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Il seme della cattiveria
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E-book270 pagine3 ore

Il seme della cattiveria

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Info su questo ebook

Una donna si ritrova in un sordido scantinato in compagnia di un cadavere. Non ricorda nulla di quello che è accaduto, tranne il suo nome, Martina.

È notte. È sola. Una pistola. Una pozza di sangue del poveretto che gli è accanto. Attorno rumori sinistri e abbandono. Dalla disperazione solo i ricordi possono salvarla. L’adolescenza, gli amici del liceo, il vecchio professore con le sue strambe teorie e gli anni Ottanta… Martina è coinvolta in un thriller che si svolge su due piani, distanziati di quarant’anni. Mentre ricorda una delicata indagine di cui fu protagonista da studentessa si ritrova a giocare al gatto e al topo in un presente che sa di incubo.
LinguaItaliano
Data di uscita18 ago 2020
ISBN9788831645522
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    Anteprima del libro

    Il seme della cattiveria - Lorenzo Castellano

    Indice

    Cover

    IL SEME DELLA CATTIVERIA

    Questa è un’opera di fantasia. Personaggi, luoghi e avvenimenti sono il frutto dell’immaginazione dell’autore. Qualunque somiglianza con fatti e persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale.

    ISBN | 978-88-31645-52-2

    © 2020|Tutti i diritti riservati all’Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6|73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Ai miei figli e a mia moglie

    La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive.

    Hannah Arendt

    Ore 04:15

    Improvvisamente qualcosa di violento, invadente, bruciante si scatenò come un’esplosione nella sua testa.

    Il primo senso a risvegliarsi fu l’olfatto, ma lei ci mise alcuni secondi per capire che doveva decodificare quella orribile sensazione col naso. Cercò di inspirare appena più profondamente per dare un nome a quell’odore così acre da averla risvegliata ma non riuscì a trattenere il conato di vomito che la travolse in modo quasi automatico. Fu in quel momento che si accorse della costrizione, dell’enorme peso che la schiacciava e le impediva qualsiasi gesto, anche aprire gli occhi e soprattutto la bocca per rigettare. Fu costretta a farlo a bocca semichiusa. Il liquido gastrico non trovando altra via d’uscita si riversò nella trachea, quasi strozzandola. Fu colta da un’incontrollabile convulsione di tosse che fu anche la sua salvezza. Il corpo lasciato a se stesso trovò l’energia della sopravvivenza e in qualche modo, a un passo dal soffocamento, dibattendosi riuscì a spostare di qualche centimetro la pesante massa che lo teneva completamente inerme. Liberata la bocca riuscì a dare sfogo al conato, seguito ancora da vari e violenti colpi di tosse che ripulirono trachea ed esofago. Finalmente riuscì a socchiudere gli occhi, pieni di lacrime. Non cambiò molto, passò dal buio assoluto ad una profonda penombra sfuocata ed evanescente, resa indecifrabile dall’effetto distorcente delle lacrime. Si prese quindi alcuni secondi per raggruppare tutte le forze che le rispondevano in quel momento e con un movimento secco cercò di liberarsi dal peso. Con suo grande stupore ci riuscì. Quel coso che la stava soffocando rotolò pesantemente accanto a lei, mentre qualcos’altro la colpiva sulla guancia fermandosi sulla sua bocca. Si asciugò le lacrime e finalmente riuscì ad intravedere cosa aveva addosso: una mano. Una mano grassoccia e maschile, con un pacchiano anello d’oro di quelli che sembrano dei timbri antichi, una mano inanimata e fredda. Le unghie mangiucchiate e ingiallite dal fumo dell’indice e il medio erano a pochi centimetri dal suo naso, poteva sentire distintamente l’odore nauseante del tabacco ormai tutt’uno con la pelle. Le scappò un urlo di disgusto e terrore a cui seguì un brusco movimento col collo per liberarsi della mano. Con uno scatto si tirò su abbastanza da poter vedere che la massa che quasi la schiacciava in realtà era un corpo. Un corpo in una divisa blu, grasso e disarticolato. Un vigilantes, o quello che rimaneva di lui. Cercò di ricordare qualcosa, ma il dolore alla testa era troppo forte. ‘Martina, mi chiamo Martina, ma che ci faccio qui, dove sono?’ Le venne naturale prendere il polso dell’uomo per sentirne il battito. ‘Martina e devo essere un medico o qualcosa di simile’ ragionò, mentre si rendeva conto che il battito non c’era. Morto e tiepido, se non proprio freddo, non ancora nel rigor mortis. Stimò in mezz’ora prima il momento del decesso, non di più. Mezz’ora in cui con tutta evidenza era rimasta sotto quel peso, priva di sensi. Girò quindi con evidente disagio la testa dell’uomo che le si presentò irriconoscibile, immersa in un denso strato di sangue rappreso e materia cerebrale. Aveva un buco al centro della fronte e uno corrispondente sulla nuca, proprio al centro della spelacchiata chierica che cercava in qualche modo di arginare la calvizie incipiente. D’istinto lanciò un nuovo urlo, la visione era sconvolgente. Sentì per un attimo la sua voce riecheggiare fuori da quello spazio, come se si aggirasse in un grande vuoto. Si rese conto che quella era la prima informazione che aveva di quel luogo, nei suoi pensieri non ne trovò altre. Si alzò e si guardò intorno. Quattro pareti di cemento senza finestre, tubi e cavi, umidità e niente altro.

    – Aiuto! Aiuto!! C’è un uomo morto qui!

    Aspettò un attimo ma non arrivò nessuna risposta. Niente di niente, solo il regolare ticchettio della perdita d’acqua. Sempre quella allucinante sensazione di vuoto, la stessa che avvertiva nella sua testa. C’era una porta da varcare e andare a cercare aiuto con le proprie gambe ma un istinto di conservazione o forse una sua innata prudenza la fermò. Cercare aiuto facendosi trovare in compagnia di un cadavere poteva non essere la migliore delle strategie. Che spiegazioni avrebbe dato, che non si ricordava niente di niente, neanche il suo cognome? Non le avrebbero creduto neanche un po’ avrebbero subito pensato alla solita infantile scusa da romanzo, peraltro già vista e rivista. E l’avrebbero guardata con sospetto, molto sospetto con quel cadavere lardoso vicino. Così in un secondo si sarebbe trasformata in indiziata numero uno di un omicidio del quale non sapeva niente. Perché quel buco nella testa parlava chiaro. Qualcuno doveva aver ucciso quell’uomo, uno se proprio si vuole sparare in testa da solo certo non lo fa in quello squallido posto e davanti ad un testimone.

    Preferì quindi per il momento tornare ad esaminare il corpo. Si bagnò una mano con dell’acqua presa da una pozza per terra e con grande ribrezzo cercò di lavare il sangue dal volto del vigilantes per poterlo guardare meglio. Avrà avuto quarant’anni, un aspetto da povero diavolo che anche così ripulito continuava a non dirgli niente. Una faccia completamente sconosciuta.

    Fu quello il momento in cui cominciò a dubitare di se stessa.

    Provò a ricordare una faccia vista da poco, una qualsiasi, ma non gliene venne in mente nessuna. Vuoto. Nessun fatto, nessun pensiero recente. Martina, forse medico, galleggiava nel nulla del suo cervello in stallo accanto ad un cadavere. In uno scantinato sordido, umido e sconosciuto. O forse no. Forse era solo il sotterraneo di casa sua o del suo ufficio, un posto familiarissimo che magari in quel momento non ricordava come tutto il resto della sua vita. Tutto sembrava essere finito in un buco nero, come quel posto.

    Invece d’improvviso ebbe un lampo, una visione. Vide chiaramente il viso di sua madre, quello di suo padre e addirittura quello della nonna Clotilde. Lontani ma chiari, vividi, quasi in movimento. Forse sforzandosi avrebbe potuto ricordare qualcosa di vecchio come loro, brandelli della sua vita passata così radicati nei suoi neuroni da non essere stati spazzati via da quel trauma. Per il passato prossimo avrebbe dovuto pazientare, era chiaro. In quel momento gli sembrò di aver letto, chissà dove e chissà quando, qualcosa in proposito. Tra gli effetti di un forte trauma cerebrale può esserci una momentanea perdita di memoria. L’osservazione di questi fenomeni ha evidenziato che i ricordi tornano a macchia di leopardo, con i più remoti che riaffiorano prima dei più recenti.

    Sì, doveva proprio essere un medico e quel concetto doveva averlo studiato per ricordarlo così precisamente. Ma quando? E quanto avrebbe dovuto aspettare per recuperare le coordinate minime della sua vita?

    Non resistette oltre davanti a quella macabra scena e abbandonò il viso inespressivo di quello sconosciuto girando lo sguardo in basso verso il suo corpo. Lesse il suo nome sulla targhetta fissata al petto, Marco Giarnieri. Si rese conto che quel nome non le diceva niente, mentre lo sguardo le cadde con orrore sulla pistola abbandonata accanto a lei in terra. La maneggiò e controllò il caricatore facendolo uscire con un colpo secco dal manico, c’erano ancora alcuni proiettili ma alcuni ne mancavano. Si stupì per un attimo di avere questa competenza, si massaggiò la tempia dolorante quasi a volerla aiutare a guarire e a restituirle i suoi ricordi. Si rese conto con orrore di aver toccato il manico della pistola con la sua mano: oddio, le mie impronte digitali adesso sono su questa pistola!

    Con un gesto isterico tentò di sciacquarla nella pozza sul pavimento. Quindi prese la mano del cadavere e gli fece impugnare la pistola, sincerandosi che le sue dita morte lasciassero le impronte sul manico. Gli fece posare l’arma accanto alla sua gamba. Decise poi di guardarsi in giro: si trovava in una stanza di cemento senza intonaco con grandi tubi alle pareti e fasci di cavi elettrici che correvano sotto al soffitto. Sul pavimento, in una crepa del cemento scorreva un rivolo giallastro dal quale arrivava un insopportabile tanfo. Il tutto immerso nel silenzio e nella penombra, l’unico bagliore di luce arrivava dall’esterno, una luce che sapeva di neon ingialliti che funzionavano ad intermittenza. Quanto ai rumori avvertì solo il solito gocciolare della perdita d’acqua in lontananza. Non sapeva se doveva aver paura o cos’altro, perché si trovasse lì, se era scampata a qualcosa di brutto o se la sua fine era solo rimandata. Oppure se niente di tutto questo. Si toccò la testa alla ricerca di un livido, un dolore, un rigonfiamento che giustificasse quella perdita di memoria. Trovò un punto gonfio proprio sopra l’orecchio destro, le doleva molto solo a sfiorarlo. Resistette alla tentazione di commiserarsi, lasciò perdere la ferita e si raddrizzò di scatto. Doveva fare qualcosa, cercare un’uscita a quella situazione incomprensibile. Tornò a guardare la pistola, dopo un momento la prese con decisione senza preoccuparsi delle impronte. La impugnò con tale naturalezza da stupirsi nuovamente di averla in mano, si sentì subito più forte. Quindi la infilò in una tasca e si mosse in esplorazione. Come si girò si trovò davanti a dei calcinacci caduti da un muro che aveva alcuni profondi buchi. Quasi inciampò su un piccone abbandonato a terra. La possibilità che in quel posto lavorassero degli operai le diede un po’ di coraggio. Dalla stanza si spostò in un lungo corridoio, illuminato qua e là da alcune lampade di emergenza che emettevano una fioca luce giallastra, sul quale si affacciavano molti vani senza porte. Passò accanto a mucchi di lamiera arrugginita, pezzi di muro crollati, un topo in decomposizione e poco altro. Dopo alcuni passi entrò in un altro vano, uguale a quello dove si era risvegliata e a tutti gli altri che aveva intravisto. Notò lo scheletro arrugginito e ammaccato di una vecchia bicicletta da passeggio, senza più né ruote né sellino ma con ancora i resti di un cestino sul manubrio.

    Roma, 29 settembre 1980

    Pioggia. Le gocce cadevano fitte e compatte come mai avevano fatto in quell’inizio di settembre.

    La ragazza continuava a pedalare come se niente fosse. Attraverso la t-shirt sempre più zuppa cominciava a trasparire il reggiseno del costume da bagno che indossava. Martina amava sentirsi l’acqua addosso. Le dava solo un po’ fastidio quel velo umido davanti agli occhi che le impediva di vedere bene la strada. Il caotico traffico romano non si era ancora del tutto risvegliato dopo la pausa estiva e così poteva pedalare in mezzo alla strada come le piaceva fare, contromano, spingere sulla salita di Sant’Agnese mettendosi in piedi sui pedali e facendo indurire i polpacci. Avrebbe dovuto essere triste e invece era felice, si sentiva rilassata e su di giri, quasi esaltata. Forse era anche merito di Back in Black, l’ultimo album degli AC/DC che stava sentendo nelle cuffiette del suo Walkman, uno splendido mangiacassette portatile appena uscito in Inghilterra che Guglielmo, il suo ex, le aveva portato da Londra prima che si lasciassero.

    Correva sempre di più quando avrebbe dovuto rallentare. Il pensiero di quello che sarebbe successo a casa al suo ritorno non la sfiorava, l’importante ora era arrivare, verificare il cambiamento, chiudere un capitolo della sua vita e proiettarsi finalmente in avanti, verso il futuro che aveva sempre desiderato. Porta Pia era ormai a pochi metri. La pioggia continuava ad aumentare e Brian Johnson, quasi fosse presente, cantava: I’m rolling thunder, pourin’ rain. I’m comin’ on like a hurricane. My lightning’s flashing across the sky. You’re only young but you’re gonna die.

    Martina piegò con leggerezza la bici smettendo di pedalare di botto facendo cigolare la catena lasciata libera nel suo ingranaggio, girò a sinistra per forza d’inerzia scorrendo davanti ai due archi abbastanza lentamente da essere notata dai militari di guardia all’Ambasciata inglese. Passando lì tutte le mattine da quattro anni ormai riconosceva al volo i ragazzi in servizio, nonostante le loro mimetiche tutte uguali, l’inquietante mitraglietta tenuta con noncuranza a tracolla come fosse una borsetta qualsiasi. Notò che c’era il suo preferito, un giovane alto dalle spalle larghe, i capelli rossicci e il portamento fiero. Così alzò un po’ il gonnellino per attirare la sua attenzione e riprese a pedalare. Martina sapeva di essere bella e di piacere, una cosa che le dava una grande sicurezza, in realtà l’unica. La sua vita era in una fase di passaggio cruciale, era il tempo dei dubbi e delle incertezze. Per un attimo gli tornò in mente il suo ragazzo, Guglielmo, che non aveva voluto, o forse non aveva saputo, condividere i suoi sogni e i suoi bisogni e l’aveva lasciata all’inizio dell’estate. Strinse il manubrio e diede un colpo rabbioso sui pedali: ormai anche lui era dietro e lei aveva deciso di guardare solo avanti, anche in amore. Tornò in sé, lanciò un’occhiata nello specchietto per vedere se il suo roscio la stava guardando. Ma lui no, sguardo fisso in avanti, professionale e attento, dovunque e da nessuna parte. Tanto lei lo sapeva che con la coda dell’occhio l’aveva seguita sfrecciare. Quello che non immaginava era che quella mattina il livello di allerta fuori dalle ambasciate era stato elevato di ben due gradi. Tutti i militari in servizio dovevano essere al massimo della concentrazione. Un’auto ferma al semaforo aveva il finestrino abbassato dal quale proveniva la voce gracchiante di un radiogiornale che Martina, a causa delle sue cuffiette, non poteva sentire: … Poche ore fa l’Iraq con ingenti truppe di terra ha invaso la regione meridionale dell’Iran, il Khuzestan. Il mondo guarda con preoccupazione a questa azione di guerra di Saddam Hussein che rischia di destabilizzare l’intero Medio Oriente…

    Ancora una scarica sui pedali in coincidenza con l’inizio di Let Me Put My Love Into You e quindi alzò gli occhi giusto in tempo per vedere le due grandi bandiere della scuola quasi sopra di lei. Non si era resa conto di quanto avesse pedalato forte negli ultimi metri e così fu costretta ad una brusca e stridente frenata che fu accolta con un applauso e fischi di approvazione dai soliti cretini del terzo anno che come sempre stazionavano fuori dall’entrata in preda al più assoluto fancazzismo. Martina non li degnò di uno sguardo, legò la bici al lampione ed entrò nell’atrio della scuola facendosi largo tra la massa dei ragazzi che uscivano, alcuni sollevati, altri disperati. Passò accanto a due ragazzi del terzo che stavano discutendo animatamente dei due fatti principali di quell’estate, la strage di Ustica e quella dell’Italicus di Bologna. Due fatti di sangue che avevano scosso l’intera opinione pubblica fino ad insinuarsi nei discorsi degli adolescenti, rubando una volta tanto spazio ai grandi concerti estivi e al calciomercato. Due episodi che avevano turbato anche Martina, con il loro carico di inquietanti misteri e giochi di potere. Che Italia si preparava ad accogliere quella sua generazione che stava per affacciarsi al mondo degli adulti? Martina fece un cenno ai due e proseguì decisa verso la parete con i quadri appesi tra le piante che ornavano il grande corridoio principale. Salutò anche Flavio, il suo compagno di classe comunista che tutto infervorato commentava con altri amici le agitazioni degli operai della Fiat di Mirafiori e il discorso di Berlinguer che aveva aperto ad un appoggio del Partito Comunista nel caso di una storica occupazione della fabbrica. Alle sue spalle notò subito la sua compagna di banco, Adele, in cerca del quadro con i risultati degli esami di riparazione della loro classe poco più avanti. Erano state rimandate entrambe, in matematica. Adele con il cinque, Martina con il quattro. Un fardello micidiale per chi vuole accedere all’ultimo anno dello scientifico. Adele non si era persa d’animo, aveva studiato tutta l’estate con il padre ingegnere e quando era andata al mare due settimane aveva proseguito a prepararsi con un ragazzo insegnante precario del posto. Martina invece non aveva aperto libro. Già da mesi aveva deciso che la scuola non faceva per lei. Aveva altro in mente e lo avrebbe ottenuto, anche se tutto il mondo pareva disapprovare le sue intenzioni. Per lei la sua avventura tra i libri sarebbe dovuta finire a giugno ma poi, per non dare un dispiacere troppo forte e immediato a sua madre, aveva accettato di fingere di studiare per gli esami di riparazione. Una farsa, un allungare il brodo di tre mesi proprio per preparare mamma all’idea che lo studio non era il suo futuro. Tanto valeva lasciar perdere e concentrarsi sulle sue vere ambizioni, il suo sogno. Così l’estate era passata tra feste, spiaggia, giochi d’acqua e interminabili pomeriggi al baretto dello stabilimento balneare. Due giorni prima, all’esame di riparazione, aveva persino rifiutato di farsi passare il compito da Adele, tanto era ormai convinta che il suo futuro dovesse essere lontano da quei banchi. Aveva buttato lì quattro numeri a caso, tanto per darsi un tono mentre i suoi compagni intorno a lei si affannavano concentrati a fare conti e grafici. Adesso non restava che una formalità, leggere quel non ammessa accanto al suo nome e telefonare a sua madre, che finalmente si mettesse il cuore in pace. Quando si avvicinò ad Adele si accorse che i suoi occhi erano pieni di lacrime e delusione. La ragazza si girò e le stampò un ceffone sulla guancia. Martina rimase a massaggiarsi a bocca aperta, sbigottita per la reazione incomprensibile dell’amica.

    – Potevi dirmelo perché non avevi bisogno di copiare, potevi passarmelo tu il compito! Sei proprio una stronza!

    Adele scappò via disperata, lasciando Martina sola a chiedersi del perché di quel respinta accanto al nome della sua amica e soprattutto di quel ammessa alla classe quinta accanto al suo.

    ***

    Il ritorno fu molto più lento e ragionato dell’andata. Aveva smesso di piovere e in fondo al lungo rettilineo della Nomentana era comparso anche un timido arcobaleno. Martina aveva fatto quei due chilometri in totale sovrappensiero, pedalata lenta, passando anche davanti al suo soldatino concentrata nei pensieri. Così non si era accorta di come lui l’aveva guardata girando tutta la testa e lasciandosi scappare da sotto il casco anche un’espressione di stupore. Forse non si aspettava di vederla tornare indietro così presto come Martina proprio non si aspettava di essere promossa. Una cosa inconcepibile, senza nessuna logica. Sul foglio aveva scritto quattro numeri in croce senza alcun senso, lo ricordava bene. La matematica non dovrebbe essere una scienza esatta? Come

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