarono parecchie grandi formiche nere di una specie che ha il morso assai doloroso, attaccate a foglie di palma. Poi tutti gli abitanti del villaggio, senza distinzione di età e di sesso, si presentarono a lui ed egli dovette farli pungere tutti dalle formiche sulla faccia, le cosce e altre parti del corpo. Qualche volta, quando egli applicava le formiche con troppo riguardo, essi gridavano: «Ancora! Ancora!» e non erano contenti finché la loro pelle non fosse sparsa di bollicine come quelle che si sarebbero prodotte fustigandoli con ortiche. Lo scopo di questa cerimonia è spiegato dall’usanza, in vigore nell’Amboyna e nell’Uliase, di cospargere gli ammalati con spezie eccitanti, come zenzero e garofani, masticati minutamente affinché la sensazione di pizzicore scacci il demone della malattia che si suppone attaccato alla loro persona. A Giava, una cura popolare per la gotta e i reumatismi è di stropicciare del pepe spagnolo sulle unghie delle dita dei piedi e delle mani del paziente; il bruciore dato dal pepe si suppone che sia insopportabile alla gotta e al reumatismo, che se ne vanno in gran fretta. Talvolta sulla Costa degli Schiavi la madre di un bambino ammalato si persuade che uno spirito maligno si sia impossessato del corpo del figlio, fa dei piccoli tagli sul corpicino dell’ammalato e introduce nelle ferite dei pezzi di peperoni verdi o spezie, credendo di far soffrire così lo spirito maligno e di forzarlo ad andarsene. Il povero bambino urla naturalmente dal dolore, ma la madre s’indurisce il cuore pensando che il demone soffre altrettanto.
È probabile che lo scopo di alcune cerimonie che si osservano qualche volta nel ricevere i forestieri — ma di cui non ci vien detta direttamente l’intenzione — sia dovuto piuttosto a questo timore della loro influenza che non al desiderio di fargli onore. Nelle isole giavanesi Ongtong, che sono popolate da Polinesiani, pare che i sacerdoti o stregoni esercitino una grande influenza. La loro occupazione principale è di evocare o di scongiurare gli spiriti allo scopo di impedire o di disperdere le malattie, di procurare venti favorevoli, pesca abbondante, ecc. Quando gli stranieri approdano a queste isole sono ricevuti per primi dagli stregoni, vengono spruzzati d’acqua, unti d’olio e cinti di foglie secche di pandano. Nello stesso tempo si getta abbondantemente qua e là per ogni verso acqua e rena e il nuovo arrivato e la sua barca vengono strofinati con foglie verdi. Dopo questa cerimonia i forestieri sono presentati dagli stregoni al capo. Nell’Afganistan e in alcune parti della Persia, prima di entrare in un villaggio il viaggiatore è spesso ricevuto con un sacrificio di vite animali, di cibo o di fuoco e incenso. La Missione per i confini afgani, passando vicino a villaggi afgani, era spesso ricevuta con fuoco e incenso. A volte un vassoio di brace vien gettato sotto gli zoccoli del cavallo del viaggiatore, con le parole: «Siate il benvenuto». Entrando in un villaggio dell’Africa centrale, Emin Pascià fu ricevuto con il sacrificio di due capre; il loro sangue fu spruzzato sul sentiero e il capo passò sopra al sangue per salutare Emin. Qualche volta il terrore dei forestieri e della loro magia è troppo grande per permettere che siano ricevuti nel villaggio. Così quando Speke arrivò in un certo villaggio, gli indigeni gli chiusero le porte perché non avevano mai visto un uomo bianco, né le cassette di latta che portavano gli uomini. «Chissà, — dicevano, — se queste cassette non siano il predatore Watuta così trasformato e venuto a ucciderci? Non potete entrare». Nessuna persuasione poté commuoverli e la comitiva dovette continuare la sua strada fino al villaggio seguente.
Il timore di visitatori sconosciuti è spesso reciproco. Entrando in un paese straniero il selvaggio sente che calpesta terra incantata e prende ogni precauzione per difendersi contro i demoni che l’infestano e le arti magiche dei suoi abitanti. Così, andando in una terra straniera, i Maori fanno alcune cerimonie per renderla «comune» nel timore che sia già «sacra». Quando il barone Miklucho-Maclay si avvicinò a un villaggio sulla Costa Maclay della Nuova Guinea, uno degli indigeni che lo accompagnava spezzò un ramo da un albero e appartandosi parlò sottovoce al ramo per qualche tempo, poi accostandosi a ciascun membro della comitiva, uno dopo l’altro, gli sputò qualche cosa sulla schiena, dandogli dei colpi col ramo. Per ultimo andò nella foresta e seppellì il ramo sotto le foglie secche nella parte più folta della giungla. Si riteneva che questa cerimonia avrebbe protetto la comitiva da ogni tradimento e pericolo nel villaggio a cui si avvicinava. Probabilmente il concetto era che le influenze maligne erano così attirate dalle persone nel ramo e con esso sepolte nelle parti più profonde della foresta. In Australia, quando una tribù straniera invitata in una regione si avvicina all’accampamento della tribù a cui appartiene la terra, «gli stranieri portano nelle mani cortecce o legni accesi allo scopo, dicono loro, di purificare e chiarire l’aria». Quando i Toradja fanno una spedizione a caccia di teste umane ed entrano nel paese del nemico, non devono mangiare alcun frutto che il nemico abbia piantato né alcun animale ch’egli abbia allevato fino a che essi stessi non abbiano commesso un qualche atto di ostilità, come ardere una casa, o uccidere un uomo. Credono che se mancassero a questa regola riceverebbero in loro stessi qualcosa dell’anima o dell’essenza spirituale del nemico, il che distruggerebbe la mistica virtù dei loro talismani.
Similmente, si crede che un uomo il quale abbia fatto un viaggio possa aver contratto qualche male magico dagli stranieri con cui si è trovato. Tornato quindi a