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Saranno rosse le mie scarpe
Saranno rosse le mie scarpe
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E-book495 pagine5 ore

Saranno rosse le mie scarpe

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Info su questo ebook

Ambientato all’interno di una famiglia media italiana, dagli anni ‘70 ai giorni nostri, il romanzo racconta la catarsi di una ferita individuale occorsa, maturata e nel tempo faticosamente guarita. Incontriamo la protagonista, Greta, quando è ancora una bambina e, appena trasferita a Gorizia, prende le misure con la sua nuova vita. I primi giochi nel cortile, i timidi tentativi di stringere legami e, al contempo, i battibecchi in famiglia, con la nonna specialmente, con cui forzatamente divide i suoi spazi. Figura solida e ingombrante, suscita nella nipote un amore smisurato ma un altrettanto grande risentimento per il tempo che le sottrae con sua madre, sempre attenta alle esigenze della donna e forse un po’ troppo incline a soddisfarne i puerili capricci. Il menage familiare è straordinariamente realistico, fonte di frustrazioni, ilarità, incomprensioni e condivisioni ed espone con cristallina chiarezza la diversità di vedute di generazioni non tanto lontane eppure incompatibili. 
Angela Rossi ci regala una storia sulla faticosa ricerca della libertà e dell’affermazione individuale in un contesto affettivo complesso, resa ancora più ardita da un evento delicatamente celato nell’ombra di queste pagine, dense di emozioni e di significato.

Angela Rossi è nata a Trento nel 1964. Dopo gli studi giuridici si è sempre occupata di Risorse Umane e di Organizzazione, dapprima come manager in aziende private, quindi come coach e consulente aziendale. Appassionata di temi di sviluppo personale, è attivamente coinvolta in attività di supporto e cura della persona anche nel mondo no profit per l’Associazione Imprenditore non sei solo.
Questo è il suo romanzo d’esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2021
ISBN9788830640917
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    Anteprima del libro

    Saranno rosse le mie scarpe - Angela Rossi

    ALLA FINESTRA

    L’ho a lungo rimirata quella famiglia, in tanti anni.

    Da subito, appena arrivati. Impicciandomi come una scimmia.

    Un babbuino con lo sguardo fisso, incuriosito, che, anche senza volerlo, ritmicamente si riportava alla finestra. Imparando in rapida successione ad interessarmi più compita, alle loro vicende. A quei piccoli affreschi quotidiani in cui di fronte a me andava in onda una famiglia a dir poco normale, serena, media italiana.

    Questioni per lo più comuni, che pure mi hanno provocato nel tempo un sottile turbamento, indecifrabile, intimo e assassino.

    Per questo rimanevo tanto spesso ad assistere alle loro interazioni, sbirciandole attentamente da dietro la tenda della porta finestra che dava sul mio balcone. A volte divertita, a volte annoiata, anche infastidita. A tratti invece in piena commozione, estasiata. Quando mi incantava ad esempio quella dolcezza triste dei loro tanti sorrisi celati, o il rigore della sopportazione, persino gli improvvisi sputi di esasperazione, pure quelli, sì, comunque la forza di quegli intrecci viscerali, quell’intensità che solamente dentro a fluidi di consanguinei può circolare.

    La famiglia. Che tranquilla sorgente di linfa vitale. Ma che fonte anche di scherzi inaspettati, crudeli. E non si anestetizza in quei casi la ferita. Nemmeno quando sia preterintenzionale, il danno. L’unica allora è imparare a rimanere indifferenti, saperci stare là dentro, senza parole. Come avevo fatto io, ai tempi miei. Con la mia. Di famiglia.

    Insomma, le ho conosciute bene tutte quelle persone, io. Eh già.

    Ci ho passato davvero un discreto tempo, seppur in larga misura con una vista dal balcone. Gli scambi a tu per tu erano occasionali… buongiorno, buonasera, sì, no, il tempo, la spesa… poi scusi scappo che c’ho da preparare una riunione... Ma che glielo dicevo a fare io… alla vecchia. Era oltre la sua capacità di comprensione. Però mi sorrideva sempre lei, distendeva quella sua bocca completamente senza denti quando, con presa energica e volitiva, veloce si trascinava poi le sue grosse borse dentro casa; il sabato mattina solamente, eh, ché durante la settimana quando mai ero in giro a fare compere, io.

    La figlia invece era un po’ più schiva, e frettolosa, o almeno andava sempre di corsa, poveraccia, comunque era più difficile entrarci in comunicazione. Seppure noi due fossimo più vicine d’età, non proprio coetanee ma in senso lato appartenevamo alla stessa generazione.

    La massima attenzione però me la prendeva la nipote, quello strano animaletto perennemente in agitazione. Sarà perché io non ho ragazzi, ma era interessante per me osservare tutte quelle bizzarrie, quelle continue mutazioni. La mattina allegra, il pomeriggio triste. Macché, spesso si giocava su quarti d’ora. Tuta, jeans e lunghi camicioni allora; poi, improvvisamente, attillati pinocchietti a razzolare in giro, secchi secchi sopra a grandi zepponi.

    Lei e il fratello tontolone. Anche un po’ trascurato lui, a dirla tutta, più precisamente frustrato, quel povero Paperino. Così tanto spesso comparato alla sorella. E sotto sistematico rinfaccio per la sua minore prestazione. Li ho seguiti sin da piccolini quei due, fino ad adulti avviati, esattamente dal giorno in cui quella famiglia arrivò, da un’altra regione; saranno stati alle elementari i bimbi.

    Salvo poi perderne le tracce.

    Dopo la loro partenza, più nessuna frequentazione. Solo gli auguri, a Natale e a Pasqua, all’inizio anche di buone vacanze, poi via, ciao, praticamente senza nessun’altra condivisione.

    E mi sono mancati. Ma proprio tanto. Così almeno mi sono accorta. Dopo.

    Di quanto quelle presenze nella mia vita super professionale, così stancante e frettolosa, e così solitaria, riempivano la mia calma. Davano, guarda te, un caldo filo conduttore alle mie giornate. Erano quasi una parvenza di famiglia, via.

    Li avevo pensati molto, anche in seguito.

    Senza immaginare ai tempi come avrei impattato su di loro, più tardi, io. Sì, proprio io.

    1. ARRIVO A GORIZIA

    (1972)

    Che terra diversa. Niente montagne rocciose, niente pendii. Niente prati scoscesi, arrampicati obliqui, quasi appesi. Come si vedono da giù, dal fondo valle.

    Lo sguardo poteva adesso spaziare in orizzontale senza cozzare quasi contro nulla. Girare tutt’intorno luminoso. Poteva rilassarsi l’occhio su quella distesa chiara che si spandeva dall’affaccio del nuovo balcone, ingentilita solamente da qualche collina in lontananza; tranne una, tra tutte la più alta, chiamata infatti monte. Era il Sabotino.

    Gorizia sembrava una città molto tranquilla, sonnacchiosa nel suo sapore austroungarico, chiaro al suo primo impatto nelle sue ville ordinatamente adagiate su Corso Italia e nei suoi palazzi storici del Settecento. Tutte case basse, comunque, al massimo di tre, quattro piani. Tranne un unico grattacielo, nero, poco distante da casa loro, che svettava imperioso nel tentativo di regalare a quel luogo un po’ di modernità, un vezzo quasi metropolitano. Macché. Trasmetteva inesorabilmente un’aria residenziale quella cittadina, la quale, meglio guardata, a dispetto degli antichi migliori fasti, si sarebbe rivelata fiacca, desolata dal punto di vista economico ed imprenditoriale. Altro che Nizza austriaca. Ma non era tutta colpa sua, pagava infatti quell’essere stata più o meno tagliata a metà, ai tempi della guerra, la seconda. Zona di confine era così rimasta, in ogni caso solo propaggine di una ridisegnata nazione. Poca effervescenza dunque. E poco lavoro.

    Si farà, si erano detti Giancarlo e Pina. Il Paese, è vero, stava ovunque un po’ arrancando, ma ancora coltivava la speranza di riscoppiare come il decennio precedente, di riversare quell’italiana fatica, quella morigeratezza, quella prudente devozione in nuovi sfarzi, in nuovi consumi, in nuova produzione. Pazienza ci voleva, si erano detti. E ottimismo. Per intanto toccava accomodarsi, rimboccarsi le maniche ed esplorare. Loro che peraltro in quel luogo ci stavano approdando quasi da altolocati visto il ruolo di Giancarlo, divenuto grazie a quel trasferimento il vicedirettore del suo ufficio, avamposto territoriale di un Ente nazionale.

    Così erano arrivati nella loro nuova città, finalmente.

    E si erano insediati nel nuovo appartamento. Certo un po’ più piccolo rispetto al precedente, quello che avevano appena lasciato a Trento; purtroppo in mano di terzi. Necessariamente affittato, se volevano continuare ad onorare con serenità il relativo mutuo.

    I bambini parevano averla presa abbastanza bene, e comunque erano piccoli. A Gorizia Greta avrebbe proseguito la scuola con la terza elementare, Filippo avrebbe invece direttamente inaugurato lì la sua stagione scolastica.

    «Dai, ragazzi mettete di là i vostri giocattoli, nella vostra stanza. Collaborate, su» una voce dolce li aveva esortati.

    «Abbiamo quasi finito!».

    Stanca si era allora appoggiata Pina con le anche al lavello. «Oh in tre giorni abbiamo fatto tutto, siamo stati veloci, no?» aveva guardato il marito con soddisfazione.

    «Sì, non ci possiamo lamentare» le aveva restituito lui dentro ad un sorriso umile.

    «Mi sa che stasera finito Carosello… tempo di spedire a letto quei due e sarò a dormire pure io» aveva fatto Pina.

    Si erano seduti un attimo, entrambi. A rifiatare.

    Era stata una decisione importante quella. E delicata. Sei anni Filippo e otto Greta, un timido candore infantile preso, impacchettato e deportato in una città diversa, da un giorno all’altro. Più facile per Pina, felice mammina trentacinquenne, disoccupata. Almeno per l’Ufficio del Lavoro. Casalinga impegnata, invece, e molto solerte nel governare la famiglia; di più, quasi una macchina da guerra se erano già riusciti ad imbarcarsi nell’acquisto di una prima casa, a Trento, e ad avviare una seconda, su a mezza montagna, al paese di Pina. Solo una piccola porzione della vecchia casa padronale in verità era quella, il fienile per la precisione, e pure da riadattare totalmente se volevano assicurarsi quel perenne fresco rifugio estivo. E loro lo avevano voluto strenuamente. Certo, mantenere in piedi quel progetto era cosa ambiziosa, lo sapevano, ma l’avrebbe sostenuto la carriera di Giancarlo, eventuale sì ma al momento più che promettente. Lui anzi voleva capitalizzarla presto, con lo sbocco alla dirigenza prima della sua tonda quarantina; hai visto mai. Aveva due anni di tempo dunque. Per questo avevano accettato e forse anche un po’ indotto quel loro trasferimento.

    E ora, seduti, meditavano. O meglio, rimiravano il compiuto realizzo di quell’impegnativo trasloco.

    Si erano sorrisi, con dolcezza. Intenso era partito lo scambio, dentro ad uno sguardo caldo e fiero. Di sfida. Non solo speranzosa. Una coda di inquietudine lo aveva infatti attraversato.

    Sarebbero stati in grado di adattarsi ad una nuova città, ad una vita così differente? Sì, tanto diversa. Presto infatti li avrebbe aggiunti anche Alda, la mamma di Pina. Che insieme avevano deciso di invitare anzi di ricoverare da loro perché avesse le cure e il calore di una famiglia, come solo una figlia femmina può fare; e non già rimanere a far la vedova, lontana e sola.

    «L’alimentari qua dietro è piccolo ma molto fornito, e sono anche molto gentili, sai?» aveva annunciato Pina al marito, con voce argentina.

    Tornata di nuovo in azione, stava armeggiando per assicurare a tutti un pranzo.

    Un carosello di piatti e bicchieri roteava dunque dai nuovi armadietti della cucina giù, sul tavolo, rodando le procedure di quella nuova sistemazione.

    «Dai bambini, a tavolaaa!!!» aveva chiamato l’adunata la mamma, assistendo sorpresa ad una immediata trotterellata di due faccine sorridenti. Non si erano fatti pregare quella volta.

    «Dopo la pastasciutta vi faccio assaggiare un prosciutto… un prosciutto… che è la fine del mondo! Lo tagliano a mano qui, sapete».

    «Scòla! Scòla che è fattaaaa!!!» si era agitato Giancarlo con un filo di spaghetto ancora appeso alle labbra . È che non lo tollerava proprio, lui, di mangiare una pasta che avesse perso il dente. Era nato a Benevento, infatti. E con pieno disappunto lì, a Trento, arrivato ai tempi dei concorsi pubblici ovvero con la vittoria del suo primo lavoro in mano, si era imbattuto in quella malsana abitudine di cuocerla più a lungo e di produrre quella strana conformazione collosa, ai suoi occhi, che gli rallentava proprio la mandibola in bocca. E la digestione. Così lui sosteneva.

    Alle loro spalle nel frattempo si era trasfigurata Pina, confusa in una nuvola d’acqua bollente che nel cader giù nel lavandino tutta l’aveva avvolta di vapore. Così appariva. Una Madonna contornata da un’aureola.

    «Pronti… tovagliolo davanti e… come si dice?». Ancora inumidita aveva preso a sorridere, seduta di fronte alla sua prole.

    «Buon appetitoooo» le avevano risposto i bambini.

    «E in ufficio, come è andata? Ne hai conosciuti altri, di colleghi?» aveva quindi fatto a Giancarlo. «Il direttore com’è? Vi state affiatando?».

    «Quante domande! Passami il pane per piacere».

    «Emmangia… dai Filippo, su, non guardare per aria» era nel mentre intervenuta Pina.

    «Mamma, ma cos’è quella scritta là fuori, in cima alla montagna?» aveva domandato Greta con la forchetta verso la finestra.

    «Per ora è andata bene… anzi benissimo, c’è un’atmosfera molto cordiale…» stava rispondendo Giancarlo «boh, magari è solo all’inizio che sono così affabili eh… però io sono ottimista... sta venendo tutto molto naturale, anche con il direttore».

    «Ma se non ha neanche un albero, ma che montagna è?» aveva intanto ribattuto Filippo alla sorella.

    «È un monte anche quello… più piccolo dei nostri ma sempre monte» si era girata verso i figli Pina. «Giù quella posata Greta... e anche se non sono dei pini gli alberi ce li ha, è solo un po› più brullo, più secco… per questo ha un colore marrone. Comunque si chiama Sabotino» aveva chiarito.

    «E la scritta?».

    «C’è scritto Nas Tito, l’ho chiesto in ufficio vuol dire nostro Tito, sapete lì è già Jugoslavia e quello è il loro Presidente… si vede che è un segno di rispetto… chiamiamolo così va…» aveva spiegato Giancarlo «…o forse più di fanatismo».

    «Che vuol dire fanatismo?» aveva domandato Greta.

    «Quando si è esagerati nel credere le cose… e magari si fanno anche delle brutte azioni per difenderle» aveva confezionato lui.

    «E dopo che farete bimbi, scendete in cortile?» aveva sorriso loro la madre. «Ieri avete conosciuto dei nuovi amichetti?».

    Erano volate sul tavolo delle mollichette di pane.

    «Fermo» aveva intimato il padre.

    «Sì o no?» aveva insistito Pina.

    «Io gioco con le costruzioni, dopo» aveva comunicato, serio, Filippo.

    «Ah, e tu Greta?».

    «Non lo so, gioco con Filippo».

    «È importante che fate nuove amicizie, anche perché manca ancora un mesetto all’inizio della scuola dove troverete i nuovi compagni, intanto mica potete stare da soli…».

    «Eh sì eh, e intanto che fate… state sempre chiusi in casa come dei fessi?» li aveva spronati il padre.

    «Ma non vi siete divertiti giù? Chi avete conosciuto?» aveva insistito Pina.

    «No» aveva fatto Filippo.

    «Nooo, e perché?! Nemmeno tu Greta?».

    «No, non abbiamo conosciuto nessuno».

    «E come è possibile? Siete tanti bambini nel cortile, e siete anche stati giù un paio d’ore».

    «Sì ma non ci voleva nessuno…» nel dirlo aveva spostato il labbro in fuori, Filippo, mantenendolo così proteso, sotto ad uno sguardo perso sul muro.

    «Ma come… è così Greta?».

    Lei aveva solo scosso il mento, in su e in giù.

    «E voi come lo sapete che non vi volevano, glielo avete chiesto di giocare?».

    «Sì, mamma». Filippo stava facendo una fila sul tavolo, spostando tutti i bicchieri davanti al suo piatto.

    «Io gli ho detto: Ciao sono Filippo siamo arrivati nuovi, ci fate giocare con voi? ma hanno detto di no. Poi anche di sì, ma invece si parlavano solo tra di loro».

    «Greta, tu cosa hai detto, anche tu ti sei presentata?».

    «Sì. Però prima hanno detto che dovevano deciderlo tra di loro se volerci a giocare, poi hanno detto che quelli nuovi non li volevano… che noi non sapevamo i loro giochi».

    «E voi che avete fatto allora?».

    «Io sono andato a prendere la bicicletta nel garage e li inseguivo, ma loro correvano forte, allora poi sono andato in giro da solo. E sono stato con Greta».

    Voltava la testa in qua e in là, Pina, nell’osservare quelle due facce avvilite.

    «Anch’io sono stata un po’ a guardarli, poi abbiamo giocato solo io e Filippo».

    I piatti aspettavano di essere lavati. Anche il disorientato dolore di quei figli. Prima delle stoviglie.

    «Mamma, torniamo a Trento?» le aveva a quel punto infilato in faccia i suoi occhi celesti Greta.

    «Sì, daiii» si era precipitato anche Filippo.

    «Non si può cicci. Almeno non ora. Ma ci torneremo, prima o poi. Adesso è questa la nostra città e io sono sicura che vi piacerà un sacco. Anche questi bimbi nel cortile… hanno solo bisogno di un po’ di tempo, forse hanno pure un po’ paura di voi, in fondo non vi conoscono. Vedrete che in qualche giorno farete amicizia e poi farete dei giochi bellissimi insieme».

    «Dici?» aveva sorriso Filippo.

    «Sì, certo, vieni qui che ti soffio il naso». Aveva sorriso ad entrambi. «Dai, non dovete essere tristi, ne sono sicurissima».

    «A Greta però gli hanno anche detto che è brutta, e di andare via».

    «Ma figuriamoci…» la testa le era scattata verso la figlia. «Greta mica gli hai creduto, vero? Comunque Filippo si dice le, non gli… perché è femmina».

    «Sono cattivi, mamma, io non ci torno più» aveva sbottato lei di rimando.

    «Neanch’io! Sto a casa con Greta. Giochiamo noi due insieme».

    «Va bene. Domani state a casa e giochiamo qui, anche con la mamma, contenti? Pensate a un gioco che si può fare in tre».

    «Che belloooo» avevano esultato, all’unisono.

    «Greta, vieni qui… è solo perché non vi conoscono, sai, tu non sei brutta per niente… a volte si dicono cose cattive ma solo per paura, vedrai che poi vi capirete, e starete bene. D’accordo?».

    «Sì…».

    «Vieni qui, fammi un sorriso, dai».

    Pina se l’era poi sfilata da quell’abbraccio, lenta. Senza sentirsi più leggera. Aveva anzi avvertito qualcosa di antico agitarsi in fondo alle sue viscere.

    Già. Quel suo esser fuori posto. Quell’inadeguatezza che tornava a rimbombarle addosso, atavica, infida. E forse ancora vera.

    ODORE DI FUTURO

    Loro stanno uscendo. Il braccio di Giancarlo sulla spalla di Pina.

    Odore di futuro sento, a guardare quella giovane coppia. Eh sì, proprio quello. Ora non lo saprei descrivere precisamente, ma tutti l’abbiamo provato. Da giovani, in special modo. Dai, sono certa che mi capite. C’è un’età in cui si inizia ad avvertirlo molto chiaramente, in mezzo alle tante cose quotidiane. Son attimi eh, ma in certe folate arriva proprio forte quell’effervescenza dolce, così frizzante, e così avvolgente. Tanto da riempirci le narici. In genere si appoggia in punta di lingua, proprio lì, e dà sapore al nostro sorriso.

    C’è un ingrediente misterioso in quel profumo, capace proprio di umettarla quella languida voglia di benessere, di tradurre in acquolina il seducente abbraccio della vita. A volte si presenta con una coda agrumata, che ti arriva allora in retrovia, uno spruzzo legnoso, un’ansia di sorpresa, di cui stenti a riconoscere le note. Se ne mischiano alcune gioiose, infatti, di radiosa eccitazione, e altre fosche, di trepidazione, addirittura di vero batticuore. Sempre, comunque, avvolte da conturbanti riflessi di imprevisto. E quando ci viene addosso, quell’odore, ci tocca la pancia, lo sentiamo muoverci piacevolmente il ventre.

    Purtroppo col tempo comincia a diradarsi. E infine a mancare. Non è così, ad esser precisi diciamo che muta. Già, si ripresenta anche in tarda età ma con una connotazione differente, per consegnarci una sensazione decisamente diversa. Si amareggia, infatti.

    Arriva allora sotto forma di sapore asprigno. E va mantenuto in bocca a lungo, quel gusto di ricordo; spostandolo indietro nel palato se lo si vuole assaporare bene. L’operazione allora no, non è sgradita, affatto, la si fa anzi spesso, e volentieri. Ma tocca star attenti a prolungarla, ché se dura troppo quella poi… ci prende gli occhi.

    Allora baciatevi, sì. Baciatevi tanto. Con la vostra bocca ancora al sapore di vaniglia.

    NUOVI ARRIVI IN CONDOMINIO

    È un sollievo per me avere un affaccio arioso.

    Il mio balcone si colloca in alto infatti pur nel lato interno dei due condomini i quali, identici, stanno uno di fronte all’altro ad osservarsi, con circospezione. A giusta distanza.

    Una decina di metri, fatidica, consegna alla vista di noi condomini il suo spettacolo. Un caleidoscopio di umane declinazioni, in perenne rappresentazione. Consentendoci strategica lo svolgimento di alcune fondamentali operazioni. Di confrontarci, ad esempio, sulle reciproche visioni della vita, tipicamente offerte in qualche strillo. Oppure di spiarci di sottecchi, soddisfacendo l’atavico bisogno di scrutare dentro a qualche vita differente; magari per capirlo fino in fondo come ci si stia in quella sofisticata, pizzuta biancheria. O di controllarci; prendendo ossessivamente nota pure di quanti biscotti mangiamo a colazione, all’occorrenza. Ma anche di ispirarci. O di imitarci. Perché no. Potendo così assumere, ultimata l’istruttoria, una ponderata e definitiva posizione. Decidere, dunque. Se amarci o odiarci.

    Già.

    Eccoli, i buoni e i cattivi. I simpatici e gli antipatici. Che lo rimarranno per sempre, data la scarsissima propensione degli umani a cambiare il proprio punto di vista.

    Conta così anche questo agglomerato di popolazione, una fauna piuttosto varia. C’è il rappresentante di commercio; c’è il bancario; c’è l’agente assicurativo. Ma ci sono anche l’operaio, l’insegnante e l’impiegato. Pure un maresciallo. Senza dimenticare un paio di coppie di vecchietti, più che pensionati, o l’anziano tutto rinsecchito che così spesso se ne torna a casa la sera mezzo ubriaco, faticando con l’auto a imboccare lo spazio del cancello.

    E ovviamente il funzionario or ora venuto da lontano con la sua bella famigliola. Il mio preferito.

    Una variopinta brigata insomma si muove in questi appartamenti. Chi c’ha la mamma a carico, chi strilla con la zia, chi vuole dei figli, chi già ce li ha, chi no, affatto, per carità; chi addirittura oddio son già troppi, chi due signora glielo dico sono perfetti. E infine chi suona il piano. Esattamente sotto camera mia.

    Che possiamo dire. Una cosa sola, sopra a tutte. Arriveranno tempi migliori, quelli in cui le mogli non avranno in mano solo pannolini e scopettoni?

    Comunque una parte importante delle persone qui dentro resta anonima. Il normotipo che prevale nella contrada, ahimè, è quello che non dà confidenza, quello che non si fa conoscere. Con ciò rilasciando lui per primo, viceversa, un chiaro indizio della sua capacità di socializzazione. E pure chi, senza parole, sa dispiegarsi velocemente agli altri, con il solo comportamento. Chi ad esempio taglia i palloni, quando i bimbi in qualche scomposta piroetta li scodellano nel suo balcone. Al primo piano. O chi, mentre abbottona impettito la sua giacca doppiopetto, li minaccia direttamente col bastone; perché troppo vicini con le loro bici, i maledetti, troppo, troppo vicini a quel suo fiammante macchinone. Quinto piano.

    Storie di vicinato. Niente di nuovo. L’adulto branco come sempre si dimostra ben insediato, e radicato.

    Ma anche quello piccolino non scherza. No, mi son resa conto che non scherza affatto.

    Per fortuna che dopo qualche giorno se li sono inglobati, quei due ragazzini là sotto. Dai e dai, si sono impietositi e a furia di vederli strisciare da soli contro il muro hanno preso a lanciargli qualche pallone.

    Il clan, che crudeltà. Davvero brutta quell’animale manifestazione. Che sia frutto dell’educazione? O un automatismo necessario, un prezzo, ormai, della civile evoluzione?

    Per fortuna ora scorrazzano tutti assieme, sani e belli. Proprio come devono essere a quell’età. Felici.

    Così almeno sento dire, da tutti.

    CUCCIOLI

    Si sta facendo fresca l’aria, ormai. I bambini li vedo molto sul balcone, giù in cortile non scorrazzano più così a lungo. Eh sì, stanno tutti dentro.

    È qualche giorno però che sono in fermento. I piccoli che ho di fronte. Precisamente da quando sono tornati con le cartelle, no, solo una, comprata a Filippo, credo. In compenso hanno entrambi dei bei quaderni nuovi, colorati, e dei pennarelli, forse, ché così in piccolo non vedo bene. Comunque sono proprio comici, girano tutti e due per casa con gli astucci in testa. Sembrano così orgogliosi di quella dotazione. Sarà una vera festa, allora, andare a scuola. Un’occasione per socializzare, per aprire una nuova stagione di relazioni, collettive ma anche individuali, e reagire così a tutta quella strettissima comunione familiare, da quando dentro casa è arrivata la nonna. Quel camminarsi quasi sui piedi, quel respirarsi addosso, intendo, a cui non sono tanto abituati, credo.

    E io lo so molto bene, ai tempi miei eravamo troppi in casa e per reazione finisce sempre che ti costruisci un muro. Nasce legittimamente, per difendere il tuo privato, ma se ti scappa la mano e ci costruisci sopra un filo spinato è un vero guaio. Stare costretti in un perimetro recintato in cui non entra più nessuno è un’impresa. Resti davvero isolato. Non auguro a nessuno di portare i passi in giro in un solo metro quadrato. È davvero asfissiante.

    Niente barriere, dunque. Reagite, siate sfrontati ragazzini! Ché il mondo non è dei timidi. Purtroppo.

    2. PRIMO GIORNO DI SCUOLA

    (1972)

    «Ti sei preparata la cartella per domani, Greta?». Girata di tre quarti aveva sorriso alla figlia, Pina.

    «Ehi mamma ma domani ci vado anch’io…» si era infilato Filippo.

    «E certo! Tu mica vai ancora all’asilo, ora hai iniziato anche tu, no?» l’aveva guardato lei trattenendo il riso. «Ma te la sai fare da solo, la cartella, o te la prepara la mamma?».

    Puliva i fagiolini intanto, Pina. Per questo si era appoggiata il grembiule sulla camicia. Aveva quella celeste e bianca, a quadri larghi, che le si appoggiava aggraziata sui fianchi accentuandole ancor più la vita stretta. Non era la tenuta da casa quella, ma una volta tanto non s’era cambiata dopo essere tornata dal mercato. Così, per sentirsi ancora un po’ frivola e non archiviare già prima di pranzo lo spazio della vanità, quell’effimero momento di femminile manifestazione, volendo assicurare ancora una veste di civiltà alla giornata. Anche la cotonatura dei capelli ancora teneva, alta svettava sulla sua figura. Riflettendosi, quel castano della chioma, nell’identico colore dei suoi occhi.

    «È stato un peccato mamma che non c’eri qui, all’inizio della scuola».

    «Perché?» aveva fatto lei alzando il naso dal catino. Impegnata là al suo fianco nella stessa cura.

    Era arrivata da circa un mesetto, Alda.

    Con un sorriso impaurito e con le sue poche cose si era insediata dunque nella camera più piccola fin lì in realtà pensata come studio dei ragazzi, ospitava infatti al suo interno un capiente scaffale e un’ampia scrivania. Sul mobiletto posto a tutta lunghezza dietro alla testiera del letto erano allora comparsi, ordinatamente sopra ad un centrino fatto ad uncinetto, un libro di preghiere, un fodero d’occhiali, un rosario e la foto del suo compianto marito Bruno, omaggiata in un angolo di cornice da un paio di fiorellini finti, sciolti da qualche bomboniera. Il romanzetto rosa quello no, l’inserto che settimanalmente la rivista Intimità regalava, l’unico vezzo che lei si concedeva, era viceversa sotto ai tre cuscini, quelli che impilava l’uno sopra l’altro per favorirsi il fiato la notte. Occultato dunque come una pratica sconcia, che mal si conciliava, suvvia toccava dirlo, con una cristiana, inappuntabile, pudibonda esistenza. Ogni tanto infatti le giovani protagoniste, sempre romantiche e piuttosto intraprendenti, finivano a baciarsi con qualche bel giovine tipicamente seducente, tenebroso e molto prepotente, e dunque rapite da desideri via via sempre più ardenti a un certo punto cadevano ai loro piedi. Scivolando così la storia su ultime piccanti pagine in cui facevan sèguito, seppur non troppo descritti, fatti più che concludenti.

    Da subito allora quei pomeriggi trascorsi con sua mamma avevano dato a Pina una dimensione di equilibrio alla giornata, uno spazio di dialogo adulto per lei davvero prezioso, dato che Giancarlo invece li doveva praticamente passare quasi tutti in ufficio.

    «Beh non è stato un momento facilissimo l’altro giorno» le aveva quindi risposto a bassa voce.

    «Allora Greta… ‘sta cartellaaa?!» aveva subito dopo lasciato andare l’ugola.

    Due spallucce alzate le avevano risposto. Trotterellando fino alla dispensa era poi ripassata in giù la figlia, in uscita dalla cucina con un biscotto in bocca.

    «Anch’ioooo!!!» si era subito illuminato Filippo.

    «Ve rovinà la cena così…» li aveva redarguiti Alda.

    «Ma come… Greta sì e io no?!» le si era fiondato addosso con viso scuro Filippo.

    A Pina era toccato solo ridere di fronte a quel convinto broncio di suo figlio.

    «Gretaaa… mi rispondi…».

    «Mamma sai cosa mangerei? Fragole e mirtilli…» ricomparsa le aveva fatto invece lei, appoggiandosi coi gomiti sulle gambe della madre.

    «Eh cara… quelli solo l’estate a Vigolo, quando papà va a funghi e li trova, allora sì che li raccoglie, ma adesso non ci sono».

    C’era rimasta male Greta, che come Filippo infatti ne andava ghiotta. Nella coloratissima tavolozza estiva della famiglia Cipriani sempre erano presenti quelle enormi zuppiere rosse e blu, stracolme di fragoline di bosco e di mirtilli selvatici, raccolti dalla certosina pazienza di Giancarlo; la stessa con cui lui con accuratezza maniacale li ripuliva dai picciòli, da aghi di pino e foglioline varie, li annaffiava di zucchero e limone e li lasciava poi a macerare un po’ nel frigo. E infine li serviva ai figli, come coronamento del pranzo o della cena. Decisamente la più goduriosa specialità della stagione, in particolare quel vermiglio sughetto che rimaneva nel fondo, l’ormai addolcito limone dove avevano ben navigato quei deliziosi frutti rilasciando tutta la loro morbida essenza. Nettare. Per i quali i bambini, come due veri spadaccini, si sfidavano all’ultimo sangue brandendo i loro cucchiaini.

    «Allora Greta sta cartella… l’hai fattaaa… ma sei sorda?!».

    «Sì, sì e sì» aveva risposto lei spazientita piroettando sul pavimento, attenta a non calpestare nessuna fuga di piastrella. «Ma che schifo però, ci devo proprio andare?».

    «Ehi no se dis così!¹». Alda si era schiarita la voce per dirlo.

    «Perché non ti piace Greta?».

    «Io non li conosco, non c’entro

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