Le tre signore
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Le tre signore - Irene Schiavetta
mamma
CAPITOLO 1
Oggi
Attraversando il ponte che collegava la periferia al centro, Emilia notò le bancarelle stipate nella piazza principale. Santo cielo, è mercoledì! Mi era passato di mente. E adesso?
pensò, contrariata. Trovare parcheggio sarebbe stato impossibile. Solo in casi estremi - non meno di un palmo di neve a terra e ghiaccioli aggrappati alle grondaie - gli abitanti di Folasca avrebbero rinunciato a recarsi al mercato, che aveva luogo sempre nello stesso giorno, da tempo immemorabile. Quello, poi, era un caldo mattino di maggio e anche le vecchiette più incartapecorite si erano decise a uscire da casa.
La guidatrice frenò, incanalando l’utilitaria dietro un furgoncino, poi, tanto per fare qualcosa, si guardò nello specchietto retrovisore, sistemando i capelli. Come aveva potuto dimenticare il rito pagano della spesa settimanale, cui da piccina partecipava in compagnia della nonna? Sospirando, guardò l’orologio. Era ferma da pochi minuti ma le sembrava già troppo. Fare inversione di marcia? Non c’era spazio, anzi, in quel punto la strada era ulteriormente congestionata a causa di alcune auto ferme in doppia fila, vetture dimesse, un po’ acciaccate, che con il loro aspetto denunciavano la provenienza dei proprietari, contadini scesi dalle frazioni più lontane. Ai posti di guida sedevano uomini di mezz’età – o decisamente oltre - che in attesa delle consorti ingannavano il tempo come potevano, chi leggendo il giornale, chi chiacchierando con un passante, ma tutti senza eccezioni rassegnati a quello che, per loro, era quasi un dovere civico.
La donna aprì con la destra la borsa appoggiata sul sedile del passeggero, afferrò il cellulare e richiamò alla memoria il numero dell’esecutore testamentario. L’uomo le aveva fissato un appuntamento per le dieci nello studio notarile le cui finestre si affacciavano proprio sulla piazza del mercato, ma vista la situazione non era possibile giungere in orario.
- Buongiorno. Sono Emilia Ferrara, dovrei incontrarmi con il dottor Ponti alle dieci. Vorrei avvisare che, purtroppo, arriverò con qualche minuto di ritardo – disse alla segretaria.
Appena più tranquilla, ripose il telefonino e riportò l’attenzione sulla strada, dove la fila si muoveva lentamente. Vide lì vicino due luci di posizione che segnalavano l’innesto della retromarcia. Che fortuna! Un parcheggio si stava liberando alla sua destra… No: peccato, era un’area di sosta per disabili. L’unica soluzione
pensò a quel punto è lasciare l’auto a casa della zia. C’è il vialetto d’accesso che è privato, di solito la gente lo lascia sgombro. Sì, farò così, una volta raggiunta via Baratto, tornerò indietro a piedi
decise.
Quando finalmente riuscì a oltrepassare l’ingorgo, Emilia raggiunse la zona periferica in cui si trovava la sua destinazione e fermò il motore, non senza sollievo, nel piccolo spazio ombroso antistante all’abitazione.
Bene! Ora di corsa…
Aprì la portiera e immediatamente l’aria fresca entrò nell’abitacolo, avvolgendola in una nuvola di profumo.
Meraviglia!
Forte e improvviso, annidato nel piacevole odore del glicine, un ricordo la catturò e le portò lontano i pensieri. Fu di nuovo bambina, con le trecce che scendevano sul petto, in un’estate di chissà quanti anni prima.
Aveva pedalato fin lì mandata da sua madre per qualche commissione e, scesa dalla bicicletta, si era avvicinata alla pianta, affascinata.
- Attenta! Ci sono le api - l’aveva raggiunta la voce della padrona di casa.
Spaventata, aveva d’istinto ritratto la mano.
Ripensandoci, sorrise tra sé e alzò gli occhi sulla moltitudine di piccoli fiori bianchi che, scendendo a cascata fin quasi a terra, schermava i raggi del sole. Con la punta delle dita accarezzò i petali, inspirando a fondo.
Doveva andare. Si scosse e frettolosamente si avviò a piedi verso lo studio del notaio Augusto Ponti, che qualche settimana prima l’aveva convocata per l’apertura del testamento di Olimpia Fontana, sua madrina di battesimo. L’anziana maestra elementare, che lei chiamava zia - mentre era solo una lontana parente - era passata a miglior vita; una morte clemente, perché se n’era andata nel sonno, dopo essersi assopita sulla panchina di una casa di riposo, durante una visita a un’altra vecchietta.
Emilia aveva appreso di essere l’erede della sua abitazione.
- Proprio non me lo aspettavo, dottor Ponti - aveva commentato. - Sapevo che non si era sposata e non aveva figli, però…
- Eri la sua figlioccia e in definitiva la parente più prossima - aveva spiegato l’uomo. Per qualche imprecisato motivo le dava del tu e la trattava come una ragazzina. Troppo ben vestito, troppo profumato e troppo sorridente
l’aveva giudicato lei, cercando di non far trapelare il suo fastidio.
- La maestra Fontana ti ha tenuto a battesimo e ti ha visto crescere, almeno finché sei rimasta a Folasca. Evidentemente per lei questo legame aveva un gran valore, anche se non abiti più in paese.
Da anni lei sentiva la zia solo per telefono, di tanto in tanto. Ma che ne sapeva lui? Forse era stato un confidente della maestra.
- La casa in via Baratto costituisce un bel regalo - aveva continuato il notaio, ammiccando - specialmente perché è accompagnata da una piccola somma destinata al pagamento delle spese di successione.
Olimpia aveva pensato a tutto!
- Per fortuna, al momento di stilare il testamento, la signora ha preferito farsi guidare da un esperto - aveva sorriso l’uomo, compiaciuto di sé.
Le dita tozze tormentavano i baffi radi, sottili, come controllando che fossero ancora al loro posto.
- Sai – aggiunse - a volte si lasciano dei beni senza preoccuparsi del fatto che gli eredi dovranno vedersela con le tasse, ma lei era un tipo scrupoloso e ha fatto in modo di evitarti ogni grattacapo. Peraltro - continuò, assumendo un tono più formale e guardandola fisso negli occhi - il denaro custodito nel conto in banca, o investito in vario modo, è stato destinato altrove, ma su quest’ aspetto sono tenuto al segreto professionale.
Nell’arco di poche settimane le pratiche erano state ultimate ed era stato fissato un nuovo appuntamento per la firma di alcuni documenti.
L’edificio in cui si trovava lo studio notarile era una massiccia costruzione a due piani, la cui facciata era ornata da una meridiana che faceva del suo meglio per sembrare antica, aiutata maldestramente dalle finestre a sesto acuto. Emilia notò i colori accesi della recente ristrutturazione e nascose un sorriso, ricordando che da quelle parti il buon gusto era piuttosto raro. Guardò ancora una volta l’ora. Non sono troppo in ritardo
pensò. Salì veloce la stretta scala interna, ornata da una pretenziosa passatoia rossa, e fu fatta accomodare nella sala d’aspetto. Qui la raggiunse una segretaria, un tipo sbrigativo che le comunicò che purtroppo il dottor Ponti era dovuto uscire poco prima, per un motivo urgente. Sembrava una menzogna: forse una vendetta infantile per quel quarto d’ora di ritardo? Non ne fu dispiaciuta e seguì la donna fino alla sua postazione di lavoro, dove, senza tanti preamboli, le fu messo davanti un blocco di fogli da firmare.
- Per il momento è tutto. Qui ci sono le chiavi dell’immobile - le disse la segretaria quando ebbero terminato, consegnandole una busta rigonfia - e una copia del testamento – aggiunse, passandole una cartelletta trasparente piena di documenti. - Per quanto riguarda le imposte di successione, le arriverà il vaglia da compilare, direttamente dall’agenzia delle entrate.
Con il suo lavoro di fotografa freelance Emilia non nuotava nell’oro ed essere proprietaria di un appartamento piovuto dal cielo le faceva, a onor del vero, molto piacere. Dal momento in cui l’aveva saputo, aveva iniziato a fantasticarci sopra.
- Sicuramente né l’impianto elettrico né il riscaldamento sono a norma, anche porte e finestre secondo me sarebbero da sostituire. I pavimenti sono ancora in ordine, ma hanno parecchi anni. Cosa ne dite? Potremmo ristrutturarlo e poi metterlo in vendita – aveva ipotizzato una sera mentre, con marito e figlio, preparava una variopinta insalata.
Ascanio aveva fatto una smorfia.
- Per fare un calcolo approssimativo del costo dei lavori, devi ipotizzare di spendere circa cinque-seicento euro a metro quadrato.
Lei era rimasta con una forchetta a mezz’aria.
- Però! Facciamo il conto. Quanti metri quadrati può essere?
- Ti riferisci alla casa di Folasca? - aveva chiesto il figlio quattordicenne che era stato ad ascoltare fino a quel momento, affettando svogliatamente le carote. - Oggi ho dato un’occhiata alla mappa catastale che hai lasciato in salotto, a occhio e croce sono novanta metri quadri.
Che tipo, Roberto. Sornione, sembrava avere sempre la testa da un’altra parte ma notava e registrava ogni particolare e, se era in vena, poteva essere preciso come un microscopio elettronico.
Il conto fu presto fatto e risultò che si sarebbe trattato di una spesa ragguardevole. Forse la decisione più sensata era di mettere in vendita la casa così com’era.
- Domani farò una telefonata a Marini, lui è nel campo immobiliare e posso considerarlo un esperto - aveva concluso Emilia.
Il giorno dopo, contattato al telefono, l’amico si era dichiarato lieto di aiutarla.
- Cercheremo di trovare la soluzione migliore. Però, che fortuna! Mi sembri la protagonista di un film con la classica storia dell’eredità inaspettata – aveva commentato, senza nascondere una punta d’invidia.
Lei era scoppiata a ridere.
- Già, ma è successo davvero e non ho un regista che mi dica cosa devo fare! Sta a te darmi il suggerimento giusto.
Lui aveva ragionato sui dati in suo possesso e poi aveva emesso la sentenza: un appartamento in quella zona aveva un valore modesto e, se non intendeva usarlo come abitazione, conveniva liberarsene, naturalmente dopo aver portato a termine le pratiche riguardanti la successione.
- Venderlo non sarà facile - l’aveva avvertita - perché il settore è in difficoltà da parecchi mesi, ma ti insegnerò qualche trucchetto per facilitare la vendita. Prima di tutto, devi fare in modo che la casa sia preparata
per le visite.
- Sarebbe a dire? – aveva domandato Emilia, incuriosita.
- Vuota armadi e cassetti, specialmente gli stipetti della cucina; butta via in particolare ciò che può avere cattivo odore o un brutto aspetto. Togli scarpe, vestiti, scope, stracci, detersivi ed elimina quasi totalmente ninnoli, soprammobili e oggetti vari. Poi fai una bella pulizia, specialmente bagno e cucina, e spruzza un deodorante.
- Allora devo lasciarla arredata?
- Sì. Le case in vendita vanno mostrate completamente vuote solo se sono nuove o appena ristrutturate - aveva spiegato lui. - Senza mobili avrebbe un’aria sciatta e triste che potrebbe scoraggiare i potenziali acquirenti. La svuoterai solo dopo che avremo individuato un compratore, sempre che, naturalmente, non sia interessato ad averla arredata.
Emilia aveva così iniziato a pianificare le operazioni di sgombero e pulitura. Era un lavoro pesante e non avrebbe guastato potersi avvalere di buone braccia, ma appena aveva tentato di coinvolgere il consorte, aveva ricevuto un rifiuto.
- Lo sai, ho pochissimo tempo libero e non vorrei passarlo a frugare tra le cose di una vecchia signora, che tra l’altro conoscevo solo di vista – si era giustificato.
Lei considerava l’eredità un bene comune con Ascanio, anche se formalmente era la sola citata nel testamento, e ci rimase male quando capì che il marito se ne lavava le mani. D’altronde c’era abituata, perché, non avendo un orario di lavoro regolare, era sempre la candidata ideale per le incombenze domestiche, mentre Ascanio, che usciva presto il mattino e tornava tardi la sera, poteva scansare a buon diritto ogni attività extra lavorativa.
- E’ una faticaccia! La casa è grande e lei era di quelle che tenevano tutto...
L’uomo non aveva ceduto.
- Magari ti divertirai! Ehi, ho un’idea, fai venire Roberto - le aveva suggerito ridendo.
Lei lo aveva guardato storto.
- Quel ragazzo è un pigrone, per di più nel pieno di un innamoramento adolescenziale. Per convincerlo dovrei puntargli una pistola alla tempia.
Stiracchiandosi, Ascanio si era alzato dalla sedia. Forse per lui l’argomento era chiuso.
- Dai, va bene, ti aiuterò, ma… a modo mio - aveva abbozzato. - Facciamo così: vai nella casa e inizi a svuotare cassetti, armadi e così via. Se c’è roba da tenere, o dei rifiuti ingombranti, metti tutto in scatoloni di cartone, li ammassi da qualche parte ed io li porterò via… li porterò dove mi dirai tu. La spazzatura invece la butti tu man mano, basta fare sacchetti piccoli. Che ne dici?
Era meglio che niente, dal marito non poteva pretendere di più neanche insistendo giorni interi.
Dopo aver messo in borsa i documenti, intascato le chiavi e salutato l’algida segretaria dello studio notarile, la fotografa, immersa nei suoi pensieri, tornò in via Baratto. L’automobile quasi scompariva nell’ombra del glicine. La pianta affondava le radici in un’aiuola situata accanto alla scala esterna che portava al primo piano, dove si trovava l’abitazione della defunta; da qualche tempo non era più stata potata e si era allargata in tutte le direzioni, diventando la protagonista assoluta della facciata. Al piano terra l’edificio ospitava la bottega di un falegname, ma a quella si accedeva dall’altro lato della casa, mentre da lì non si vedeva altro che una porticina stretta e una finestrella, protetta da sbarre di ferro.
La donna infilò la mano in tasca e sentì tra le dita la busta che le era stata consegnata. Ormai quella era casa sua e le chiavi testimoniavano il suo legittimo possesso. L’indomani sarebbe tornata e avrebbe iniziato a darsi da fare, ma anche ora forse poteva entrare…
Salì i gradini che la separavano dal portoncino d’ingresso, aprì la busta, poi esitò. Era stata recentemente nell’appartamento, in occasione del funerale; ma quel giorno, anche se triste, non si sentiva a disagio, c’era gente che andava e veniva, parenti, conoscenti, il giovane parroco che avrebbe accompagnato zia Olimpia nell’ultimo viaggio, e naturalmente Ascanio e Roberto. In quel momento, invece, mentre sostava da sola sul ballatoio, il luogo le sembrava ostile e avvertiva una spiacevole sensazione, come se si preparasse a profanare uno spazio proibito.
Istintivamente si guardò intorno. In strada stava passando un ragazzo, che aveva già notato poco prima camminare nella direzione opposta; andava di fretta e presto scomparve. Gli altri pochi passanti non sembravano interessati alla donna che sostava in cima alla scala, incerta sul da farsi. Da una finestra della casa di fronte, però, due occhi indagatori la scrutavano, con la complicità di una tendina scostata. Come meravigliarsi? Era un’abitudine delle donne del posto, non c’era nulla d’inaspettato o maligno in quella curiosità, tuttavia Emilia avvertì una fitta di fastidio che la punse così forte da farle meccanicamente afferrare la chiave, infilarla dritta nella toppa, girare per due, tre mandate e finalmente spalancare la porta.
Era fatta. Ora bisognava entrare, e si costrinse a farlo, contenta di sottrarsi a quell’esame non richiesto, a quella persona misteriosa e prevedibile allo stesso tempo, a quello sguardo che, chissà, aveva forse accompagnato ogni entrata, ogni uscita della zia, per chissà quanti anni.
Già, per quanto tempo Olimpia Fontana aveva abitato lì? Non ricordava che fosse mai stata altrove ma, a dire il vero, non si era data la pena di sapere molto su di lei.
CAPITOLO 2
Oggi
L’ingresso era ampio e dava direttamente sul corridoio. La luce era stata staccata ma Emilia trovò subito il quadro elettrico e premette l’interruttore, poi appoggiò la borsetta su una sedia e si mosse lentamente attraverso le stanze, passandole in rassegna.
La casa era in ordine. Qualcuno si era preoccupato di rimettere a posto, aveva portato in cucina e lavato i bicchieri sporchi, sistemato le sedie, chiuso per bene le finestre. Forse era stata proprio la dirimpettaia, la comare impicciona che aveva osservato il suo imbarazzo di fronte alla porta chiusa. Chiunque fosse – ma Emilia era certa che si trattasse di una donna – aveva anche provveduto a svuotare il frigorifero e staccare la spina, lasciandolo semiaperto. Un lavoro ben fatto.
Le stanze erano tranquille e silenziose e, nonostante al momento del decesso la zia avesse circa ottant’anni, non avevano un’aria triste, anzi erano ravvivate da particolari moderni e colorati, anche se per la maggior parte mobili e arredi erano datati, alcuni veri e propri cimeli.
Quando fu nel soggiorno, un oggetto attirò la sua attenzione: sul ripiano di un’angoliera, si trovava una putiche di vimini intrecciati a mano, scura, di forma ovoidale. Il coperchio era dello stesso materiale e al centro aveva un piccolo pomolo a forma di pigna. Sollevò delicatamente l’oggetto mentre i ricordi le arrivavano tutti insieme: tanti anni prima, una delle rare volte che era salita dalla zia, forse accompagnando sua madre, Olimpia le aveva offerto una caramella. Buonissima. Lei ne era stata così felice! Aprì