Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Quattro è meglio di due: Storia di un’adozione un po’ normale e un po’ eccezionale
Quattro è meglio di due: Storia di un’adozione un po’ normale e un po’ eccezionale
Quattro è meglio di due: Storia di un’adozione un po’ normale e un po’ eccezionale
E-book233 pagine3 ore

Quattro è meglio di due: Storia di un’adozione un po’ normale e un po’ eccezionale

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

È il racconto, ironico, autoironico, drammatico, assolutamente sincero, di un’avventura vissuta con passione e con totale partecipazione umana: una doppia adozione in una Bucarest grigia ed ostile; un’esperienza che non consente di barare o di nascondersi, ma, passo dopo passo, mette a nudo i sentimenti più autentici dei protagonisti.

Leggendo, si ride, si riflette, ci si commuove. E si ha modo di constatare come la Misericordia divina operi con efficacia infallibile e con delicatezza sorprendente a favore di chi le si affida.
Questa singolare testimonianza umana e cristiana è messa a disposizione di chi ha adottato, di chi vuole adottare, di chi ha figli e di chiunque nutra sentimenti umani, perché ne tragga motivo di riflessione, di arricchimento e, perché no, anche di una sorridente complicità.

Adolfo Andrighetti è nato a Mestre (Ve) nel 1953. Dopo la maturità classica e la laurea in giurisprudenza a Padova, è stato per molti anni vicedirettore e responsabile regionale dell’area legislativa-legale di un’associazione nazionale di categoria. Giornalista pubblicista dal 1987, scrive di argomenti giuridici, economici e di opera lirica.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2021
ISBN9788865127773
Quattro è meglio di due: Storia di un’adozione un po’ normale e un po’ eccezionale

Correlato a Quattro è meglio di due

Ebook correlati

Relazioni per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Quattro è meglio di due

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Quattro è meglio di due - Adolfo Andrighetti

    Prefazione

    La vita è sempre più grande dei nostri progetti, perfino dei nostri sogni. L’esperienza dell’adozione, in cui questo testo ci immerge, è un portale privilegiato per entrare in questa verità e farci scoprire il senso dell’esistenza. In fondo siamo tutti padri putativi, anche dei nostri figli carnali. Essi non ci appartengono, ci sono affidati. «Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito» [1] , ha scritto papa Francesco. Il nostro compito è di servire questo mistero, lasciarci sorprendere da esso e accompagnare i figli che ci sono affidati a scoprirlo assieme a noi.

    Questo inedito, questo mistero è il riflesso di un’appartenenza più profonda e più vera. È il segno di Colui a cui tutto appartiene e che solo è Padre in senso pieno. È questo il significato delle parole di Gesù: Non chiamate nessuno di voi sulla terra padre, perché uno solo è il Padre vostro (Mt 23, 9). Tutti noi siamo chiamati a essere l’ombra del Padre, come significativamente Jan Dobraczyński titola il suo bellissimo romanzo su san Giuseppe [2] . Se siamo tramiti di una paternità più grande e più vera, ne consegue che per vivere il nostro compito abbiamo bisogno di immergerci nel rapporto con questo Padre, lasciarci istruire da lui, imitare la sua pedagogia. Per questo è necessario il silenzio, la preghiera, la meditazione delle parole e delle opere di Dio. Per essere padri è necessario essere figli, così come per amare è necessario lasciarsi continuamente amare.

    Auguro a tutti i lettori di queste pagine di fare questa esperienza esaltante e liberante.

    mons. Massimo Camisasca

    [1] Francesco, Patris corde, n. 7.

    [2] J. Dobraczyński, L’ombra del Padre. Il romanzo di Giuseppe, Morcelliana, Brescia 1980.

    Raccontare: che fatica!

    Dicono che, quando ci si trova davanti alla pagina bianca con una penna in mano, si sia colti da un senso di smarrimento, quasi di vertigine, perché quella benedetta pagina bisogna pur sporcarla in qualche modo e con parole di senso compiuto. Dicono che quella sensazione di vuoto o di sbigottimento sia in realtà solo paura, un sano timore dovuto all’istinto di conservazione; simile all’emozione che prova l’alpinista quando, ai piedi della roccia che si appresta a scalare, il suo sguardo corre fino alla cima che lo attende là in alto, silenziosa, solenne; o come la contrazione nello stomaco che avverte il ciclista, quando, mentre pedala, getta un’occhiata di sfuggita, quasi senza parere, alla salita che dovrà mordere.

    Dicono. E io dico che è tutto vero. Ma nella vita, di tanto in tanto, non troppo spesso ma qualche volta, bisogna osare, gettare il cuore oltre l’ostacolo come si dice. E quindi eccomi qui, imbarcato quasi senza volerlo – e solo per la cortese ma insistente sollecitazione di alcuni – in un viaggio senza domani: quello che mi porterà a rivivere nel sangue e nella carne la singolare storia dell’adozione dei miei due figli per raccontarla in un italiano decente.

    Eh, sì. Perché, fosse stato per me, mai mi sarei esposto ad un rischio così palese, ad un pericolo talmente vicino: quello di incominciare e non sapere come continuare; oppure di continuare e non essere per nulla soddisfatto di ciò che è stato scritto fino a quel momento; oppure di scoprire che le parole adoperate sono del tutto insufficienti, inadeguate a descrivere i sentimenti e le emozioni di allora; prima ancora, di sentirsi rimescolare le viscere e pungere gli occhi nel riandare con la memoria a vicende passate ma ancora ben incistate nella mente e nel cuore. Insomma, per ricorrere ad una metafora, fosse dipeso da me, mai avrei abbandonato le pantofole e calzato gli scarponi per inoltrarmi in un’escursione che si preannuncia soprattutto faticosa, faticosa come neppure la più improvvisata e spericolata gita in montagna.

    Ma, da una parte, mia moglie Liana dice: Coraggio, scrivere sai scrivere, l’adozione dei due ragazzi rappresenta, per certi versi, una storia fuori dell’ordinario: perché non ti ci metti?. E dai oggi, dai domani, finisci per crederle, a tua moglie, per darle fiducia: e non tanto sul fatto che abbiamo vissuto, insieme ai nostri due figli, un’avventura degna di essere raccontata, quanto sul fatto che io sia all’altezza di raccontarla; perché ci sono sentimenti che sembra impudico mettere per iscritto ed emozioni per le quali non è possibile trovare le parole adeguate, in quanto ogni espressione verbale, anche se escogitata con fatica e come strappata dall’io più intimo, sembra girare attorno al nucleo senza avvicinarlo mai, senza mai riuscire a colpirlo.

    E poi a mia moglie si aggiunge una santa suora, che abbiamo contattato perché è la superiora dell’ordine che gestisce la chiesa dove abbiamo festeggiato i quarant’anni di matrimonio. Andiamo a trovarla, si chiacchiera del più e del meno e anche della nostra storia di sposi, finché il discorso cade sulle vicende dell’adozione dei due ragazzi. La suora ne ascolta il racconto, per quanto succinto, con molta attenzione e con stupore crescente, finché, alla fine, sbotta con parole di questo tenore: Ma è una storia straordinaria, ci si legge la mano del Signore, bisogna scriverla.

    A quella uscita, le sgrano gli occhi addosso e sento salirmi lungo la schiena un freddo brivido di inquietudine. Madre (o sorella, non ricordo) non ci si metta anche lei… mormoro un tantino scorato. No, no insiste la suorina, piccola e minuta come un passero ma tosta e tenace come la sua fede quando andrà in pensione bisogna che lei racconti di questa adozione, che la metta per iscritto, perché rimanga testimonianza di ciò che è successo. Madre (o sorella, non ricordo) brontolo, questa volta con un filo di astio nella voce ma io sono già in pensione…". E, per la prima volta nella vita, avrei voluto aggiungere: purtroppo.

    Insomma; ci sono dei momenti in cui ci si sente più fragili, più influenzabili, un po’ come capita quando si affronta un cambio di stagione senza prendere gli integratori, e non si è in grado di opporre alle pressioni una resistenza adeguata, specie quando provengono da più parti e con differente potenza di fuoco, secondo la migliore strategia militare. E così mi sono arreso e ho sventolato bandiera bianca. Anzi, in luogo della bandiera, c’è una minacciosa pagina bianca, davanti alla quale sono seduto per scrivere quello che mi frulla per il capo, stupidaggini comprese.

    * * *

    La verità, naturalmente, è un’altra. Quando ci si butta, con un pizzico di incoscienza, in un impegno che si percepisce al limite delle proprie forze o che si teme possa addirittura superarle, l’unica cosa che ci può prima dare lo slancio e poi sostenere è il presentimento (convinzione è una parola grossa, la certezza la lascio ai santi) che l’impresa matta e disperatissima sia sponsorizzata da Qualcuno che la gradisce e si rivolge ad essa con uno sguardo di sorridente compiacimento; uno sguardo colmo di tenerezza e di incoraggiamento, simile a quello con cui papà e mamma abbracciano, avvolgono il loro bimbo, che ha deciso di impegnarsi in una di quelle imprese attraverso le quali si cresce, si matura, si acquisisce consapevolezza di sé.

    Uno sguardo che non si limita ad avviare, cioè a mettere sulla strada giusta, ma accompagna nel cammino; non per sostituirmi nella fatica, no, di quella ci si deve far carico fino in fondo, perché la fatica che mi è assegnata per giungere alla meta è misura della mia libertà e dignità di uomo; ma per non sentirmi solo o troppo solo lungo il cammino, perché la mia fragilità non mi faccia volgere indietro dopo aver messo mano all’aratro come è tentato di fare Dante davanti alle porte infernali e conservi pazienza e forza d’animo sufficienti per attendere che un angelo, chissà sotto quale forma, scenda a confortarmi nei momenti peggiori.

    Laddove si capisce che l’impresa cui mi sto accingendo la vedo un po’ come una metafora della vita, la quale a sua volta assomiglia in modo sorprendente ad una favola: un viaggio tra pericoli e oasi di tranquillità, tra presenze malvage e fate benefiche, fino alla meta finale, cioè, in coerenza con la metafora evangelica della festa nuziale, fino al matrimonio con la figlia del re.

    Quello sguardo così affettuoso ed umano cui accennavo, qualche volta si manifesta attraverso tocchi minuscoli, delicati, come delle carezze: gratificazioni apparentemente insignificanti, trascurabili, in realtà ricche di una vivida bellezza per chi le sa leggere, per esempio un incontro da cui assorbiamo coraggio e positività, una frase letta o ascoltata che appare del tutto pertinente alla situazione che si sta vivendo e la rischiara illuminandola di una luce nuova, un segno qualunque che si fa strada nella confusione del quotidiano e, ad un occhio attento, diventa rivelatore.

    Questa carezza, come l’ho chiamata, si manifesta come una dolce, consolante attenzione che Qualcuno lassù rivolge per pura gratuità a chi sta quaggiù, ancora pellegrino sulla terra. Assomiglia al regalo, grande o piccolo è la stessa cosa, che mamma e papà fanno al bambino non perché è il suo compleanno o perché si è comportato bene, ma così, senza una ragione apparente o, se si vuole, per l’unica ragione vera e sostanziale: cioè perché gli vogliono bene e sono contenti di poterglielo dire in qualche modo, perché sono contenti di renderlo contento.

    A questo punto mi viene spontaneo chiedermi quante carezze di questo tipo posso dire di aver ricevuto durante la mia vita. La risposta la so già e posso darmela subito, in piena umiltà: tante. Così come, del resto, mi sono trovato più volte in una selva oscura senza sapere da che parte uscirne. Ma, restando alle carezze, devo riconoscere che mi sono state elargite, nel corso del tempo, con una generosità almeno proporzionale alle prove cui sono stato sottoposto.

    Ci sono state, molto molto poche, carezze memorabili: penso a quel senso profondo, intimo, di pace, di serenità, di pacato coraggio, che mi pervase e mi accompagnò per diversi giorni dopo una brevissima ma altrettanto intensa preghiera di offerta dedicata al mio bimbo, Francesco, allora sui sei anni, in sospetto di distrofia muscolare. Cosa dissi, cosa offrii durante quella preghiera, non deve saperlo anima viva: ma la risposta che ne ricevetti, così calma, così calda, così rassicurante, me la ricorderò finché campo. Sia detto per inciso: più tardi si accertò che mio figlio non soffriva di distrofia muscolare.

    Ci sono, dunque, carezze importanti, vaste al punto tale da comprendere in un solo attimo tutta intera la tua umanità. E poi c’è la miriade delle carezze semplici, feriali, un buffetto celeste che ti raggiunge sulla gota e ti dice: non temere, abbi fiducia, sono qui con te. Come quando mi sono reso conto di aver incominciato questa narrazione – infatti ho l’impressione di raccontare oralmente a qualcuno piuttosto che di scrivere soltanto – l’11 di novembre, San Martino; cioè proprio nei giorni in cui, ventisei anni fa, Liana ed io ci trovavamo a Bucarest per accogliere quelli che una nostra vecchia zia chiamava, chissà perché, giannizzeri ed io, finché erano piccoli, chiamavo, con una perfidia di cui un po’ mi vergogno e con gran scandalo di mia suocera, satanelli. Devo riconoscere che, in questa occasione specifica, mia suocera non aveva tutti i torti a sollevare (o a corrugare?) i sopraccigli…

    Insomma, ci ho pensato su un bel po’ prima di decidermi a prendere la penna in mano: e non è una figura retorica, sto scrivendo con la Montblanc che mi ha regalato il mio datore di lavoro quando sono andato in pensione e, una volta portata a termine la prima stesura del testo, lo batterò al computer limandolo e perfezionandolo.

    Ci ho pensato su, ma quando mi sono deciso a partire, non senza insultarmi un pochino perché mettevo a rischio la mia quiete per lanciarmi in un’avventura dai contorni nebulosi, l’ultimo dei miei pensieri è stato il calendario: un giorno o l’altro, che importanza poteva avere? Come quando Liana ed io, in quel remoto 1980, fissammo la data del matrimonio al 4 ottobre per la semplice ragione che ci faceva comodo. Che fosse una data tutt’altro che banale lo capimmo dopo, quando scoprimmo che era dedicata a San Francesco e quindi considerammo questa figura, colossale e fraintesa, il protettore della nostra famiglia, fino al punto di chiamare i nostri figli Chiara e Francesco, in rigoroso ordine alfabetico. Fra parentesi: come se non bastasse, ci siamo sposati in una chiesa francescana, quella dei Frari a Venezia, celebrante un frate cappuccino. Ma questa è un’altra storia.

    Ora, invece, importa questa storia, che ho cominciato a raccontare in un giorno che per me e per la mia distrazione era uno fra i tanti. Poi Liana mi ha fatto notare che era l’11 novembre, due giorni prima del compleanno di Francesco e il ventiseiesimo anniversario della nostra trasferta a Bucarest per incominciare la più straordinaria avventura della nostra vita. Allora ho pensato: dai, vuol dire che la devo proprio raccontare questa storia.

    Le coincidenze non esistono, infatti, per chi ha una visione non casuale ma provvidenziale della vita e ha sperimentato che Dio non è un concetto astratto, un parolone pieno solo di fumo, ma è una presenza che accompagna amorevolmente nella vita se si ha il desiderio di incontrarlo, di accoglierlo, di ascoltarlo. Sì, proprio nella nostra vitaccia così insignificante e distratta si può fare esperienza di una Presenza che ci attende con vero spirito paterno.

    Non si tratta di credere nell’accezione corrente del termine, dunque, cioè di aderire mentalmente ad una verità rivelata mettendo in un canto dubbi e perplessità, ma di incontrare (in che modo? Ognuno ha il suo, nel senso che la fantasia di Dio è sconfinata ma sceglie di solito strade semplici e concrete) l’Atteso di una vita, Colui che ne costituisce il senso e la bellezza: Gesù Cristo, insomma, perché non vi siano dubbi e, per di più, assai banalmente se si vuole, nella versione promossa dalla Chiesa di Roma.

    Adottare? E perché?

    Mi accorgo di essermi soffermato fino ad ora, pur con qualche divagazione, sulle ragioni che possono convincere a raccontare una storia che coinvolge tutta intera l’umanità di una persona; ma di averlo fatto con espressioni che si adattano perfettamente ad un’altra questione, la questione di fondo, quella che precede ogni altra e senza la quale il problema del se e del cosa raccontare non si porrebbe neppure: che molla, che ghiribizzo, che demone (nel senso classico di daimon, di spirito che indica ad ognuno il proprio personale destino) devono entrare in azione perché una coppia mediamente soddisfatta ed appagata si decida a mettere a rischio il proprio equilibrio, soprattutto a mettere in gioco tutta se stessa e la vita intera, adottando dei bambini?

    Perché, se qualcosa mi intimidisce, anzi mi spaventa, al pensiero di raccontare, è il dover ripercorrere e rivivere, riportandolo a galla, quel grumo di emozioni, di sentimenti, di passioni, che hanno accompagnato l’adozione di Chiara e Francesco, rendendola indimenticabile ma anche tanto sofferta. Si tratta di riaprire ferite che col tempo si erano rimarginate. Non tanto ferite cattive, non sono quelle che bruciano di più, ma le ferite che si sono aperte nella nostra umanità quando si è spalancata davanti a quelle due creature indifese e abbandonate e si è scoperta altrettanto vulnerabile, per la marea di tenerezza e di commozione che quell’incontro ha suscitato, per lo struggimento d’amore che ha distillato goccia a goccia, per quella spaccatura buona ma quanto dolorosa che ha aperto nel cuore.

    Al solo pensare ai nostri bimbi nella situazione e nella condizione in cui ci sono stati affidati, al pigolare sommesso e spaventato di Chiara (due anni e tre mesi) e alla commovente determinazione di Francesco (tre anni compiuti in quei giorni) nel voler vivere ed essere felice, mi salgono le lacrime agli occhi. E il ringraziamento sconfinato, illimitato, che sale verso Colui che ha voluto il nostro incontro, si mescola con una sofferenza intima e inesprimibile, con uno struggimento che mi lascia il cuore in carne viva.

    Un sentimento della stessa qualità lo provo, seppure con intensità più pacata e meno viscerale, quando leggo nel vangelo di Luca del figlio minore, che, stanco di contendere le ghiande ai porci, rientra in se stesso, riconosce l’assoluta miseria del suo essere attuale perché si è allontanato dal padre e decide di alzarsi e ritornare a casa; o quando leggo di Maria di Magdala, che, mentre sta in lacrime accanto al sepolcro vuoto, è chiamata per nome dal Cristo risorto, finalmente lo riconosce ed esplode in quel Rabbunì! in cui si agitano insieme ebbrezza, stupore, gratitudine, commozione, in cui il cuore affiora sulle labbra e pretende di esprimersi.

    O quando immagino che un giorno sarò chiamato anch’io da quella voce che ha chiamato la Maddalena e davanti a Lui piomberò in ginocchio, lo sguardo fisso a terra, senza spiccicare una parola, sciogliendomi in lacrime per il peccato, per la fatica di una vita, per il dolore della mia inadeguatezza, ma anche per la consolazione di essere accolto da una Misericordia sconfinata che tutto comprende e per l’attesa ineffabile che quelle

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1