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L'ultima esecuzione: Villarbasse 1945
L'ultima esecuzione: Villarbasse 1945
L'ultima esecuzione: Villarbasse 1945
E-book154 pagine2 ore

L'ultima esecuzione: Villarbasse 1945

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Info su questo ebook

1945. Tre giovani siciliani, sbandati e ribelli, risalgono un’Italia disastrata dalla guerra appena terminata.
Vivono di piccoli espedienti e furti. Approdano in Piemonte. Commettono un omicidio idiota. Finiscono nelle carceri di Torino.
Non lontano dal capoluogo piemontese, in un cascinale di Villarbasse, vivono gli Odasso.
Si tratta di una famiglia contadina a struttura patriarcale, composta da un vecchio padre, l’anziana moglie e tre figli dei quali uno, chiamato “Smangia” poco sano di mente, è nato dalla relazione con un’amante occasionale ed è stato imposto alla famiglia.
Le tensioni si scatenano quando, nel cascinale, fanno il loro ingresso Angela e la figlia Annette, una sedicenne troppo carina per non suscitare le attenzioni dei maschi di famiglia. Attenzioni e corteggiamenti che sfociano nella violenza e nel suo omicidio.
Chi ha ucciso la giovane Annette?
Situazioni e prove portano a incolpare “Smangia”. È questa la verità che scopre Angela?
E quale vendetta scaturisce dall’incontro in galera fra “Smangia” e i tre balordi arrivati dal sud?
Uno spaccato “giallo” della vita contadina di un periodo storico particolare, in cui, ciascuno, per sopravvivere, era pronto a “fregare” l’altro.
Il fatto porta all’esecuzione dell’ultima pena capitale avvenuta in Italia il 4 marzo 1947 alle 7,45.
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2013
ISBN9788875638856
L'ultima esecuzione: Villarbasse 1945

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    Anteprima del libro

    L'ultima esecuzione - Roberto Gandus

    Preambolo

    Il romanzo L’ultima esecuzione prende spunto, ed è liberamente tratto, dal tragico eccidio avvenuto nella cascina Simonetto di Villarbasse il 20 novembre 1945.

    La cascina era abitata dall’avvocato Massimo Gianoli, i morti furono dieci, responsabili Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D’Ignoti e Pietro Lala (alias Francesco saporito).

    I personaggi e la trama sono opera di assoluta fantasia e non hanno nulla a che fare con quanto avvenuto nella realtà. Unico dato reale è la pena capitale scaturita dalla tragica vicenda: l’ultima esecuzione avvenuta in Italia alle ore 7,45 del 4 marzo 1947.

    Un lampo illuminò il verde della valle. Il rumore di un’auto si allontanava lungo la strada che collegava la statale al cascinale costruito sulla mammella collinosa.

    Un bastardino nero attraversò l’aia del cascinale sotto la pioggia battente.

    Annusò il cadavere di un uomo steso in terra a faccia in giù.

    Un secondo cadavere era abbandonato sul muro circolare del pozzo in pietra, un filo si sangue rigava la poltiglia di fango.

    Il cane entrò nella casa deserta. Annusò i piedi della donna che giaceva riversa nella cenere del camino. Salì la scala. Entrò nella stanza. Guaì ai piedi del letto, un vecchio, giaceva morto, fra lenzuola zuppe di sangue.

    Raspò il materasso giallastro. Alcune piume d’oca volarono nell’aria.

    Attorno, una sedia rovesciata, i cassetti aperti, poveri oggetti sparsi in terra.

    Il gallo batté le ali. Spalancò il becco. Emise un verso acuto e stridente.

    Il buio della notte cedeva il campo al chiarore dell’alba.

    Domenico, un giovane di circa venti anni, bello quanto basta, era seduto all’aperto su di una sedia di legno, il cielo sopra di lui era basso e pesante, alle sue spalle un alto muro grigio.

    Guardava fisso davanti a sé.

    Sul viso, l’espressione serena, sorridente, ma vuota, come priva di emozioni.

    Sembrava un Rodin pensoso senza pensiero.

    Avrebbe voluto grattarsi i capelli come sempre. In tale occasione gli era impedito.

    ***

    Per l’abitudine di grattarmi in continuazione, mi chiamano Smangia: tradotto dal dialetto del luogo, il piemontese, vuole dire prude.

    In realtà, a casa, anziché Smangia il più delle volte mi dicevano: ehi! Scemo! ma io non me la prendo mica, mi piace che qualcuno mi chiami, vuole dire che servo, che ci sono, io non so mai se ci sono, no, non è vero, quando sto con il mio cane in braccio mi sento le gambe, lui è caldo e ci ha il pelo.

    Mi cercano per farmi lavorare, io sono più forte del mulo. Sì! Dicono che sono proprio forte, posso alzare anche il masso che c’è giù nel prato, quello grosso, ma grosso come un vitello. Mio padre dice sempre che quello che non ho nel cervello, ce l’ho nei muscoli. Una volta mi hanno anche detto che sono bello, ma non so mica cosa vuole dire.

    Adesso, qua seduto, non mi serve. Il cortile è grande, più grande dell’aia di Ca’ Odasso, dove vivo.

    ***

    Toni, trentuno anni compiuti il giorno precedente, stampata sul viso la solita espressione da figlio di puttana.

    Si svegliò nel letto di un’anonima pensione.

    Si stirò. Vide il soffitto scrostato, la tappezzeria a righe di un colore indefinito. Spalancò soddisfatto braccia e gambe.

    Udì il cigolio del letto di ferro battuto e lo scroscio dell’acqua.

    Guardò la donna nuda che, china sul lavandino, si lavava le ascelle.

    I fianchi larghi, il seno florido, erano messi in luce dal raggio di sole che filtrava tra le tende sgualcite.

    La donna avvertì lo sguardo, si voltò. Sorrise con dolcezza.

    Frugò fra i vestiti buttati su una sedia.

    Dove diavolo le ho messe?.

    Toni tirò fuori, da sotto le lenzuola, un paio di mutandine bianche.

    Le fece dondolare nell’aria.

    È queste che cerchi?.

    Lei allungò la mano per prenderle, ma l’uomo tornò a nasconderle.

    La prese per un polso e la tirò a sé.

    Dai, torna a letto.

    Sei matto? Devo scendere a preparare le colazioni.

    Toni la rovesciò sulle lenzuola. Cercò di baciarla.

    Lei si scostò e si sfilò via.

    Ma non ne hai abbastanza?.

    Facciamo in fretta.

    Ma va’ là!.

    La donna rovistò fra le coperte, agguantò le mutandine, le infilò di corsa, così fece con la gonna e con la maglia che le schiacciò il seno pesante.

    Uscì prima che l’uomo riuscisse ancora una volta ad agguantarla.

    Toni la sentì cantare: "Sola me ne vo per la città... passo fra la folla che non sa... che non vede il mio dolore, cercando te... sognando te...".

    A lui, quella canzone non piaceva, come non gli piacevano le canzoni in genere, non avrebbe saputo dire il motivo. A lui interessavano i soldi e le donne, il resto, tutto il resto, compresi i sentimenti, non serviva, era un intralcio, rallentava il gioco del vivere.

    Si alzò a fatica. Una sciacquata al viso. Si guardò allo specchio.

    Era orgoglioso, lui, le donne, giovani o vecchie che fossero, le aveva sempre fatte godere. Gli piaceva sentirle gridare. E quest’ultima dovevano averla sentita fino al piano di sopra.

    Uscì a torso nudo nello stretto corridoio della pensione.

    In mano un liso maglione dal collo alto.

    Bussò a una porta su cui penzolava un sei di metallo arrugginito.

    Menico! Enea! Allora?.

    Silenzio. Toni chiamò il primo nome con maggior forza.

    Dall’interno della stanza una voce impastata di sonno rispose:

    Cazzo, ma è presto!.

    Una seconda voce ripeté con identica fatica la stessa frase.

    Toni picchiò il legno della porta come volesse sfondarlo.

    Dall’interno il rumore di passi strascicati.

    La porta si socchiuse. Comparve un giovane assonnato,

    L’espressione nervosa, i capelli ricci, neri. Fissò Toni con occhi pieni di sonno, ma non di straordinaria intelligenza.

    Ma che minchia di fretta abbiamo!.

    Dietro di lui Enea, poco più che un ragazzo, prese il compagno per un braccio, cercò di tirarlo indietro:

    Dai Menico vestiamoci no?.

    Toni spalancò la porta. Venne avanti nella stanza impregnata di sudore, calpestò alcuni indumenti sparsi in terra. Con voce tagliente disse che avevano fretta, fretta di tirare su del grano...

    Agguantò una canottiera, la gettò in faccia al giovane.

    Muoviti! Dobbiamo andarcene.

    Menico strinse con rabbia l’indumento. Contrasse la mandibola. Provò a dire di non alzare la voce con lui.

    Era evidente che Toni era il più forte del gruppo. Si erano conosciuti pochi mesi prima in una strada della periferia di Palermo.

    Si erano fermati a bere una granita al limone dal solito baracchino dell’angolo. Menico non aveva i soldi per pagare. Toni aveva minacciato il venditore. Lo aveva preso per il bavero. Così se ne erano andati senza pagare. Da quel momento erano rimasti insieme per fregarsene della miseria, delle distruzioni provocate dalla guerra appena finita.

    Menico ed Enea si vestirono. Il primo dei due cercò nella lentezza l’unico segno di ribellione. Enea, al contrario, s’infilò veloce i pantaloni. Per calmare le acque farfugliò a quello, che era il capo riconosciuto, di scendere, loro due l’avrebbero raggiunto in pochi minuti.

    Toni se ne andò senza richiudere la porta. Rientrò nella sua stanza. S’infilò il maglione dal collo alto. Si guardò attorno. Non aveva nulla da prendere tranne il giubbotto. Fatto che rappresentava la sua vita. Non avere niente da portare con sé, né valori, né affetti era il suo credo o per lo meno aveva fatto in modo che lo fosse. Scese i gradini a due a due. Giunse al piano terra. Nessuno.

    La cassa era collocata a sinistra dello stretto ingresso della pensione.

    Attese qualche istante. Scorse il foglio del registro.

    Si sporse a guardare la saletta retrostante. Vide la donna, che aveva trascorso la notte con lui, servire il caffelatte a un unico cliente.

    Premette il pulsante del campanello d’ottone sistemato al fianco della cassa nera e mastodontica. Pensò a quanti soldi poteva contenere. La donna arrivò di corsa. Strappò un foglio appena compilato. Glielo porse:

    Non ho calcolato la colazione....

    Toni con un sorriso fascinoso prese il conto, lo appallottolò e lo fece volare nel cestino della carta straccia:

    Amore ti ho già pagato stanotte no?.

    Si sporse a baciare la bocca della donna, prima che questa potesse parlare, con la mano le strizzò il seno.

    Meglio della grana no?.

    Menico ed Enea scesero le scale in quell’istante.

    I tre uscirono nella luce fredda del mattino. Toni si rivolse alla padrona della pensione che lo aveva seguito non per i soldi ma forse per rimanere ancora qualche istante al suo fianco:

    Alla prossima!.

    Salì alla guida della Dkw nera parcheggiata di traverso sul marciapiede. Diede una gomitata a Menico che a spallate contendeva a Enea il posto sul sidecar: Ma piantatela con ’sta storia.

    Enea guadagnò l’ambito sedile. Strinse i pugni in segno di vittoria e rise. Menico fu costretto a sedersi sul sellino posteriore.

    Un calcio alla leva dell’avviamento e il motociclo si avviò lasciando una scia di fumo blu nell’aria.

    Toni sollevò la mano, per un ultimo saluto. Menico si sporse.

    Come si chiama quella?.

    E che ne so.

    La padrona della pensione, sistemò lo chignon con un tocco sapiente.

    Rientrò di malavoglia.

    Raggiunse quello che per lei era il ponte di comando: la cassa.

    Si girò verso lo specchio. Con il medio si tolse il baffo di rossetto.

    Una sistemata al reggipetto per chinarsi distratta a sfogliare il registro.

    Nel mattatoio faceva sempre freddo, estate o inverno che fosse, si respirava un’aria gelida che faceva rabbrividire. Tranne il sangue, ogni cosa lì era in bianco e nero.

    Smangia lavava il pavimento di cemento e, a intervalli regolari, si grattava.

    L’aveva accompagnato in quel luogo, circa un anno prima, Giuseppe, il fratello, vecchio conoscente di Nino il gestore. L’aveva consegnato come fosse un pacco, un oggetto. Non aveva patteggiato uno stipendio o una qualsiasi formula di pagamento, l’unica richiesta era stata che Smangia rimanesse lì tutto il giorno. A fare che cosa non aveva alcun interesse.

    Importante che durante la giornata fosse impegnato e non ciondolasse nell’aia del casale.

    Ben presto Smangia si era reso indispensabile non solo per la forza dei suoi muscoli, ma per il suo essere remissivo e ubbidiente.

    Oreste, il macellaio, era comparso nel controluce dell’ingresso. Tentava di trascinare all’interno del mattatoio un vitello che non voleva saperne di entrare.

    Nino, il gestore del mattatoio, chiamò il garzone con il solito tono di comando:

    Smangia... vieni a dare una mano, sì o no?!.

    Il giovane chiuse l’acqua. Sollevò il capo. Tornò a grattarsi. L’ultimo filo di sangue scivolò via. Raggiunse, con la camminata ciondolante che lo distingueva, il macellaio in difficoltà. Agguantò la corda. Uno strattone. Come niente fosse, trascinò dentro il vitello.

    Il macellaio, rosso in faccia, ammirò come sempre la potenza del gesto: Dio fa’, a l’ha ’na fòrsa, ’sto qua.

    Mano in tasca, si affrettò a proporre quello che evidentemente era un gioco consueto fra lui e il gestore del mattatoio:

    Scommetti che non ce la fa’, stavolta non ce la può fare… Questa è ’na bestia che levati.

    Nino, con il solito gesto, stirò sul ventre il grembiule. Non arrivava ad abbottonarlo, ma si ostinò fino a riuscire ad agganciare il bottone all’asola oramai slabbrata. Si umettò il pollice e l’indice. Si arrotolò, soddisfatto, i baffi all’insù. Scosse sicuro le spalle.

    Lo sai che te la prendi sempre nel culo.

    Oreste non si

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