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Edir
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E-book195 pagine2 ore

Edir

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Info su questo ebook

Ispirato a un vecchio anime giapponese, Edir racconta la storia di Izak, un ragazzo che insieme alla sua famiglia si troverà costretto a fuggire dalla sua città natale. Purtroppo per lui i guai sembrano seguirlo, costringendolo a confrontarsi con una banda dal passato oscuro.
Pericoli, azione, avventura e tante nuove informazioni sconvolgeranno la vita del giovane, ma alla fine: chi avrà la meglio?

BIOGRAFIA Rispoli Antonio, nato nel Cilento, si è diplomato come Perito Informatico e, dopo la scuola ha cominciato a coltivare la passione per la scrittura, scrivendo racconti brevi, poesie, aforismi ecc... Inoltre ha pubblicato diversi libri, tra cui: Dominic Brave; L'anonima M: Storia di una donna; Eleusis; Il regno di Aslom; Lo strano viaggio di Tomas e Dylan; Seconda stella; L'inizio del Nulla; Kathrine; Manuale per APR: Operazioni non critiche.
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2021
ISBN9791220848145
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    Anteprima del libro

    Edir - Antonio Rispoli

    Edir

    di Rispoli Antonio

    Pagani (SA), Giugno 2021 inizio –Settembre 2021 fine

    Tutti i diritti letterari di quest’opera sono di esclusiva proprietà dell’autore.

    Sommario

    Introduzione

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Epilogo

    Introduzione

    Nel bel mezzo dell’universo, a circa cinquantasei milioni di anni luce dalla Via Lattea, vi era Ellos, una galassia poco più piccola ma con una struttura simile. Al centro vi era un giovane sole e intorno orbitavano sette pianeti con i rispettivi satelliti. Il più vicino al sole si chiamava Sunev, seguito da Unar, Edir, Etipu, Xala, Nula e, in fine, Ettal. Ogni pianeta aveva le sue peculiarità come l’incandescente Sunev, dove le temperature superavano spesso i quattrocento gradi centigradi durante il giorno, per poi scendere rapidamente durante la notte lasciando nell’aria una forte puzza di bruciato e di cenere. Oppure il glaciale Ettal, pianeta completamente ricoperto dai ghiacci, dove la temperatura non superava mai i meno cento gradi. Tra questi, che si trovavano agli estremi della galassia vi era Edir, l’unico pianeta del sistema solare in cui, malgrado le difficoltà di un ambiente così difficile, la vita era riuscita a proliferare; infatti, sebbene vi fossero vaste zone desertiche, con quella sabbia color sangue che sotto i raggi del sole colorava tutto di un vivace colore bronzeo, c'erano piccole oasi. Queste, a causa della scarsità d’acqua in cui versava il pianeta, erano molto distanti l’una dall’altra; ciò nonostante, riuscirono a crearsi un piccolo ecosistema, proteggendosi con una folta vegetazione che le circondava e creando la vita grazie ai piccoli specchi d’acqua, dove per secoli hanno proliferato microrganismi che si sono evoluti fino a dar vita al popolo degli ediriani: una razza aliena con sembianze umane.

    Le oasi, infatti, per molti secoli furono l’unico punto di riferimento per le popolazioni che, vivendo isolate, cercavano di sfruttare al meglio ciò che la natura, seppur in minima parte, gli donava: costruendo case con il legno degli alberi; ricavando utensili, oggetti e cotone per i vestiti dalle cortecce; coltivando frutta e verdura sul terreno fertile che circondava lo specchio d’acqua; evolvendosi per assimilare meno liquidi possibili e, in fine, allevando gli animali. O per meglio dire l’animale. Su Edir, infatti, l’unica specie da cui si poteva ricavare qualcosa si chiamava Acu. Questi era simile a uno scarabeo rinoceronte delle dimensioni di una mucca, ma che a differenza dell’insetto, aveva una folta pelliccia, da dove gli ediriani ricavavano pelli e cuoio, e poteva produrre latte che fuoriusciva da delle mammelle simili a quelle di una mucca situate all’altezza del basso ventre della bestia. Inoltre, tra le poche razze di animali presenti sul pianeta, la sua carne era l’unica a essere commestibile e per certi considerata una vera prelibatezza.

    Con il passare dei secoli, man mano che le popolazioni crescevano, tutto questo cominciò a non bastare e quindi, quelli che fino a quel momento erano piccoli villaggi, iniziarono a espandersi fino a costruire vere e proprie cittadine intorno alle oasi, e con esse nacquero i vari ceti sociali. I più ricchi vivevano vicini alle oasi, godendo di tutti i vantaggi di trovarsi in quella posizione, approfittandone il più possibile, e reclamando pezzi di terreno che davano in gestione ai ceti più bassi; mentre ai margini vi erano quelli più poveri che potevano avere solo gli scarti di chi viveva al centro della città. Questa situazione, però, ben presto divenne insostenibile. I ceti più ricchi presi dalla cupidigia iniziarono ad accumulare l’acqua, che in un pianeta così arido rappresentava una ricchezza, a discapito degli altri e innescando guerre civili nelle città.

    Questa situazione portò un popolo pacifico come quello ediriano ad aumentare il suo potenziale bellico, che fino a poco prima era praticamente inesistente, passando repentinamente dalle semplici lance a pistole di ogni forma e dimensione.

    Gli anni trascorsero e alla fine, dopo la perdita di vittime da ambo le parti, in quasi tutte le città, i rappresentanti delle due fazioni si riunirono e riuscirono ad arrivare a un accordo che mise fine alle guerre interne, ma non a tutti i problemi che avevano causato. Infatti, la parte ricca, attraverso i suoi sotterfugi, continuava a beneficiare della sua posizione accumulando ricchezze; mentre, i cittadini che si trovavano nelle periferie avevano solo le briciole ed erano costretti ad avventurarsi nel deserto, affrontando tutti i pericoli che esso rappresentava, in cerca di una vita migliore in una nuova città.

    Capitolo 1

    Sotto il sole cocente e tra le lande desolate del pianeta Edir, qualcosa viaggiava spedito lasciando dietro di sé solo una grossa e densa nuvola di polvere che copriva le tracce del suo passaggio. Era un veicolo molto simile a una macchina, dotato di cinque porte, compresa quella del portabagagli, e con trazione integrale per impedire che s’impantanasse nelle zone sabbiose. Aveva ben quattro pneumatici da ventotto pollici che possedevano un battistrada molto profondo per limitare al massimo il pericolo di bucature. La carrozzeria era interamente fatta d’acciaio e, per ovviare al problema dell’eccessivo peso, l’aereodinamica era stata portata allo stremo; infatti, il muso dell’auto aveva una forma atta a tagliare il più possibile l’aria. Ai lati del cofano vi erano due fori con all’interno fari molto forti così da poter viaggiare nel deserto senza problemi anche di notte, nonostante i tanti pericoli che questo comportava. In più, erano protetti da una fine rete d’acciaio per evitare che durante una tempesta di sabbia qualcosa potesse danneggiarli.

    Poco più in basso di quei fori, partiva una lastra d’acciaio molto spessa che seguiva la forma dell’auto fino alle piccole bocche dei tubi di scappamento situati sul retro dell’auto; proteggendo, così, la meccanica e tutti i vari collegamenti che permettevano al veicolo un buon funzionamento.

    Andando invece sulla parte superiore, si poteva notare che non c’era nemmeno un vetro che permettesse ai passeggeri di vedere fuori; bensì, era completamente sigillato da lastre d’acciaio. L’unica eccezione a tutto ciò era il parabrezza. Lì infatti, a mezz’altezza, vi era stato tagliato un rettangolo nella lamiera di appena una ventina di centimetri per un metro e cinquanta circa, dove era stato incastonato un vetro spesso e resistente, protetto a sua volta da una rete d’acciaio.

    Al suo interno la macchina era alquanto scarna con una tappezzeria completamente nera, dove tale colore era spezzato solo dalle cuciture bianche dei sedili e dal marchio dell’auto di colore nero lucido che rappresentava tre proiettili stilizzati in fila in un cerchio, stampato sul poggiatesta, così da poter spiccare sul nero della tappezzeria.

    Lo sterzo si trovava sulla sinistra dell’auto ed era a forma di controller, simile a quelli usati per giocare ai videogame, con al centro la serratura per inserire la chiave d’accensione; mentre sul davanti vi era un tasto per parte: a sinistra, premendo il tasto con l’indice, si poteva cambiare marcia aumentando di volta in volta fino ad arrivare alla sesta; mentre, dall’altro lato si andava a scalare fino a poter mettere la retromarcia. In quel caso, dal paraurti posteriore si apriva un piccolo sportellino da dove fuoriusciva una telecamera che trasmetteva le immagini al monitor sul cruscotto alla destra dello sterzo. Il monitor, inoltre, aveva anche un’altra funzione. Attraverso un piccolo riquadro in alto a destra mostrava tutti i parametri del motore, compreso il livello del carburante; mentre, sulla sinistra vi era un altro riquadro che fungeva da contachilometri.

    In fine, sotto lo sterzo, solo due pedali a forma di piedi e un piccolo incavo nella tappezzeria per far riposare il piede sinistro del guidatore quando non lo sollecitava per frenare. Al volante di tale meraviglia dell’ingegneria ediriana vi era Gius Chaco, un ediriano adulto di sesso maschile sulla cinquantina, che teneva ben saldo nelle sue mani callose, segno che era una persona che aveva sempre lavorato, lo sterzo prestando la massima attenzione.

    Era alto all’incirca un metro e sessanta e aveva un fisico nella media, nonostante un po’ di pancetta. In testa, a parte una striscia di capelli brizzolati che partiva da una basetta, passava per la nuca e si fermava sull’altra basetta, aveva appena qualche capello qua e là. Sulla fronte aveva sopracciglia foltissime su occhi verdi e un naso greco con la punta impercettibilmente deviata sulla sinistra. Sotto a esso, un bel paio di baffi che coprivano interamente il fine labbro superiore. Inoltre, come segno distintivo aveva una piccola cicatrice sullo zigomo sinistro, quasi all’altezza della tempia, che si era fatto quando era molto giovane.

    Indosso aveva una camicia di cotone rossa con quadri blu con le maniche che, per il tanto caldo, aveva risvoltato fino al gomito; un pantalone blu, fatto con un tipo di cotone molto più spesso rispetto alla camicia e, sotto di esso, scarpe sportive di colore rosse con le cuciture blu. In fine, aveva un semplice orologio d’acciaio al polso e una cintura di cuoio con fibbia d’acciaio, che rappresentava due pistole incrociate. Al fianco destro, pendeva una fondina di cuoio con l’iniziale del cognome marchiato a fuoco sopra, dove all’interno c’era la pistola di famiglia; un cimelio tramandato da generazione in generazione.

    La pistola era fatta in acciaio e con una canna di quattro pollici, alimentata da un tamburo a sei colpi calibro cinquanta. L’impugnatura, fatta in modo da mitigare il rinculo dello sparo sul polso del tiratore, aveva due guance di legno pregiato che presentava venature simmetriche. Inoltre aveva una guardia ovale che circondava perfettamente il grilletto ampio e ricurvo; mentre il cane era di tipo rialzato e con la faccia interna piatta. In più, Gius, per dargli un tocco personale, sull’impugnatura aveva fatto incidere un cerchio con all’interno l’iniziale del cognome; per poi far riempire l’incisione con dell’oro rosso.

    Seduta sul sedile del passeggero c’era sua moglie Ivel, sua coetanea, che per le tante ore di viaggio si era addormentata. Era alta qualche centimetro in meno del marito e aveva un po’ di pancia che gli era rimasta dopo la gravidanza e che non era riuscita più a buttare giù. In testa aveva capelli corti color sale e pepe e sulla fronte sopracciglia nere e sottili; sotto di esse occhi castani divisi da un carinissimo nasino a patata ricoperto da piccole lentiggini, che quasi non si notavano.

    Indosso aveva una semplice maglietta di colore nero a maniche corte con un fiore fucsia stilizzato sul petto; un pantalone leggermente elasticizzato, sempre di colore nero, e a completare il tutto un paio di scarpe sportive bianche e nere.

    In fine, sbracato sul sedile posteriore, con una gamba sulla seduta e con la schiena appoggiata allo sportello, sonnecchiava Izak, ragazzo di vent’anni e figlio della coppia. Il giovane era più alto dei genitori, un metro e settanta o giù di lì, e aveva un fisico nella media. I suoi capelli erano molto corti e neri, un po’ a spazzola. Sulla fronte sopracciglia non troppo folte su occhi di un castano molto più scuri rispetto a quelli della madre; come lei, però, aveva un naso a patata e soffici labbra carnose. Indosso aveva una maglia bianca a mezze maniche con sul petto un disegno stilizzato che raffigurava due pistole incrociate di colore nero; un pantalone grigio, e scarpe sportive nere e bianche con lacci lunghissimi.

    A un tratto, mentre i tre viaggiavano spensierati, l’auto inspiegabilmente sobbalzò con forza, facendoli saltare dai sedili.

    «Che succede?» urlò Ivel che, svegliata di soprassalto, si portò la mano sul petto per lo spavento.

    «Non lo so!» rispose il marito che a fatica cercava di riprendere il controllo del mezzo.

    «Yaaauwn! Cos’è tutto questo baccano?» intervenne Izak stropicciandosi gli occhi. «Siamo arrivati?» ma non ebbe risposta.

    «Maledizione, ma perché questo catorcio non cammina!» esclamò Gius pigiando sempre più forte il pedale dell’acceleratore facendo innalzare un nuvolone di sabbia denso e rosso.

    «Papà, ma che succede?» domandò il giovane ediriano che, dopo aver sentito le parole del padre, cominciò a preoccuparsi.

    «Non lo so, ma per quanto continui ad accelerare, non ci muoviamo di un millimetro. Dannazione! Speriamo di non esserci impantanati».

    «E cosa facciamo? Vuoi che scenda a dare un’occhiata?»

    «Tu non vai da nessuna parte!» urlò la madre, voltandosi per guardarlo dritto negli occhi.

    «E allora cosa proponi di fare? Non vorrai mica restare qui».

    «È troppo rischioso…»

    «Volete stare zitti! Con tutto questo baccano non riesco a pensare!» li redarguì Gius, facendo calare il silenzio nell’auto; dopo di che, alzò il piede dall’acceleratore e ingranò la retromarcia così da poter vedere attraverso il monitor se c’era qualcosa che li stesse trattenendo. Purtroppo all’inizio non si riusciva a vedere niente a parte il gran nuvolone di sabbia che si era alzato, ma proprio quando stava per ingranare di nuovo la prima per provare a ripartire, sullo schermo si vide un’ombra.

    «E quella cos’è?» chiese Izak indicando il monitor.

    «Cosa?» ribatté il padre non avendoci fatto caso.

    «Quell’ombra, non la vedi?» e facendosi avanti, posò l’indice sullo schermo per indicarla meglio. «Che diavolo è?»

    «Non lo so. Sembra quasi… Sembra…»

    «Sembra un tronco!» intervenne Ivel inclinando leggermente la testa e strizzando gli occhi.

    «Sì, come no. Nel bel mezzo del deserto è sbucato fuori un tronco», replicò Gius dubbioso che, a un certo punto sgranò gli occhi e sferrò un pugno sullo sterzo. «Dannazione!»

    «Papà, che succede?» chiese Izak sorpreso dalla sua reazione.

    «Ma quale tronco e tronco, quello è un silis!» e lasciandosi prendere dal panico ingranò nuovamente la prima e cominciò ad accelerare sperando di fargli lasciare la presa.

    «Papà, ma che fai? Così peggiori soltanto le cose…»

    «Stai zitto tu!» urlò il padre che cominciò ad accelerare per poi frenare così da dare dei forti strappi nella speranza che il pericoloso animale lasciasse la presa.

    «Papà, fermati! Così lo fai arrabbiare!»

    «Taci!» e gli rifilò un manrovescio così forte che per poco non gli

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