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Cospirazione Vaticano
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E-book396 pagine5 ore

Cospirazione Vaticano

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Info su questo ebook

«Azione frenetica. C’è tensione fino alla fine. Una lettura indimenticabile.»

Un grande thriller

Quando si è congedato dall’esercito, Marco Venetti era convinto di essersi lasciato alle spalle una volta per tutte violenza e morte. 
Ma non aveva fatto i conti con la splendida donna che sarebbe arrivata, implorante, a bussare alla sua porta. Elena, questo è il suo nome, è vittima di un terribile ricatto: sua figlia è stata rapita e rischia di venire uccisa, se lei non aiuterà un gruppo di terroristi a entrare nel Paese. Determinato a salvare la ragazza, Marco si mette sulle tracce dei rapitori. Ma gli indizi gli rivelano il vero obiettivo dei malviventi: un mortale attacco alla Città del Vaticano. Se vuole evitare un terribile bagno di sangue nel cuore di Roma, Marco deve agire in fretta. Perché i terroristi sono ben più pericolosi di quanto avrebbe mai potuto immaginare e un ordigno nucleare sembra essere misteriosamente scomparso in circostanze tutte da chiarire… L’unica persona di cui Marco può fidarsi è sé stesso. Perché il Vaticano è un luogo in cui i segreti si annidano dietro ogni angolo e il traditore potrebbe essere ovunque. Riuscirà a trovarlo prima che sia troppo tardi?

Bestseller in Inghilterra 
Tra Dan Brown e Tom Clancy 

Un thriller ad alto tasso di adrenalina 

All’ombra di San Pietro viene ordita un’oscura cospirazione…

«Colpi di scena su colpi di scena: l’autore trascina il lettore in una corsa adrenalinica verso il finale mozzafiato.» 

«Mi ha ricordato il miglior Dan Brown, ho adorato questo libro.» 

«Una lettura che dà soddisfazione.»
Peter Hogenkamp
È un medico e vive a Rutland, in Vermont. Autore di thriller, è stato finalista al prestigioso Killer Nashville Claymore Award 2019 e al Vermont Writer’s Prize 2020.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2021
ISBN9788822752772
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    Anteprima del libro

    Cospirazione Vaticano - Peter Hogenkamp

    2888

    Titolo originale: The Vatican Conspiracy

    Copyright © Peter Hogenkamp

    First published in Great Britain in 2020

    by Storyfire Ltd trading as Bookouture.

    Traduzione dalla lingua inglese di Marta Lanfranco

    Prima edizione ebook: giugno 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5277-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    Peter Hogenkamp

    Cospirazione Vaticano

    Newton Compton editori

    Solo il sangue muove le ruote della storia.

    benito mussolini

    Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza.

    papa francesco

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Una lettera di Peter

    Ringraziamenti

    Capitolo 1

    Padre Marco Venetti si asciugò il sudore dalla barba e si fece un po’ d’aria, agitando l’invito annullato alla messa papale in piazza San Pietro. Si soffocava all’interno del confessionale e quella settimana i fedeli non erano in vena di fare penitenza, così non aveva altro a cui pensare che al caldo spaventoso e al mancato viaggio a Città del Vaticano. Non che gli dispiacesse un po’ di tregua dalla solita lista di peccati – ho pronunciato il Suo nome invano, la settimana scorsa ho saltato la messa senza una valida scusa –, ma quel pomeriggio faceva particolarmente caldo e la brezza, di solito presente, si era presa prematuramente una pausa di mezza estate.

    Udì uno scalpiccio di piedi provenire dall’esterno e si accomodò sulla sedia. La porta del confessionale si aprì e, quando dietro il paravento la penitente si preparò alla confessione, l’inginocchiatoio scricchiolò. Dal gemito dell’antico cipresso immaginò che si trattasse di una donna di circa centotrenta chili. «Benedicimi, padre…».

    La sua voce era sensuale e familiare, lui la sentiva ancora riecheggiare nel suo cranio a notte fonda, quando il mare era calmo e le onde lambivano la riva sotto la canonica.

    «…perché ho peccato. È passato un anno dalla mia ultima confessione».

    Per un attimo stentò a credere che si trattasse davvero di lei, ma il suo profumo era inconfondibile, una miscela inebriante di lavanda e Sciacchetrà, il vino del posto ricavato da vigneti invecchiati.

    «Apprestati alla confessione con il Signore nel cuore».

    «Ho commesso un terribile errore, Marco… non volevo. Devi credermi».

    Riusciva soltanto a intravedere il profilo del suo volto attraverso lo scudo opaco che li separava, ma la sua memoria era in grado di colmare le lacune con scuri riccioli fluenti e carnose labbra rosa, proprio come quando, quattro anni prima, se n’era andata da Monterosso al Mare per non farvi più ritorno.

    «Ho provato a vivere con il ricavato della pesca, ma i giapponesi rubano tutto il tonno».

    Riusciva a immaginare le sue mani morbide e l’espressione di supplica nei suoi occhi marroni.

    «Dovevo sostentare la mia famiglia. Lo capisci, vero?»

    «Cos’è capitato, Elena?».

    Il suo respiro si fece più affannoso, l’inginocchiatoio raschiò contro il pavimento di legno deformato e lei si spostò da dietro il paravento per venire a sedersi sulla sedia a meno di un metro da lui. Ora non c’era niente a separarli, a parte l’aria calda e i sacri voti. Malgrado la luce fioca e poco lusinghiera del confessionale, i suoi capelli neri non avevano perso la loro proverbiale lucentezza e i suoi occhi brillavano come sempre.

    «Ti ricordi quell’uomo di cui ti ho parlato?»

    «Antonio?»

    «Sì, lui».

    Antonio era un membro della ‘ndrangheta, l’organizzazione criminale calabrese che aveva esteso il suo raggio d’azione in tutta la Liguria e il nord Italia. Marco aveva fatto del suo meglio per tenere Elena lontana da lui; il mafioso si era dimostrato troppo interessato a lei, più alla sua figura slanciata che alla sua barca, o almeno così gli era sembrato. Aveva invidiato Antonio e qualsiasi altro uomo privo di colletto a cui era consentito fissare la sua carnagione olivastra, scurita in modo perfetto dal sole del Mediterraneo.

    «Pensavo di averti detto di stargli alla larga».

    «Sì, ma non ti ho dato ascolto. Credevo fossi geloso».

    «Lo ero». La brezza si alzò, portando con sé l’odore dell’aria salmastra e dell’incenso. «Un amore non corrisposto non genera gelosia?»

    «Il tuo amore non era non corrisposto. Ti ho amato tanto quanto tu hai amato me, forse di più».

    Lui spostò lo sguardo dagli zigomi alti alla forte linea della mascella e poi oltre, alla scollatura profonda della sua camicetta nera.

    «Allora perché te ne sei andata?»

    «Perché avresti sempre amato Dio più di quanto amassi me e mi ero stancata di condividerti con Lui».

    Ci fu un battito d’ali; il piccione che aveva nidificato sotto la grondaia della chiesa era tornato al suo nido, scatenando un coro di cinguettii dei suoi piccoli.

    «Pensavo che le cose sarebbero cambiate, che avessi bisogno di più tempo per vedere quanto potessimo essere felici insieme. Ma le settimane sono diventate mesi e i mesi sono diventati anni e tu hai scelto Dio invece di me».

    «Cosa avrei dovuto fare?».

    Il cinguettio dei piccoli divenne sempre più forte, riempiendo il confessionale con un gorgheggio stridulo.

    «Dovevi lasciare il sacerdozio. Scegliere me invece di Dio».

    «Non potevo, Elena».

    «No, dannazione, non potevi».

    Si sporse in avanti e la scollatura della sua camicetta si fece più profonda.

    «Ed è per questo che ogni notte dormi ancora da solo. Mi hai sempre detto che detestavi le lunghe notti solitarie».

    Lei fece scivolare la sedia in avanti e il suo piede sfiorò quello di lui. L’odore di lavanda s’intensificò e una stretta familiare gli attanagliò il petto.

    «Sono una donna vendicativa. Dovevo andarmene prima che il mio risentimento potesse trasformarsi in amarezza e odio».

    «Risentimento per chi? Per me o per Dio?»

    «Per entrambi».

    Il piccione volò via e il cinguettio si placò. Tutto ciò che Marco poteva sentire era il ritmo veloce del respiro di Elena e il tamburellare impazzito del suo stesso cuore.

    «Antonio è venuto a trovarmi qualche settimana fa per chiedermi se volevo farmi carico di alcuni rifugiati. Mi ha detto che cercavano lavoro. Io non volevo, Marco, ma o accettavo o avrei perso la mia barca».

    Lei fece una pausa, aspettando che lui dicesse qualcosa, ma rimase in silenzio.

    «Li ho incontrati di notte, nel Mar Ligure, a nord della Corsica. Erano in sedici e ho capito subito che non erano dei rifugiati. Ho cercato di tirarmi fuori, ma lui mi ha minacciato».

    «Chi ti ha minacciato? Antonio?»

    «No, uno degli uomini che ho raccolto. Si chiama Mohammed. Mi ha detto che avrebbe ucciso Francesca e Gianna, se non avessi fatto come dicevano loro».

    Gianna era la figlia di Elena, una ragazza allampanata con la stessa carnagione scura della madre. Francesca era la sorella minore di Elena.

    «Come faceva a conoscere i loro nomi?»

    «Due di loro sono arrivati prima. Mi seguivano da giorni. Ho trovato Gianna e Francesca nel posto dove dovevo farli sbarcare… Gianna era legata e imbavagliata e Francesca era stata picchiata».

    Elena smise di parlare per un secondo, singhiozzando sommessamente tra le mani. Marco provò l’urgente impulso di cingerla tra le sue braccia.

    «Quand’è successo?»

    «Una settimana fa. Devo caricare gli altri stasera».

    «Va’ subito alla polizia».

    «Non posso. Hanno mia figlia e mia sorella. Due di loro sono rimasti a casa mia per una settimana. Mohammed mi ha detto che avrebbe ucciso me e la mia famiglia, se lo avessi detto a qualcuno».

    «Va’ subito alla polizia, Elena».

    Non ci fu risposta, solo lo scricchiolio della sedia.

    «Mi stanno seguendo. Le uccideranno prima che io raggiunga la stazione di polizia».

    «Ascoltami. Voglio perdonarti. Ti perdonerò. So che sei dispiaciuta, ma quelli sono uomini pericolosi».

    «Lo so bene. Hanno tagliato Francesca con un coltello per spaventarmi».

    Marco la vide tremare e fu pervaso dalla vergogna. Elena era venuta da lui per l’assoluzione, non per l’inquisizione. Ma c’erano delle vite in gioco ed era suo dovere convincerla a chiedere aiuto.

    «Devi andare alla polizia».

    «Perdonami, Marco».

    Le onde s’infransero contro le fondazioni rocciose della chiesa e delle risate in lontananza penetrarono dalle finestre aperte.

    «Ti perdonerò, ma devi rivolgerti alla polizia».

    «Uccideranno mia figlia. Gianna è innocente».

    «Elena…».

    «Non lo farò, Marco».

    Il suo tono fermo e convinto gli ricordò la sua forza interiore, la volontà feroce che aveva imbrigliato per crescere una figlia da sola, per diventare capitano di un peschereccio in un’industria dominata dagli uomini. Quanto lo aveva attratto quella forza, l’aveva presa in prestito ogni volta che erano stati insieme, assorbendola come una spugna fa con l’acqua.

    «Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di questa peccatrice».

    Marco annuì, espirando lentamente.

    «Mi pento di questi e di tutti i peccati che ho commesso nel passato. Oh, mio Dio, mi dispiace dal profondo del mio cuore di averti offeso e disapprovo i miei peccati per cui tu mi hai giustamente castigato…».

    Elena concluse il suo atto di contrizione e il cinguettio dei piccoli piccioni riprese più forte che mai. Marco alzò la mano destra, avvolta nel rosario d’avorio che sua madre gli aveva regalato quando si era laureato al Collegium Canisianum, il seminario dei gesuiti a Innsbruck, in Austria. Aveva ereditato la sua fede dalla madre; la fede, il viso magro e gli occhi azzurri. «Dio, padre misericordioso, con la morte e la resurrezione di tuo Figlio… ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

    Marco uscì dalla chiesa dalla porta laterale, attraversò lo stretto cortile invaso da buganvillee e pomodori in vaso ed entrò nella canonica. La signora Grecci, la sua anziana governante, aveva lasciato una casseruola di peperoni ripieni a scaldare sul fuoco. Una brocca di sangria ghiacciata sgocciolava sul tavolo della cucina. Percorse gli antichi gradini di pietra che conducevano alla cantina. C’erano tre scatoloni di cartone riposti in un angolo umido e lui portò il più grande al piano di sopra.

    Si ritirò nel suo spartano studio con vista sul Mar Ligure e appoggiò lo scatolone con la sua attrezzatura per la pesca subacquea sulla scrivania di legno. La muta logora era ancora fradicia dalla sua ultima immersione. La raccolse, la piegò e la posò sul bordo della scrivania. Tirò fuori le pinne, un regalo dell’istruttore subacqueo della Marina, e le mise accanto alla muta. In fondo allo scatolone, accanto alla maschera, trovò il suo coltello da sub e una torcia. Inserì la torcia in un occhiello della tuta e affilò i bordi del coltello contro una pietra, prima di riporlo nell’apposito fodero sulla gamba destra della muta.

    Dopo avere attraversato il minuscolo ufficio per raggiungere l’armadio nascosto in un angolo vicino la stanza della signora Grecci, Marco aprì le ante ed esaminò la rastrelliera di fucili subacquei fissati al muro. Ce n’erano tre: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Scelse lo Spirito Santo, perché non ricordava di avere mai mancato un solo colpo con esso, e vi montò una fiocina in titanio. Non era la Beretta 9mm che aveva usato quando era in Marina, la pistola che in quel fatidico giorno in Somalia aveva salvato la sua vita e quella dei suoi amici, ma aveva bisogno di un’arma se voleva salvare la vita di Elena.

    Chiuse lo scatolone e lo riportò in cantina. Tornando in studio, fece una deviazione in cucina per versarsi un bicchiere di sangria, poi crollò sulla sedia con il rosario avvolto tra le mani, implorando il Salvatore di dargli coraggio.

    Marco disse la messa serale con un fervore che non aveva più avuto da quando era stato ordinato e, dopo, mangiucchiò i peperoni ripieni nella piccola cucina della canonica. Erano il suo piatto preferito, ma avevano così tanto aglio da risvegliare i morti e non aveva molto appetito. Dopo cena si rintanò nello studio ad ammazzare il tempo con il suo rosario, ma la levigatezza dei grani consumati non poté porre fine all’inquietudine della sua anima. Si avvicinò alla finestra e guardò l’acqua scurirsi, mentre la luce si spegneva. L’aveva già fatto molte volte, rimanendo ipnotizzato dalle macchie di colore luccicanti del porto – gli edifici rosa e arancioni schiacciati contro l’arenaria grigia e le barche a remi blu e gialle disseminate lungo la rampa tortuosa che conduceva all’acqua – e lasciando che le parole di un sermone gli entrassero in testa.

    Anche Elena aveva amato quella vista, dal suo primo incontro con Marco per iscrivere Gianna alle lezioni di catechismo fino a quel pomeriggio di sole in cui gli aveva detto che sarebbe partita, con la brezza marina che le scompigliava i capelli. L’aveva osservata molte volte davanti a quella finestra che dava sulla baia, fissando la sua sagoma formosa in contrasto con l’azzurro del cielo.

    Tornò alla scrivania, avvolse di nuovo il rosario intorno alle mani, come gli aveva insegnato la madre, e pregò di avere la forza.

    Non appena divenne buio, Marco si fece il segno della croce e raggiunse la spiaggia rocciosa sotto la canonica. C’era una piccola imbarcazione con il motore fuoribordo. Vi salì e si diresse in mare aperto. Procedette tranquillo e alla cieca, tenendo il piccolo faro spento. Non aveva bisogno di vedere: aveva già percorso quel tragitto centinaia di volte e sapeva regolare il timone in base allo schianto delle onde contro la chiglia.

    Spense il motore e usò i remi per spingere l’imbarcazione in una piccola insenatura, ben nascosta dal Sentiero Azzurro, la passerella sulla scogliera che collega i villaggi delle Cinque Terre. Era già stato in quel posto molte altre volte a lanciare la rete per le sardine, mentre ascoltava i gabbiani discutere. Ormeggiò la barca, si tolse tutto tranne la muta e ripose i vestiti e il fucile subacqueo in un borsone impermeabile. Se lo mise sulle spalle, indossò le pinne e si tuffò, nuotando lontano da riva con potenti bracciate. Le correnti in quella baia erano particolarmente pericolose, perciò sapeva che nessuno si sarebbe tuffato in quel punto per sfuggire al caldo. Raggiunse acque più profonde e si diresse a sud, nuotando parallelamente alla costa. Grazie al suo corpo muscoloso e a una vita passata in mare, raggiunse la sua destinazione in mezz’ora e girò intorno alla barca, cercando di determinare se ci fosse qualcuno a bordo.

    Quando fu sicuro di no, s’issò sopra usando la catena dell’ancora e si guardò intorno.

    La Bell’Amica era proprio come la ricordava: un piccolo peschereccio a carburante in un orribile stato di abbandono. Da quelle parti c’erano tantissime barche simili che sondavano il Mediterraneo morente alla ricerca dei suoi frutti. Prese la torcia, regolò il fascio di luce in modo da ottenere un bagliore tenue e fece una rapida perlustrazione della barca. Trovò subito il ripostiglio nell’angolo posteriore della cabina di pilotaggio. Avrebbe dovuto contenere detersivi e attrezzi per la pulizia, ma aveva previsto di trovarlo vuoto. Mise da parte un vecchio mocio, l’unico oggetto lì dentro, e si sedette a terra. Poi chiuse l’anta deformata da decenni di esposizione al sole e si mise ad aspettare. Lo sgabuzzino era angusto, afoso e puzzava di urina di topo e sarebbe stata la sua casa per le prossime ore.

    Frugò nella sua borsa, cercando istintivamente il suo rosario, prima di ricordarsi di averlo lasciato sulla scrivania proprio per non coinvolgerlo in quello che stava per accadere. Le sue dita si chiusero sull’impugnatura di plastica del fucile subacqueo. Lo posò sulle ginocchia e chiuse gli occhi, ascoltando i suoni del mare: lo scricchiolio della catena dell’ancora, lo schiocco dello scafo che oscillava tra le onde e il lamento del vento contro la sovrastruttura. L’odore salmastro gli fece pensare a suo padre, che era stato capitano di un cacciatorpediniere della Marina italiana. La strada di Marco era stata tracciata fin da quando il padre gli aveva regalato una barca radiocomandata a cinque anni: sia lui che suo fratello maggiore Claudio erano entrati in Marina subito dopo avere concluso le medie a Trieste.

    Il tonfo sordo dei remi contro la barca annunciò che aveva compagnia. Appoggiò il palmo della mano sulla sua arma, ma non era necessario: la voce di Elena era inconfondibile, stava inveendo a bassa voce, mentre si aggirava sulla barca preparandosi a salpare.

    I motori vennero accesi e la catena dell’ancora sferragliò. Era una notte calma vicino a riva e la Bell’Amica dondolò dolcemente con il moto ondoso, guidata dalla mano esperta di Elena. Al largo, le raffiche settentrionali della tramontana aumentarono e Marco percepì lo sforzo dei due motori sotto di lui, i quali stavano cercando di mantenere la velocità malgrado il vento contrario. Nonostante l’ora tarda, non sentiva il bisogno di dormire e, così, passò il tempo a immaginare gli uomini che lei doveva raccogliere, gli uomini che lui aveva intenzione di uccidere per salvare la vita di Elena.

    Capitolo 2

    La Corsica era sempre più vicina; si annunciava con la tramontana e riempiendo l’aria con l’inconfondibile profumo della sua macchia, il fitto sottobosco di rosmarino e timo. Il peschereccio rallentò fino a strisciare ed Elena fece girare l’elica in senso contrario a quello di marcia per mantenere la rotta nelle acque mosse. Il tonfo di una passerella segnalò l’arrivo dei passeggeri e Marco, mentre ascoltava le loro grida, si mise a sedere diritto con la mano sul fucile subacqueo.

    Qualcuno entrò in cabina e si mise a conversare con Elena in arabo. Altre persone salirono a bordo e Marco memorizzò le loro voci. Uno aveva un tono acuto, quasi effeminato, c’erano poi due uomini che emettevano dei ringhi gutturali e l’ultimo, invece, mormorava con sfumature sepolcrali. Marco aveva ascoltato così tante voci senza volti da sapere che il sussurratore aveva già ucciso, probabilmente molte volte, e che gli piaceva farlo.

    Il caldo soffocante, l’odore dei fumi del carburante e le grida degli uomini a bordo sgretolarono il muro dietro il quale aveva sepolto il ricordo del giorno in cui, molti anni prima, aveva ucciso tre pirati somali, figli dello stesso Dio che in un modo o nell’altro tutti gli uomini adorano. Erano otto in totale, sei a bordo di una piccola imbarcazione che si era materializzata a dritta della Anteo e due su una seconda barca sottovento, che lui non aveva visto emergere alle prime luci dell’alba.

    Era di guardia quella mattina e stava percorrendo la lunghezza della nave adibita a operazioni di salvataggio più che altro per restare sveglio. Quando la prima imbarcazione si era avvicinata, aveva sparato due colpi sopra le teste dei pirati per spaventarli, riuscendo soltanto a scatenare una micidiale sparatoria, dato che erano armati fino ai denti e dotati di una varietà di armi d’assalto, soprattutto ak-47 e akm. Per fortuna aveva scelto bene la sua posizione di tiro, nascondendosi dietro il braccio della gru che sollevava il sommergibile, e i proiettili avevano soltanto graffiato il robusto metallo. Avrebbe continuato a evitare lo scontro diretto, se non fosse stato per l’rpg-7 che uno dei pirati aveva tentato di usare contro la Anteo. Un trio di proiettili nel petto dell’uomo aveva messo fine alla scarica del lanciarazzi; un secondo uomo era caduto per un colpo alla testa e, poi, la barca si era allontanata, scomparendo nelle tenebre da cui era venuta.

    Era finita rapidamente così come era iniziata, o almeno era ciò che aveva pensato, non rendendosi conto che una seconda barca si era accostata alla nave da sottovento. Un pirata era già salito a bordo, quando Marco aveva attraversato la nave con il vago presentimento che qualcosa non andasse. Non sarebbe sopravvissuto e non avrebbe potuto rivivere quel momento più e più volte nelle tante notti agitate, se l’ak-47 del pirata non fosse rimasto impigliato in un pezzo di tubo appeso, dando a Marco la possibilità di scaraventare il somalo sul ponte con un balzo atletico. Il pirata era un uomo piccolo e magro, ma Marco ricordava ancora la sua forza brutale, un vigore che non si era spento fino a quando lui non aveva affondato la lama del suo coltello da sub nel petto dell’uomo.

    I motori aumentarono la velocità, dissipando lo sgradevole ricordo. Le viti allentate fecero tremare le assi del pavimento. La Bell’Amica oscillò ampiamente a dritta in direzione di casa. Marco controllò il quadrante luminoso del suo orologio subacqueo e fece alcuni calcoli approssimativi. Si trovavano a tre ore dalla riva; Elena era ancora al sicuro. Immaginò che gli uomini non avrebbero ucciso il capitano della nave, avendo bisogno di un passaggio sicuro in acque sconosciute. No, avrebbe rischiato di più vicino a riva, quando avrebbero avvistato il punto di approdo.

    Trascorse le due ore successive ad ascoltare il nemico, valutando la sua posizione e la sua forza. Dopo un po’ di tempo, imparò a identificare gli uomini dal colpo dei loro stivali sul ponte e dal suono delle loro voci. Quella più acuta apparteneva a un ometto di nome Amad, i ringhi erano di Asim e Tariq, due uomini grandi e grossi, mentre era Karim ad avere il tono minaccioso. Era indubbiamente lui a essere al comando. Marco lo aveva dedotto dal modo in cui gli altri si rivolgevano a lui e dalla paura che Elena lasciava trapelare ogni volta che parlava con l’uomo.

    Col passare del tempo, le voci degli uomini si dislocarono in altre parti della barca e Marco ed Elena rimasero soli in cabina. I minuti trascorsero, scanditi dallo scricchiolio del ponte e dal vuoto nel suo stomaco che era sempre più profondo, man mano che avanzavano inesorabilmente verso riva.

    Finalmente si aprì una porta e Tariq entrò in cabina, urlando un ordine a Elena. Lei non disse nulla. Lui ripeté l’ordine e allora Elena si mise a parlare a raffica in arabo e Marco fu certo che non stesse ripetendo un passaggio del Corano. Strinse l’impugnatura della sua arma, sapendo che l’ora era vicina. Ci fu un forte schianto e la barca virò a babordo. Sentì dei grugniti di dolore provenire dalla cabina e il rumore di corpi che rotolavano sul ponte. Si alzò di scatto e spinse le ante del ripostiglio.

    Nella luce fioca della cabina, intravide Tariq inginocchiato su Elena nel tentativo di conficcarle un coltello nel petto. Quando lo vide apparire dal nulla, l’uomo gli rivolse uno sguardo interrogativo e afferrò la fondina della pistola che teneva in vita. Marco alzò il fucile subacqueo e sparò a Tariq nel collo, confermando l’infallibilità dello Spirito Santo. Il sangue sgorgò dalla ferita frastagliata, macchiando le assi di rosso.

    Dalle scale che portavano alla cabina giunsero dei passi: Karim stava venendo in aiuto del suo compagno. Marco afferrò la pistola di Tariq e sparò tre volte a Karim non appena lo vide sbucare dalla paratia. Il suo fucile si schiantò a terra e lui crollò sulle scale, scivolando lontano dalla vista.

    Elena spinse il corpo senza vita di Tariq in un angolo e mormorò qualcosa a Marco, ma le sue parole furono soffocate dalle grida di rabbia e dallo scalpiccio sovraccoperta. Una pioggia di proiettili assassini si scatenò su di loro e Marco sarebbe morto se Elena non avesse avuto la prontezza di gettarsi su di lui, facendoli ruzzolare a terra e giù per le scale. Lui atterrò su Karim facendo partire una raffica di spari, che momentaneamente bloccò l’avanzata del nemico.

    Elena gli mise il fucile di Karim nelle mani. «Continua a sparare».

    Marco incastrò il calcio contro la spalla e premette il grilletto, sparando una serie di colpi alla cieca, mentre Elena cercava di spostare un pannello dalla parete in fondo. Lo liberò con un tonfo, rivelando un’intercapedine che conduceva nelle viscere della barca. Lei s’infilò dentro a testa bassa, con le braccia premute contro i fianchi. Quando la vide sparire, Marco sparò altri colpi alla cieca soltanto per tenere lontani gli uomini dalla cabina. Elena aveva qualcosa in mente, una mossa, e doveva darle il tempo di metterla in atto.

    Il caricatore si svuotò e Marco scartò il fucile, prendendo la pistola di Tariq. Sparò a ogni movimento. Tra una salva e l’altra, fece rotolare Karim e lo perquisì, ma Elena gli aveva già sottratto l’arma; l’unica cosa che aveva su di sé era un pezzo di carta nascosto nel taschino della camicia. Marco lo ripose nello scomparto impermeabile sulla coscia della sua muta.

    Il mormorio in sovraccoperta aumentò e lui sparò un altro colpo, solamente per sentire lo scatto vuoto del percussore. Anche il suo nemico udì quel rumore e ben presto lo scalpiccio sul ponte si fece più pressante. Estrasse il coltello da immersione dal fodero, felice di essersi preso la briga di affilarlo, e si appiattì contro la parete adiacente alla scala, pronto a tendere un’imboscata ai due uomini che stavano scavalcando Karim.

    Sopra di lui esplosero due colpi e, poi, altri due, seguiti dal tonfo dei corpi che crollarono a terra. Si staccò dal muro e salì sovraccoperta. Trovò Elena al timone; se non ci fossero stati dei cadaveri sul pavimento, si sarebbe convinto che l’intera faccenda non era mai successa.

    «Ciao, Marco».

    «Ciao, Elena».

    Lui avanzò verso di lei. La donna non si ritrasse, quando la sfiorò con il suo braccio. Oltre al vetro c’era solo oscurità, tranne che per un riflesso del chiarore lunare su un interruttore. L’aria s’impregnò dell’odore dei fumi del carburante e del sangue.

    «Dove stiamo andando, Elena?»

    «Riomaggiore. Mohammed e un altro uomo tengono Gianna e Francesca in ostaggio a casa mia».

    «Ti sei trasferita a Riomaggiore?».

    Riomaggiore, un paesino abbarbicato su una baia rocciosa all’estremità meridionale delle Cinque Terre, si trovava a meno di dieci miglia di distanza dalla canonica di Marco a Monterosso, ma a più di un’ora di macchina date le strade strette e tortuose.

    «Dove pensavi che fossi andata?».

    Marco non rispose, il che non significava che non ci avesse riflettuto a lungo. A volte, l’unica cosa che occupava la sua mente era che fine avesse fatto Elena, quel pensiero e l’inconfondibile sensazione di lei, morbida e calda, una sensazione che ancora gli formicolava tra le dita più di quanto volesse ammettere.

    «Dove stavi portando quegli uomini?»

    «A Castello di Giordano. Ricordi che abbiamo trascorso un po’ di tempo insieme lì?».

    Come poteva dimenticare Castello di Giordano? Era un grande castello medievale che sorgeva su un’isola frastagliata al largo della costa, vicino a Fegina. Ogni anno si era rifugiato in quel posto nella settimana dopo Pasqua, camminando per i sentieri solitari, finché tre anni prima la diocesi non aveva affittato l’eremo per coprirne i costi.

    «Certo».

    L’ultima settimana che aveva trascorso lì era stata memorabile. Gli altri avevano annullato all’ultimo minuto, lasciandolo solo sull’isola, finché Elena non si era presentata a metà settimana con la scusa di dovere consegnare delle provviste al molo sotto la foresteria.

    Quest’ultima era arroccata in cima a una scogliera rocciosa nella parte posteriore dell’isola. Marco aveva occupato la stessa camera fin dal suo noviziato. In quella notte stellata d’aprile di quattro anni prima, sdraiato sul letto a baldacchino che dominava la stanza con vista sul Mar Ligure,

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