Eudoxios: Viaggio verso l'Esperia, terra del tramonto
Di Mario Pedron
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Eudoxios - Mario Pedron
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Collana Presagi
EUDOXIOS
Viaggio verso l’Esperia, terra del tramonto
di Mario Pedron
Proprietà letteraria riservata
©2019 Edizioni DrawUp
www.edizionidrawup.it
redazione@edizionidrawup.it
Progetto editoriale: Edizioni DrawUp
Direttore editoriale: Alessandro Vizzino
Grafica di copertina: Adriana Giulia Vertucci
I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati.
Nessuna parte di questo eBook può essere utilizzata, riprodotta o diffusa, con qualsiasi mezzo, senza alcuna autorizzazione scritta.
I nomi delle persone e le vicende narrate non hanno alcun riferimento con la realtà.
ISBN 978-88-9369-227-4
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Prefazione
La migrazione dei Greci, che li portò alla fondazione di città in tutto il Mediterraneo, si verificò in due fasi: in un primo momento, verso il XII sec. a.C., si ebbe una fuga, a causa delle invasioni della penisola greca, in particolar modo di quella dorica.
I greci cercarono rifugio soprattutto nelle isole del Mar Ionio e dell’Egeo e nell’Asia Minore.
Nell’VIII - VII sec. a.C., invece, la migrazione fu provocata da una grave crisi economica e da un grosso aumento demografico.
È qui, in queste circostanze e in questo periodo storico, che ha inizio il viaggio di Eudoxios.
Correva l’anno 780 a.C. e sull’isola di Eubea, situata nel Mare Egeo, sorgeva la Polis Chalkida (Calcide), costruita all’estremità settentrionale del promontorio che si spinge nello stretto di Euripo, sul quale era stato edificato il ponte omonimo, con il legno di querce, pini, larici e abeti, che abbondava nelle foreste circostanti la Polis. Lo stesso serviva a rinverdire e riparare la fiorente flotta navale, che aveva due indaffarati porti lungo le insenature naturali poste sotto il controllo diretto della città. Gli scambi terrestri, tramite carovane di mercanti, avvenivano principalmente con Tebe, centro principale della Beozia, e più a sud con Atene, prosperoso insediamento dell’Attica oltre che con le varie città dell’isola stessa.
Calcide commerciava non solo olio e vino, ma anche uva, melograni, olive, fichi, datteri, pinoli, il marmo abbondante nelle cave dell’isola e le carni dei suoi bovini; la città poteva permettersi una maggior quantità di risorse dopo aver vinto le ultime battaglie per il controllo delle fertili pianure di Lelanto che si estendevano fra la stessa e la città rivale Eretria. Ottenuto il successo militare, la Polis cresceva rapidamente, richiamando cittadini, contadini, commercianti, servi, padroni e sacerdoti dai piccoli e isolati paesini dell’entroterra, che speravano di trovare una condizione di vita migliore.
Per le strette vie della città si poteva incontrare una moltitudine di persone, intente a fare affari nelle botteghe o che trasportavano le loro mercanzie dalle provenienze più disparate della regione verso il grande mercato del centro, l’Agorà.
I porti erano molto organizzati, avevano banchine di attracco, magazzini per la conservazione delle merci, caserme e arsenali. Negozi e bancarelle vendevano attrezzature per la navigazione e le botteghe artigiane costruivano vascelli e strumenti di bordo.
Anche le pescherie sorgevano in prossimità dei porti, simili a mercati aperti e/o coperti, nei quali si vendeva il pescato. Dal porto si accedeva al centro della città generalmente attraverso una via che permetteva la fruizione degli edifici pubblici più importanti e che raggiungeva l’Agorà.
L’Agorà (la piazza) era il cuore pulsante della città, fungeva da centro politico, economico e sociale e dominava l’ingresso alla città incanalando i flussi di merci e persone provenienti dall’esterno e dai porti.
Vi erano edifici con funzioni prettamente politiche (bouleuterion, ekklesiasterion, pritaneo) e strutture destinate allo svolgimento delle attività commerciali e finanziarie (botteghe e cambiavalute), i tribunali, gli impianti ricreativi (dromos, orchestra), e alcuni edifici religiosi con una forte valenza civica (heroon).
La parte bassa della città, l’Asty, era di norma destinata alle abitazioni più povere, dove vivevano contadini e artigiani, i quali, tuttavia, non di rado, riuscivano ad arricchirsi, grazie al commercio intenso rendendo tale zona più prestigiosa della parte alta. Essa confinava all’esterno delle mura con la Chora, il luogo dove i contadini coltivavano i campi e si dedicavano all’agricoltura. Anche se era fuori dalle mura, la Chora non era meno importante dell’acropoli: infatti i cittadini, ma in generale i greci, avevano uno stretto rapporto con la terra e non svilivano in nessun caso il lavoro dei contadini, che provvedevano quotidianamente al loro sostentamento.
La parte alta della città, l’Acropolis, era il fulcro della vita religiosa della Polis, era circondata da possenti mura fortificate per la protezione dei cittadini e dei beni della Polis stessa durante gli attacchi.
Sorgevano innumerevoli templi dedicati a tutte le divinità, tra cui spiccavano sull’acropoli quelli di Demetra e Poseidone, per i quali venivano celebrati sacrifici, banchetti e cerimonie molte volte l’anno, per rabbonire il rapporto con essi.
I templi erano simili in dimensioni, sorgevano su di un basamento a tre gradini su cui si impostava il colonnato dorico. La pianta si componeva di tre ambienti, di cui quello centrale, la cella, sede della statua di culto, era composto di pronao, naos e pistodomo; il naos era diviso in tre navate da due file di colonne a doppio ordine, su cui venivano poggiate le capriate del tetto.
All’esterno di entrambi i templi, rivolti a est, sorgeva l’altare utilizzato durante i riti religiosi per sacrifici agli dei.
Fra le feste più importanti e sontuose, in onore di Poseidone si celebravano le Taurie, durante le quali si sacrificavano dei tori neri, mentre le Talisie, feste in onore di Demetra, si tenevano in autunno per ringraziare la dea dell’uva e dei frutti maturati. Tali feste erano, dunque, dedicate al raccolto e terminavano in un banchetto e in libagioni nel tempio della dea.
Nei pressi dell’Agorà sorgeva il palazzo delle riunioni civiche e politiche, il Bouleuterion, l’edificio era a pianta quadrata e al suo interno conteneva gradinate su più file, interrotte da sostegni per il tetto in pietra naturale e non affrescate, i gradini dei sedili erano allineati alle pareti di colore rosso con l’estremità superiore decorata da forme geometriche concentriche che si ripetevano uguali per tutto il perimetro interno della sala. Il pavimento era di marmo cipollino, così chiamato per le venature blu-verdi su fondo bianco che in certi punti aveva forme concentriche simili alle cipolle, estratto nella zona sud-ovest dell’isola stessa da cave nei pressi delle città di Karystos e Styra.
La vita cittadina sembrava fluire regolarmente, scandita dalle stagioni e dall’alternanza fra giorno e notte sino a quando, dopo solo una trentina d’anni trascorsi dalle ultime guerre combattute e vinte, falcidiata da stagioni siccitose e con risorse alimentari ridotte al minimo, ebbe a comparire lo spettro di una catastrofe, forse ben più grave di una guerra: il crescente dissenso della popolazione locale.
Era mattino presto, il sole ancora pallido all’orizzonte, la nebbiolina dei campi non si era ancora dissolta e già la piazza cominciava a riempirsi di gente pronta a vendere di tutto o a cercare qualche buon affare da concludere.
Schiavi indaffarati caricavano e scaricavano merci dal porto e li trasportavano in piazza, preparandosi ad affrontare un’ennesima giornata di sudore.
Intanto nella sala delle assemblee del Bouleutorion, i politkoi (uomini aventi diritto di voto) si stavano radunando per decidere come poter contrastare il malcontento e la fame crescente della popolazione. Mentre si accingevano a prendere posto fra gli scranni per dibattere, ecco un soldato interrompere la riunione. Entrò di corsa, in completa panoplia (uniforme), l’elmo sotto il braccio che poggiava sulla lucida corazza pesante, con gli schinieri in bronzo, la corta spada in ferro e lo scudo bronzeo rotondo e bombato, ripiegato sulle spalle sul quale erano stati dipinti due occhi inferociti, che nel correre producevano un rumore stridulo di metallo amplificato nella grande sala.
Al metallico rumore i presenti gelarono, le urla delle discussioni si placarono di colpo e scese il silenzio. Il soldato corse al centro dell’assemblea e con voce alta disse: «Il popolo è insorto, marcia verso di voi!»
«E cosa state facendo voi soldati... non siete pagati per guardare!» risposero alcuni, ma subito il milite replicò: «Lo stiamo già facendo... altrimenti pochi attimi fa non sarei entrato io a darvi notizia di ciò... ma solo a raccogliere i vostri corpi!»
A tale risposta cominciò un chiacchiericcio incessante e tutti iniziarono a porsi lo stesso quesito: «Che facciamo?»
All’improvviso un uomo dai capelli bianchi e dalla folta barba lunga, ma curata, si alzò dicendo: «Come ti chiami, soldato?»
«Varnavas» rispose, «raduna con i tuoi compagni d’arme la folla in piazza. Al resto pensiamo noi.»
«Sissignore!» e si allontanò correndo com’era entrato, pronto a far girare la voce fra i soldati per far eseguire gli ordini.
Tutti nell’assemblea si girarono verso colui che aveva dato l’ordine e con tono di superiorità e di sfida gli chiesero: «Cosa credi di ottenere?»
«Tempo», rispose Vlassis. «Soltanto un po’ di tempo...»
«Per farne cosa?»
«Per informare il popolo di ciò che abbiamo in mente di fare» subito replicarono piccati.
«Cosa?! Di cosa stai parlando?»
«Metteremo in atto una politica espansionistica, come abbiamo fatto anni addietro, quando ci siamo trovati a fronteggiare le stesse esigenze, ma non prima di aver dato una sistemata alla città.»
«Cosa intendi ,Vlassis?»
E lui, tirando un sospiro: «Tutti i cittadini per vivere in città devono avere una casa, un lavoro, e coloro che non hanno ciò devono ritornare da dove sono venuti