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Streghe
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E-book416 pagine7 ore

Streghe

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Le streghe sono donne. Gli uomini temono le donne. Il pensiero libero è autonomia. Il potere teme l’autonomia.
Un romanzo. Il romanzo vivace e pieno di azione non è storia, è pura fantasia ma si innesta riassumendolo su un periodo storico durato tre secoli, tratteggiando tempi, luoghi, eventi, comunque storicamente identificabili. Tre secoli di razzie, devastazioni, violenze gratuite, secoli di distruzioni, di guerre combattute corpo a corpo, di sangue e di spirito. Il conflitto e la competizione tra l’impero e la chiesa nelle loro componenti, l’eresia, sono affrontati nei pensieri e nelle azioni dei personaggi fornendo spunti di riflessione che meritano un reale approfondimento. L’inquisizione, la caccia alle streghe, la sottomissione femminile, le sofferenze dei popoli, ne sono stati solo una conseguenza senza mai arrivare a sanare quelle divisioni che hanno concretizzato la storia europea, anzi, incrementandole.
«Il buio nell’animo umano». Ecco, cosa ha portato il medio evo ad essere definito il ‘periodo dei secoli bui’: non la mancanza della luce o l’assenza di tecnologia o di impulso artistico, non la cultura e neppure la grande ignoranza o il clima, non molto dissimile a quello attuale: inondazioni, inverni gelidi e torride estati con la conseguente riduzione dei raccolti che in quel contesto furono alla base delle carestie e delle epidemie pandemiche che decimarono le popolazioni più ancora delle guerre.
LinguaItaliano
EditoreAB line
Data di uscita30 lug 2021
ISBN9791220830904
Streghe

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    Anteprima del libro

    Streghe - Antonio Balzani

    Strega

    «Il popolo giudicherà» dichiarò il Conte. Il popolo decise che fosse arsa tra le fiamme. Era una strega. Era diversa. Faceva paura. Era il nemico. «Ma non ha mai fatto male a nessuno…» «lo dici tu e poi forse, soltanto perché non ne ha avuto l’opportunità». Aveva avuto ragione a sospettare dei nobili e della contessa. Contessa? L’amante in questo periodo di quel debosciato del conte Cyril, lei sì era una strega che aveva sedotto prima il conte e poi tutto il popolo: vivevano nel peccato e senza vergogna. Non c’erano dubbi che prima o poi l’avrebbe seguita sul rogo accusata di eresia, complotto, tradimento o qualunque altra cosa. Invece intanto era lei finita in un carcere buio e umido, dove il vento sibilava tra le sbarre della finestra. Non poteva farci nulla. Non poteva difendersi, da cosa poi? Doveva rimanere muta e aspettare, forse avrebbero cambiato idea, forse si sarebbero convinti: forse non le avrebbero più fatto del male. Aveva tempo per pensare, la notte era ancora lunga. Il dolore alle dita, agli arti, la fame e la sete non sono nulla in confronto al tormento nel profondo del mio cuore! Pensava. Sono stata tradita per vendetta. Non ho voluto fare quello che mi era stato richiesto. Ma non potevo dire di no: avevo fame e lui mi voleva. L’ho imbrogliato. Mi piaceva, era gentile prima che gli dicessi di no, forse gli avrei anche detto di sì e poi è diventato cattivo, violento. L’ho scacciato e si è vendicato. Un nobile potente rifiutato e scacciato da una popolana. Le altre, le mie amiche, le mie vicine, non hanno perso l’occasione di sparlare. Sono loro che mi hanno tradito, per invidia e gelosia. Non veniva più nessuno da me a farsi curare. Quel pane di segale, nero e amaro che mi regalavano, faceva fare brutti sogni; era colpa del pane, ne sono sicura ma io avevo fame, troppa fame per rifiutarlo. Credevo fosse colpa dei miei peccati ma quali peccati avevo fatto? Sognare un amore e la fortuna era peccato? Loro non mangiavano quel pane che facevano con la farina che scartavano: lo facevano apposta per me, per i poveri; e io le ringraziavo. Tutto il popolo era affluito alla porta della città per vedere bruciare la strega. Era stata vestita con una tela di sacco ruvida, per coprire i lividi e le ossa sporgenti. Le sue guance erano pallide come la morte, ombre lunghe e nere le segnavano gli occhi. Non le avevano toccato la faccia. I capelli, già ingrigiti tra il biondo naturale, cadevano sciolti, sporchi ed arruffati intorno al viso emaciato: sarebbe stato grazioso forse, se avesse avuto da mangiare, se avesse potuto riposare ma sembrava una vecchia, lurida e puzzolente che trascinava i piedi sorretta da due uomini, uomini che la toccavano con le sole mani guantate. Graziosa! Si. Si ricordava di esserla stata, quando? Tanto tempo fa quando quell’uomo si era incapricciato di lei e lei aveva rifiutato di fare quello che lui voleva. Quanto tempo era passato? Non ricordava nulla, solo dolore e dolore e quegli uomini bianchi e neri che volevano che confessasse; calore e dolore. Le sue labbra si muovevano piano in una preghiera silenziosa rivolta… a chi? Per lei non c’era più nessuno. Credevo che Dio fosse buono, che avesse misericordia dei deboli. Credevo che i monaci fossero buoni, li ho implorati, dicevano che profetizzavo sventure e dolore ma era la mia sventura, il mio dolore quello a cui pensavo e loro me ne hanno inflitto tanto. Perché? Cosa gli avevo fatto? Cosa avevo fatto di male a chiunque? Il popolo la ingiuriava al suo passaggio. «Strega,» urlavano; «strega». Cos’era una strega? Non era ancora l'alba, mancava un'ora al sorgere del sole, eppure la via che portava alla pira era piena di folla. Sfaccendati, mendicanti e ladri, curiosi in cerca di emozioni facili. Senza rimorsi o sensi di colpa. Quando andavano da lei per farsi curare una storta o procurarsi le erbe che avrebbero lenito i loro dolori non la consideravano una strega. Perché le volevano male allora? Non le volevano male: avevano paura. Avevano paura che potesse toccare anche a loro o alle loro figlie. I dolori, le lacrime e le notti insonni, l’inutile speranza, ora la laceravano come non avevano mai fatto prima. «Fai un sortilegio strega» urlavano tirandole sassi. «Fai una delle tue luride magie, salvati, uccidi i tuoi nemici,» la sbeffeggiavano. «Guardate come borbotta.» Borbottava sì, non riusciva a parlare, aveva le labbra gonfie e secche, screpolate. Quando mai lei aveva fatto magie? Non sapeva neppure cosa fosse la magia. Conosceva solo le erbe e le manipolazioni che le avevano insegnato la nonna e la mamma fin da piccola. Loro erano state rispettate, non temute, rispettate. Loro non erano mai state considerate streghe. Cosa avevo fatto di diverso? Che male avevo fatto? «Non è giusto. È sicuramente innocente!» sussurravano in molti, ma nessuno lo diceva a voce alta. Aspettavano tutti di vederla ardere su quella pira innalzata al centro della piazza come facevano con i fantocci di paglia a carnevale, quando si bruciava il male passato sperando in un futuro migliore. Ecco il suo destino. Il fuoco, violento e caldo l’avrebbe bruciata a partire dalle vesti per poi cuocere le carni mentre il lezzo della carne bruciata avrebbe ammorbato l’aria facendoli pentire. Povera gente. Stupida gente. Aveva paura. Temeva il dolore, non voleva altro dolore, aveva pregato che l’uccidessero, l’impiccassero, le tagliassero la testa ma loro avevano riso di lei e della sua paura. Il suo cuore era forte, più forte del suo corpo e non aveva ceduto. «Sono innocente!» Tentò di dire ma le parole non le uscivano dalla bocca. Muta doveva compiere al suo destino. Fu trascinata e spinta sulla catasta di legna, legata al lungo palo che l’aspettava. La gente si era ammutolita ora, tutti si guardavano i piedi. Sapevano di essere nel torto, sapevano che lei era innocente, una povera creatura debole e indifesa ma non facevano niente per fermare il fato incombente. Nessuno l’aveva condannata, soltanto non si erano espressi a suo favore quando quell’uomo che lei aveva rifiutato, l’aveva definita strega. Se ne erano lavati le mani, tutti: meglio a lei che a noi. Quelli cercavano solo un pretesto per terrorizzarli e ci riuscivano. Li vedeva tutti quanti ora, in silenzio che guardavano, aspettavano: volevano vederla bruciare, raccogliere e bruciare i loro peccati perché loro, gli inquisitori, non potessero più trovarli. Sapevano che era innocente: più di loro. Lui non c’era. Non aveva avuto il coraggio di affrontare le sue menzogne di vederne i risultati. Le sarebbe piaciuto vederlo… per maledirlo. Il fuoco era stato acceso, il calore le ustionava i piedi, il dolore era insopportabile, il fumo le riempiva gli occhi e il naso e la bocca e quando lei gridò per implorare, poco più di un sussurro le uscì dalla gola irritata. Respirò affannosamente e mentre il fumo le entrava nei polmoni soffocandola, non riuscì più a pensare, solo a soffrire, ad urlare con la mente contorcendosi disperatamente. Un uomo era salito su un tavolo al bordo della piazza, aveva teso l’arco e scoccato una freccia. Il suo ultimo pensiero non fu per quell’uomo che voleva maledire… fu per lui, lo benedì prima di spirare. Il silenzio sceso sulla piazza era cupo e doloroso, puzzolente, mentre tutti se ne andavano. Anche l’uomo che aveva tirato la freccia. Raccolse l’arco scese e se ne andò. Non aveva resistito. Sapeva che lei era innocente. Conosceva lui, il conte, erano amici, fratelli, andavano a caccia assieme bevevano, corteggiavano le servette. Lui era nobile, figlio del conte e suo successore designato, era orgoglioso e superbo, era cresciuto sapendo che tutto gli era dovuto. Lei non gli aveva fatto niente, era graziosa e restia, timida, sembrava perfino che lui le piacesse ma gli aveva resistito e lui si era incapricciato ne era stato ossessionato. Quando ancora una volta lei lo aveva respinto e la sua amante ingelosita glielo aveva rinfacciato, non aveva tollerato l’insulto e l’aveva denunciata per averlo ammaliato con un incantesimo: una strega. Poi erano arrivati i fanatici e l’avevano catturata e imprigionata, il suo destino era stato segnato. Non c’era stato più nulla da fare. Forse meritava di morire, forse, non lo sapeva più. Una volta avrebbe creduto che fosse così ma certamente non aveva meritato di soffrire così. La vita e la morte erano un gioco per quelli come loro, una scommessa per tutti gli altri. Si era pentito di non aver fatto nulla prima ma ora non poteva più far nulla: il prezzo della colpa andava pagato. Lei era innocente, era graziosa, era povera e affamata, era orgogliosa. Aveva fatto quello che aveva potuto per lei, quello che sapeva fare meglio. Il rimorso, comunque non lo avrebbe più lasciato accompagnandolo per tutta la vita. Forse, in fondo era davvero una strega e lo aveva stregato. Non sarebbe servito a nulla ora: lei era morta. Era morta una strega, ce ne sarebbero state altre, ce ne sarebbero state tante. Mentre si allontanava sul suo cavallo da guerra, uno stallone imponente, un sauro dalla coda bionda che lo differenziava da ogni altro cavallo esistente, addestrato a combattere, a mordere, a scalciare nella mischia senza fuggire, cavalcava senza indossare la corazza dell’armatura che stava riposta in un fagotto dietro la sella assieme a vestiti di ricambio e a provviste per qualche giorno, pensava intensamente a quanto era successo. Sapeva di doversene andare: l’amico, il fratello, non gli avrebbe perdonato il gesto misericordioso e lui era quello potente fra i due, era il figlio del conte di Biro. Cyril era il padrone assoluto del territorio difeso dal castello con le mura di pietra invalicabili in assenza del padre e lui era praticamente sempre assente. Aveva potere di vita e di morte sui suoi sudditi o almeno lo aveva suo padre ma lo esercitava anche lui, l’unica differenza era il criterio. Suo padre aveva minacciato di cacciarlo se non avesse imparato l’arte del comando e della responsabilità che comporta. Il conte sapeva bene che la sua forza e la sua ricchezza derivava dai contadini che lavoravano i suoi campi e ne desiderava il benessere, si impegnava a proteggerli e giudicava in modo severo ma giusto. I contadini forse non lo amavano ma lo rispettavano, pagavano, malvolentieri ma pagavano regolarmente i tributi imposti. I suoi soldati gli riconoscevano coraggio e decisione e lo seguivano volentieri quando partecipava a qualche impresa nel nome dell’imperatore o a fianco di qualche nobile alleato. Non si chiedevano perché combattessero, né per chi o per cosa: erano soldati e venivano regolarmente pagati e sfamati per combattere dove gli veniva ordinato di farlo. Per loro bastava. Non così suo figlio. Per lui i servi servivano solo a soddisfare le sue voglie e i suoi bisogni, erano oggetti, attrezzi che lui poteva usare e gettare. Era cresciuto nell’abbondanza e nel potere, il padre era spesso assente e senza il suo controllo esercitava un potere assoluto, senza limitazioni. Il popolo si era lamentato spesso con il conte al suo ritorno e lui aveva ripreso e minacciato il figlio di punirlo se non avesse imparato a rispettarlo, ottenendo soltanto di aumentarne l’astio e l’arroganza quando si allontanava di nuovo. Poi erano arrivati i monaci: differenti da quelli che c’erano sempre stati, miti e appartati, pacifici, sempre immersi in preghiera e a volte disposti ad aiutare chi ne avesse avuto necessità. Il loro piccolo monastero godeva della immunità della chiesa e chi veniva accolto non doveva temere gli uomini del conte. Questo permetteva di affrontare i problemi con calma e dava il tempo di ragionare. Loro si prestavano volentieri a questo. Se riuscivano, salvavano o almeno recuperavano parte dell’anima di un peccatore aggiungendo meriti e benefici nell’aldilà per il conte. In cambio non avevano problemi a mangiare tutti i giorni. I nuovi monaci arrivati erano tre, seguiti da un codazzo di armigeri. Erano vestiti di ottimo tessuto bianco con sopravveste nera e portavano ricamato in oro un pastorale sul mantello e la sopravveste. Croci d’oro esibite in piena vista. Si erano presentati mostrando lettere di garanzia, col sigillo del papa e dell’imperatore ed un incarico preciso: trovare ed eliminare gli eretici e i ribelli da ogni territorio dell’impero controllato dal papato: con ogni mezzo. Nihal, era il suo nome, sapeva che i tempi erano turbolenti e che la ribellione serpeggiava ma non qui, non nel territorio di Biro. Era proprio per questo che quei monaci erano giunti lì, sapevano di essere al sicuro. Non si recarono neppure in visita al monastero del castello e non impiegarono molto a farsi notare: approfittarono immediatamente dell’assenza del conte, costrinsero il figlio ad inginocchiarsi e pretesero gli alloggi più lussuosi del castello scacciandone gli abituali locatari poi li riarredarono aggiungendo quello che si erano portati appresso sulla lunga fila dei carri scortati dai soldati che li avevano accompagnati. Il giovane conte era sempre vissuto nell’abbondanza ma ora scoprì il lusso e se ne innamorò. Ori e argenti, pietre preziose, mobili intarsiati e dorati, oggetti ecclesiastici, candelabri e altro in argento massiccio. Avrebbero potuto comprarsi il castello ma non ne ebbero bisogno: si comprarono la fedeltà di Cyril. Volevano streghe e peccatori colpevoli di eresia e intolleranti al potere esterno, fosse della chiesa o dell’imperatore. In breve, instaurarono, con la sua complicità, un regime del terrore, un clima avvelenato di sospetto e denuncia. Le segrete del castello erano sempre piene e durante il giorno si udivano grida e lamenti uscire dalle inferriate aperte delle finestrelle. In quel clima si era verificato il fatto che avrebbe portato Nihal a diventare un cavaliere errante, un girovago, un difensore della giustizia o almeno dei più poveri e più deboli. Ma lui non lo sapeva ancora. Fuggiva dalla collera di Cyril e dalla certa persecuzione dei padri inquisitori. Andava alla ricerca del conte di Biro che era impegnato al nord del paese in una guerra senza fine tra opposti schieramenti, di volta in volta nemici o alleati in nome del re, del Papa, dell’imperatore, in verità in nome della garanzia per il loro potere e della loro ricchezza. Non avrebbe saputo dove altro andare: era certo che il conte, sapendo cosa stava succedendo nel suo feudo sarebbe ritornato portando l’ordine e la pace, come era sempre stato. Non poteva sapere che le cose erano talmente cambiate che se fosse ritornato quel potere lo avrebbe perso definitivamente, forse insieme alla vita. Per ora poteva bastare. Cavalcò e cavalcò per giorni e giorni verso il nord, attraversando territori desolati o villaggi che al suo arrivo si svuotavano di ogni abitante, senza trovare ospitalità o sostegno. Attraversava campi bruciati e terreni lasciati a sé stessi a disposizione di poche capre e pecore non accudite da nessuno, apparentemente almeno. Dovette arrangiarsi per sopravvivere. Non gli costava fatica: era un cacciatore esperto e molto bravo a tirare con l’arco. Quello cui non era abituato era la solitudine e la sensazione di essere evitato. Un fumo lontano oscurava il cielo e a partire da esso frotte di uccelli volavano allontanandosi, animali spaventati fuggivano andando involontariamente ad incrociare il suo cammino. Stava succedendo qualcosa e qualcosa di molto brutto. Fermandosi sulla vetta di una bassa altura decise di riposare e rimase a guardare lo spettacolo orribile sotto di sé: migliaia di uomini si affrontavano rumorosamente in un campo abbastanza pianeggiante, urlando e combattendo per la vita, spazzati da ondate di cavalleria che ne attraversavano i ranghi da una parte o dall’altra lasciando grandi vuoti ricoperti di cadaveri. Cavalli liberi, senza cavaliere correvano dietro gli altri sollevando nuvole di polvere che ricoprivano tutto. In lontananza un villaggio ai piedi di un maniero bruciava completamente, fiamme altissime e nuvole di fumo si levavano dalle fattorie e dalle capanne incendiate. Dove sarà finita la gente? Si domandò mentre si infilava la corazza d’acciaio con la stella azzurra attraversata da una freccia d’oro dipinta. Indossò anche le protezioni per le mani e le gambe. Non aveva elmo: lo aveva dimenticato: lo trovava ingombrante e pesante e non lo portava mai. Questa volta nella fretta lo aveva proprio dimenticato. La protezione era stata un dono del conte quando lui e Cyril avevano compiuto sedici anni. Loro erano come fratelli, erano cresciuti assieme, erano stati educati assieme, avevano avuto gli stessi maestri d’arme e avevano spesso combattuto l’uno contro l’altro per divertimento. Lui era un orfanello che il conte aveva accolto per essere il compagno di suo figlio, suo unico erede. Aveva cugini e forse altri fratellastri ma il conte non si sarebbe fidato di loro. Erano cresciuti e si erano sempre più differenziati nel carattere: tanto calmo e riflessivo lui quanto collerico ed impulsivo Cyril.

    I loro scontri spesso terminavano in parità ma più spesso vinceva Cyril. Avevano più o meno la stessa forza e le stesse capacità ma Cyril era più determinato e deciso a vincere, sempre e comunque: non aveva mai esitazioni. Il conte gli voleva bene come a un figlio ma aveva sempre messo in chiaro chi dei due fosse quello importante, il suo erede. Non sarebbe stato contento delle notizie che lui gli portava. Forse avrebbe dovuto temerne l’ira. Ci avrebbe pensato poi; in effetti il conte non era mai riuscito a farsi temere da lui. Quando si infuriava, Cyril reagiva violentemente rispondendogli in malo modo e le discussioni degeneravano in vere e proprie liti mentre lui si limitava a tacere, inchinarsi e togliersi il più velocemente possibile dalla vista in attesa che passasse la tempesta. Passava sempre. Poi veniva il momento delle discussioni pacate e allegre, dei ragionamenti, delle scuse se erano necessarie, solo da parte sua però: il conte non si sarebbe mai scusato con lui. Ora doveva decidersi, non gli piaceva l’idea di attraversare quel campo di battaglia: non avrebbe avuto importanza che fosse schierato da una o dall’altra parte o da nessuna com’era in effetti. Passare là in mezzo voleva dire combattere per la vita perché chiunque avrebbe attaccato e tentato di uccidere chiunque altro si fosse trovato di fronte. Non vedeva alternative; doveva sapere chi stava combattendo e se il conte fosse lì. Cercò con gli occhi di individuare gli abitanti del villaggio. Il castello non poteva ospitarli tutti, non era un grande maniero solo una fortificazione con mura di legno e anche quello stava in parte bruciando. Dovevano essere da qualche parte: non potevano essere tutti a combattere, non le donne e i bambini, i vecchi. Non potevano essere stati uccisi tutti. Il dilagare degli eserciti che si fronteggiavano senza avanzare o arretrare, o meglio avanzando e arretrando per riprendere ad avanzare senza che si intravvedesse una superiorità, un segnale di vittoria o di sconfitta lo fece pensare con orrore che forse sarebbe stato anche possibile. Aveva visto in azione la brutalità senza scrupoli degli inquisitori e dei loro sgherri infettare le guardie del conte che si macchiavano di azioni che solo poco tempo prima avrebbero combattuto come riprovevoli. I contadini non contavano nulla, ci sarebbero sempre stati contadini e avrebbero sempre avuto fame e figli. Quello che contava era il possesso della terra e il potere che ne derivava. Qualcuno lo chiamava onore, qualcun altro, gloria. Quanti stavano morendo per permettere a un nome di inserirsi su un pezzo di carta? Il panorama attorno all’altura si ripeteva monotono: alture prati altre alture, valli, prati e boschi o boschetti nei fondivalle. Un grande fiume scorreva dietro il maniero in fiamme una strada, la stessa che aveva seguito lui proseguiva passando fra le braci e i fuochi di quello che rimaneva del villaggio fino a raggiungerlo. Non si vedevano ponti ma pareva che oltre l’acqua regnasse la calma. Forse si sono rifugiati oltre il fiume pensò, speriamo. I contadini avevano certamente attraversato il fiume, era casa loro, lo conoscevano. L’ombra di un sorriso gli attraversò il viso senza però illuminargli gli occhi. Quando gli eserciti se ne fossero andati loro sarebbero tornati e avrebbero ricostruito la loro vita, misera, forse miserabile ma vita, fatta di fatica e soddisfazioni, lontano dalle guerre e dai massacri, al riparo dalla chiesa e dall’impero pagando le tasse e i tributi a chi li avrebbe richiesti o pretesi ma non sarebbero mai stati fedeli che a loro stessi. Decise di fare come loro e di raggiungere il fiume evitando la battagli se avesse potuto. Cavalcò al riparo delle alture tenendosi lontano dalla strada e aggirando il campo di battaglia nella speranza di non essere intercettato, accompagnato dalle folate di fumo, polvere e grida che sporadicamente lo raggiungevano portate dal vento. Teneva l’arco di traverso sulle gambe e la faretra piena legata alla sella, facile da raggiungere. Procedendo lentamente, guardingo, riuscì a raggiungere un boschetto non troppo intricato con alberi abbastanza grandi da contenere il proliferare del sottobosco di cespugli spinosi che gli permise di muoversi con un po' più di tranquillità. Si stava rilassando, ecco il suo problema con Cyril, lui non si rilassava mai. Una freccia scoccata dal nulla gli rimbalzò sulla corazza deviando il suo percorso senza ferirlo. Immediatamente reagì, d’istinto, senza pensare, si lasciò cadere a terra tenendo in mano l’arco trascinando con sé la faretra e rotolò al riparo di un tronco caduto su altri che formavano una barricata naturale. Fu fortunato, mentre rotolava altre due frecce gli furono scoccate contro e una gli perforò lo stivale dopo essere rimbalzata sullo schiniere. Si fermò a respirare, riprendendo fiato e controllo. Si guardò attorno, era in trappola. Non sapeva da dove fossero arrivate le frecce, credeva abbastanza da lontano, motivo per cui avevano perso forza ed efficacia ma da dove? Chiunque fosse davanti a lui poteva aggirarlo mentre se ne stava immobile ad aspettare e colpirlo alle spalle. Aguzzò gli occhi e le orecchie mettendo a fuoco i particolari cercando segni, rametti rotti erba calpestata, uccellini alle sue spalle: buon segno, significava che non erano disturbati quindi forse non c’era nessuno da quella parte o non ancora. Decise di muoversi e di spostarsi, doveva evitare l’aggiramento. Il cavallo era rimasto dove lui era caduto, immobile, aspettava come era addestrato a fare. Ci voleva altro per spaventare quell’animale, lo avrebbe avvertito se fosse giunto qualcuno da quella parte. Lentamente, strisciando e mantenendosi coperto, maledisse l’armatura per aver riflesso un raggio di sole che lo aveva colpito passando tra le foglie. Rimase immobile in ascolto. Forse nessuno aveva notato il lampo luminoso che rivelava la sua presenza. Raccolse da terra alcune manciate di fango e terra umida e strofinò la corazza imbrattandola e fece lo stesso con i bracciali e gli schinieri. Poi si rimise in movimento, lentamente, silenziosamente. Il tempo sembrò essersi arrestato, i secondi parevano minuti e i minuti ore ma passava e lui si era spostato di molto dal punto dev’era caduto. Adesso era appoggiato ad un tronco dalle enormi radici sporgenti che formavano un incavo accogliente e protettivo. Si stava riposando, non aveva fatto una grande fatica fisica ma l’adrenalina in circolo aveva risucchiato la sua energia e il suo corpo ora chiedeva riposo. Intorno a lui solo silenzio. Non si udiva neppure un uccello cantare o muoversi. Improvviso uno schiocco alla sua destra: un rametto spezzato. Si alzò in piedi con l’arco teso certo di avere un bersaglio. Non uno, tre e lo tenevano sotto mira con i loro archi piccoli da caccia, adatti a muoversi nel bosco senza intralciare, poco potenti ma certamente letali a breve distanza. Nessuno si mosse, si guardarono negli occhi in silenzio poi lui lasciò cadere l’arco e si sedette pesantemente a terra. Aveva avuto ragione, avrebbero tentato di aggirarlo e c’erano riusciti senza che lui riuscisse a individuarli. Non uno ma tre, evidentemente tre cacciatori esperti, non soldati. «Chi siete» chiese? Non gli risposero. Non si mossero. Lui slacciò lentamente la corazza liberandosi e lasciando il petto scoperto. Non aveva senso tenerla, era pesante, scomoda e faceva di lui un soldato: comunque un nemico. Allora anche loro abbassarono gli archi tranne uno che lo mantenne incoccato, pronto ad usarlo. «Tu chi sei?» Chiese a sua volta un omone robusto, con gambe e braccia come piccoli tronchi. Si faceva fatica ad immaginarlo camminare silenziosamente in quel bosco fitto e intricato. «Per chi combatti?» Non lo avevano ucciso. La meraviglia e lo stupore per questo sembrarono leggibili sul suo viso. «Per nessuno» disse: «non so neppure chi combatta in questo posto né perché e non so neppure ancora che posto sia questo». L’incredulità e il sospetto ora furono percettibili sui volti dei tre. L’uomo armato sollevò l’arco e lo tese. «Non prenderci in giro» disse, «sei un soldato e anche importante a giudicare dalla corazza e dal cavallo: per qualcuno combatti di certo.» «Vi giuro di no» risposi, «stavo cercando di evitare la battaglia e raggiungere il fiume per attraversarlo. Pensavo che il popolo fosse fuggito al di là del fiume per mettersi al riparo.» «Allora sei una spia insistette l’uomo con l’arco.» «No, vi ripeto che io non c’entro niente con la battaglia in corso: vengo dalla contea di Biro e stavo sfuggendo agli inquisitori che mi danno la caccia.» «Quei porci» esclamò l’omone. «Perché ti darebbero la caccia?» Chiese. «È una storia un po' lunga e complicata da dire comunque li ho offesi, li ho privati del piacere di godere della sofferenza di una povera ragazza che avevano condannato al rogo come strega per compiacere il figlio del conte. Non me lo perdoneranno. Ora sarò sulla loro lista dei peccatori a cui salvare l’anima.» Feci una pausa per osservare l’effetto delle mie parole. «Semplicemente sto fuggendo» ammisi ancora come se per la prima volta me ne fossi reso conto. «Credevo di voler cercare il conte di Biro per dirgli cosa stava succedendo nel suo feudo ma non è così, o meglio è anche questo… ma in realtà sto solo fuggendo.» L’uomo con l’arco lo aveva abbassato guardandomi. Non avrebbe dovuto fidarsi, avevo una spada e la sapevo usare, di certo meglio di loro se ne avessi avuta la possibilità. Si stavano distraendo, rilassando come avevo fatto io: l’errore più comune in chi è convinto di avere la vittoria in mano: sottovalutare l’avversario. Ma non avevo tenuto conto del terzo uomo, piccolo rispetto agli altri e decisamente più anziano, con la pelle del viso rugosa e scurita di chi ha lavorato duramente e a lungo nei campi, sotto il sole. Lui non si era distratto, non mi aveva tolto gli occhi di dosso per un attimo studiandomi. «Loro sono uomini di chiesa» disse parlando degli inquisitori. Lo guardai stupefatto. «Almeno lo sono molti di loro. Credono in quello che fanno.» «Non quelli che ho conosciuto io» risposi di malagrazia. «Quelli sono criminali, ha ragione il tuo amico, sono porci che si rotolano nell’oro e considerano gli uomini meno che animali, utili solo al loro piacere e il loro piacere è la sofferenza che infliggono a chi non può difendersi.» Non mi ero reso conto del mio accanimento e neppure della determinazione delle convinzioni che avevo espresso. Non ci avevo mai pensato a quel modo ma forse invece sì, forse lo avevo fatto. L’omone parve rilassarsi e sorrise apertamente. «Hai ragione, lo dicevo io, porci.» L’uomo più anziano lo guardò e lui abbassò gli occhi. «Va bene, non tutti forse ma molti di loro» mormorò. «Non sono loro o sono molto pochi di loro,» intervenne nuovamente l’anziano, «sono quelli che glielo permettono, che li compiacciono e ne condividono la perversione, come il tuo amico.» fece una pausa carica di significato poi a bruciapelo «cosa intendi fare? Vuoi combattere? Per la tua libertà o la tua morte?» A lui non erano sfuggiti la mia spada e il pericolo che rappresentavo. «No,» risposi guardandolo e questa volta davvero bene: fissando il mio sguardo nel suo, uno sguardo gelido e azzurro negli occhi slavati che non parevano mettersi a fuoco su nulla, come se ti guardassero attraverso. «Non voglio combattere, avrei voluto farlo per evitare l’orrore che è toccato a quella povera ragazza, una ‘ strega’ innocente, incapace di far del male, per ottenere il suo perdono, per moderare il mio rimorso ma non voglio più combattere per nessuno, per ordine di nessuno.» Armato, forte, un soldato, forse risultavo poco credibile mi resi conto ma ero davvero deciso. «Se dovrò morire sarà perché non ho potuto evitarlo ma sarà facendo ciò che io e nessun altro, avrò deciso di fare.» Forse era la coscienza che stavo proprio per morire, in questo modo assurdo, senza sapere perché ne dove, ad opera di sconosciuti che non sapevano neppure loro perché dovessi morire, a farmi parlare e stranamente a pensare con calma: cose che mi ero sempre rifiutato di fare. Una morte inutile ma almeno potevo conoscere meglio me stesso prima. Non molto ma meglio di niente, pensai: se quella prima freccia mi avesse ucciso non avrei fatto nemmeno quello. Sorrisi. «Cosa ti fa sorridere?» Chiese il piccolo uomo segaligno che sembrava essere il capo del gruppo. Glielo dissi. Sorrise anche lui poi scoppiò a ridere e la sua risata fu contagiosa; anche gli altri iniziarono a ridere e alla fine neppure io potei sottrarmi. Scoppiai a ridere. Era una situazione davvero buffa se non tragica. «A cosa serve un uomo morto» chiese ancora il capo smettendo, improvvisamente come aveva iniziato. «Cosa può fare di buono nella vita chiunque muoia senza motivo?» Fece un gesto ai suoi. «Rivestiti» mi disse, «andiamo e tu vieni con noi.» Stavo per raccogliere la mia corazza ma l’omone si intromise e la raccolse lui. «È bella» disse, «sicuramente mi farebbe comodo averla.» La corazza era fatta in due pezzi di lamiera sbalzata d’acciaio legati con cinghie di cuoio alle spalle e sui lati del torace. Le cinghie permettevano di adattarla facilmente ad ogni corporatura e le piastre si adattavano facilmente alla maggior parte dei fisici dei soldati. Non c’era spreco nelle armi e nelle corazze. Non venivano mai abbandonate sui campi di battaglia, erano troppo preziose, molto più preziose degli uomini che le indossavano. Ma lui era decisamente troppo grosso. L’infilò dalla testa ma le sue spalle erano talmente larghe e il torace possente che le cinghie laterali non arrivavano a legarsi e le piastre gli sporgevano in modo ridicolo, sul ventre e sulla schiena, facendolo sembrare un cuneo. Ancora una volta scoppiammo a ridere. Si tolse l’armatura ma io non volli indossarla per ora, non mi sarebbe servita e mi avrebbe solo impacciato. Passammo a fianco del cavallo che mi attendeva, obbediente al suo addestramento; nitrì felice di vedermi. Gli feci una carezza e lui sbuffò soddisfatto. «Non avvicinarti senza di me» gli dissi ma non potei evitare che l’uomo lo facesse, trovandosi gli zoccoli del cavallo impennato sopra la testa, pronto a spaccargliela. Solo la mia presenza e il mio ordine lo fermarono. Riabbassò le zampe e si allontanò continuando a guardarlo. «Gran bella bestia» disse l’omone mentre dopo aver tranquillizzato il cavallo lo aiutavo a rimettere le corazze nel fagotto dietro la sella «mi ha davvero spaventato.» «Ti avrebbe ucciso» risposi. «È un cavallo da guerra, combatte per me. Per lui potrei morire» risposi io «e lo farebbe anche lui per me.» Un’altra risata scosse tutti quanti. Ma cosa avevo detto di così divertente? Pensai, pur senza trattenermi dal ridere. La semplice idea che un cavallo potesse decidere di morire per il suo cavaliere e soprattutto viceversa. Era liberatorio compresi. Per tutti. «Ma come si chiama?» Chiese l’uomo che portava ancora l’arco in mano: non l’aveva mai abbandonato, attento e guardingo, sospettoso. «Lui si chiama Tempest, perché quando si muove e corre e combatte, lo fa come una tempesta inarrestabile» risposi, «e io mi chiamo Nihal.» Non chiesi come si chiamassero loro. Ero ancora un prigioniero dopotutto, erano amichevoli ma non amici e la fiducia era condizionata. Mi guardarono e non risposero. L’uomo con l’arco si chinò e fluidamente sollevò l’arco portando la mano che teneva la freccia incoccata alla tempia. Scoccò e un fruscio di ali sbattute e un grido di morte si sollevarono da un cespuglio agitato. L’uomo si fermò a raccogliere un gallo cedrone, un magnifico animale che se ne era stato orgogliosamente assestato sulla biforcazione dei rami di un grosso albero. Lui l’aveva visto e aveva fatto quello per cui erano usciti: aveva cacciato. Orgoglioso sollevò la preda mostrandola agli altri. Io non avevo visto niente fino alla fine. Procedemmo per il bosco, l’omone davanti a tutti. Ancora una volta mi domandai come facesse a muoversi così agilmente e silenziosamente. Il capo seguiva e dietro venivo io col cavallo condotto a mano. Per ultimo veniva l’uomo con l’arco. Mi guardavo intorno senza scorgere altro che una intricata coltre di cespugli che arrivavano alla vita, pieni di spine legnose e graffianti che spuntavano da ciuffi d’erba altissima e dura, sporgenti tra le rocce affioranti e gli alberi. Man mano che avanzavamo salendo un pendio, il bosco si diradava lasciando spazio a radure erbose con alberi più piccoli, le foglie aghiformi, come piccoli pini giallastri che prendevano il posto del bosco sostituendolo e contendendosi gli spazi assolati con grandi noccioli che protendevano i rami ricoprendo, come una sequenza di tettoie poco più alte di un uomo, spazi ombrosi e puliti, quasi privi di erba. Su un lato della radura che ora si allargava in un pascolo d’erba bassa salendo verso la vetta rocciosa e appuntita della collina, le rocce calcaree bianche, enormi lastroni, ammassate e accatastate le une sulle altre casualmente, creavano un suggestivo intrico di buchi, varchi, cunicoli, grotte, ripari, alcuni piccoli e appena accennati, altri decisamente grandi e profondi. Un paesaggio strano: sembrava che sul tappeto verde della collina fossero stati rovesciati alla rinfusa i pezzi di quel gioco, comune ai grandi e ai bambini che consisteva di cubi e poliedri di legno di varie forme e dimensioni che si dovevano sovrapporre, costruendo oppure smontando costruzioni, pezzo per pezzo, senza farle cadere. Vinceva chi costruiva più in alto e usando più pezzi, perdeva chi le faceva cadere. Ecco: il posto sembrava l’accumulo dei pezzi di quel gioco solo che erano bianchi o grigiastri ed enormi e il tavolo da gioco erano il pendio e la vetta della collina. Sulla cima e tutto intorno alla radura, il bosco riprendeva il sopravvento nascondendola alla vista. Era piuttosto lontano dal villaggio, circa tre giorni di cammino ma era un posto conosciuto e frequentato, ambito dai pastori perché comodo, ricco e dotato di ombra dal sole e di ripari per la pioggia o per la notte, in quegli anfratti. Affiorando e scomparendo tra le rocce un piccolo rio scorreva a singhiozzo lungo il pendio, tracciando un percorso appena visibile nell’erba, largo pochi centimetri e altrettanto profondo, tra pozze rotonde che alimentava per il piacere degli animali assetati e anche degli uomini che frequentavano il posto. La chiamavano la collina delle ossa perché le rocce accatastate sembravano ossa che la leggenda diceva risalire a un gigantesco drago vissuto e poi morto in quel luogo, nel tempo in cui i draghi esistevano e popolavano il mondo dominandolo e gli uomini vivevano nelle caverne, nel corpo di quelli morti che formavano appunto le colline di ossa calcaree. Al nostro arrivo la gente che si era nascosta ricomparve uscendo dagli anfratti, dal bosco, spuntando dall’erba, ovunque. C’erano almeno duecento persone in quella radura e si erano nascoste alla vista appena le sentinelle appostate fra gli alberi avevano individuato il movimento e l’arrivo di esseri umani. Gli uomini che mi accompagnavano furono riconosciuti e salutati mentre venivamo circondati soprattutto da bambini curiosi. L’uomo con l’arco consegnò la sua preda ad un bambino che la sollevò e corse gridando verso un gruppo di donne che sorvegliava un piccolo fuoco poco fumoso acceso in un anfratto. Lei lo accolse con una carezza, scompigliandogli i capelli e sollevò il gallo in un gesto di saluto e ringraziamento diretto al nostro gruppo. Portai il cavallo all’ombra di un nocciolo e raccomandai ai bambini di tenersene alla

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