La donna di cenere
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Anteprima del libro
La donna di cenere - Marzia Musneci
Enrico Luceri – Marzia Musneci
La donna di cenere
Prima Edizione Ebook 2020 © Damster Edizioni, Modena
ISBN: 9788868104153
Damster Edizioni è un marchio editoriale
Edizioni del Loggione S.r.l.
Via Piave, 60 - 41121 Modena
http://www.damster.it e-mail: damster@damster.it
Negozio on line www.librisumisura.it
Enrico Luceri – Marzia Musneci
LA DONNA DI CENERE
Romanzo
INDICE
Capitolo 1. Sempre vacanza
Capitolo 2. Il vento
Capitolo 3. Sassi nello stagno
Capitolo 4. Storie di paese
Capitolo 5. Barbecue
Capitolo 6. Dies irae, dies illa
Capitolo 7. La donna di cenere
Capitolo 8. Perché sei tornata?
Capitolo 9. Tutti i muri hanno una breccia
Capitolo 10. Se guardi l’abisso
Capitolo 11. Il bene e il male
Capitolo 12. Tutto daccapo
Capitolo 13. Ci sei?
Capitolo 14. Sedici e dodici
Capitolo 15. In fondo al lago
Capitolo 16. Demi-sec Mercier
Capitolo 17. Più niente
Capitolo 18. Tabulati telefonici
Epilogo
GLI AUTORI
Coloro che sognano di giorno sanno molte cose
che sfuggono a chi sogna soltanto di notte
(Edgar Allan Poe)
Intorno al lago tutto si muoveva. Gente in corsa, in marcia, in passeggiata di salute oppure in bici, pattini o skateboard. Anziani col treppiede, cani e bambini. Un’area recintata per lavori in corso deturpava il paesaggio e costringeva a deviare passi e pedalate, ma nessuno sembrava aversene a male.
Sull’acqua canoe singole, doppie, un dragon boat, vele lontane.
Tutti si muovevano, tranne uno.
Nascosto sotto un salice, era l’unico a volgere le spalle al lago. Abbracciava con lo sguardo lo sperone di rocce e boscaglia che saliva fino al paese, dominato dalla cupola del duomo.
Strinse il campo: l’erta, le tre villette simili ma non uguali, collegate da un vialetto di servizio delimitato da una ringhiera bianca.
Strinse ancora. La casa al centro.
La ragazza appoggiata alla ringhiera appena sopra la circumlacuale. I capelli castani raccolti in una coda, gli occhi persi sull’acqua.
L’uomo sollevò il cellulare e scattò una foto. Due. Tre.
Capitolo 1. Sempre vacanza
(Sabato, 19 settembre)
– Questo dove lo metto?
La domanda di Giulio distolse Silvia dalla contemplazione del panorama.
– ‘Questo’ ha un numero?
– Nove.
La ragazza estrasse un foglio ripiegato dalla tasca della salopette e lo consultò.
– Libreria.
– E il quindici? – ansimò Paolo arrancando sugli ultimi gradini che salivano dalla strada alle case.
– Che sfiga, dottore. Il quindici va al piano di sopra, stanza da letto.
Paolo mollò il carico asciugandosi il sudore con l’avambraccio.
– Ma tu un trasloco normale no, eh? Un bel condominio con l’ascensore, per esempio.
Silvia sollevò lo scatolone, che non era tanto pesante.
– Bacerei ogni gradino di quella rampa. A sentire l’agenzia, è per merito suo che mi posso permettere una villa sul lago. Tutte quelle scale, e all’aperto, abbassano il prezzo.
– Dov’è l’acqua? Finisco disidratato, qui sembra ancora Ferragosto.
– Chiedi a Stefania, ce ne devono essere due casse.
Prima di entrare in casa, Silvia si voltò verso il lago. Non riusciva a smettere di guardarlo. Il cielo era limpido, con qualche nuvola bianca che sembrava messa lì per decorazione. Le due spiagge erano affollate, qualcuno sguazzava in acqua. Ripensò al panorama che aveva avuto davanti alle finestre per trent’anni: cemento, panni stesi e padelloni delle antenne satellitari. Sorrise.
Il salone e la cucina a vista, al piano terra, erano quasi a posto. Per fortuna, l’agenzia immobiliare si era occupata di portare via i vecchi mobili Biedermeier, di fare una pulizia di sgrosso e riallacciare le vecchie utenze.
Stefania svuotava gli scatoloni di libri e li sistemava negli scaffali, Sandra era in contemplazione dei tegami di rame appesi alle pareti in cucina.
– Non ci fossi stata io, avresti dato via questa meraviglia – disse a Silvia mentre carezzava un pensile.
– Se amasse me come ama ‘ste padelle vecchie – sospirò Giulio schioccandole un bacio sui capelli biondi.
Silvia rise. Sandra, architetto d’interni, era una maniaca del vintage. L’aveva costretta a tenere una chaise longue rosa antico e una vetrinetta, oltre alla cucina. Aveva sistemato i suoi vecchi mobili in modo tale che non sembravano più gli stessi, e sulla posizione dei punti luce non aveva accettato obiezioni. Silvia non era convinta, all’inizio. Voleva tutto nuovo, per la vita nuova. Un inizio da zero, niente zavorre, né proprie, né di nessun altro. Ma doveva ammettere che aveva risparmiato e il risultato non era male.
– Noce italiano. Solo un pazzo darebbe via una cucina in noce italiano – borbottava Sandra. – I proprietari non hanno tentato di caricartela sul prezzo?
– E chi li ha visti, i proprietari? Vivono all’estero. Hanno litigato per vent’anni sulla destinazione di questa casa e sulla spartizione delle quote. Una volta conclusa la causa, hanno delegato tutto all’agenzia, anche gli atti di compravendita.
– Be’, sei fortunata. Io te l’avrei fatta pagare a parte, e salata.
– Perché ha ragione Giulio, tu hai cuore solo per le anticaglie – intervenne Stefania cingendo Silvia alla vita. – Dai, vieni a vedere se i libri vanno bene così.
Silvia la seguì, mentre Paolo entrava con un altro scatolone, si buttava sulla bottiglia dell’acqua e si accasciava su una sedia.
I libri erano sistemati benissimo. I testi di studio, i vecchi classici di famiglia e la sfilza di bestseller nuovi di zecca, di cui aveva fatto incetta per le serate d’inverno, sullo scaffale più a portata di mano.
– Perfetti.
– Come va? – le bisbigliò Stefania.
Silvia guardò l’amica. Quella con cui non aveva smesso di parlare mai, dai tempi delle elementari. Stefania la conosceva meglio di quanto lei conoscesse se stessa, ne era sicura.
– Bene, come vuoi che vada?
– Un bel salto, dal casino di Roma a un posto così isolato.
– Vuoi dire che preferisci i palazzoni di viale Marconi a quel sogno là fuori? Io ancora mi do i pizzicotti.
– Sai quello che voglio dire – rispose Stefania fissandola negli occhi.
Sì, lo so. Ma non ci voglio pensare. Non adesso.
– Tranquilla, è tutto ok. Ho una casa nuova in un posto meraviglioso, nella zona c’è una palestra ogni cento passi come a Roma, così ho già trovato lavoro e altro ne troverò. Ho quattro amici che potranno venire a trovarmi anche ogni giorno e un mutuo sostenibile, e…
– E un pavimento di cotto scheggiato da incerare – la prese in giro Stefania.
– Sandra ha ragione. "Lega benissimo con la chaise longue rosa antico e le pentole di rame" – scimmiottò.
– Gli infissi da cambiare, e…
– Oh, piantala. In questa casa non ha abitato nessuno per vent’anni, e la ditta che ha provveduto allo sgrosso si è limitata al minimo indispensabile, visto quello che l’ho pagata. Certo che c’è da lavorare. Il più è fatto, al resto penserò con calma. Ce la farò.
– Qualcuno si dia una martellata su un dito, per favore. O il dottore, qui, non avrà niente da fare – gridò Giulio ai quattro venti.
– ‘Fanculo – rispose Paolo. – Fatti quarantott’ore filate di Pronto Soccorso, poi mi racconti.
Stefania scagliò uno straccio sporco addosso a Giulio e abbracciò Paolo, Sandra svuotava i pensili con squittii di gioia man mano che scovava vecchi passini, frullini e girafritte.
Continuarono a scaricare e sistemare per tutta la mattina, scherzando e facendo progetti sulle sere d’inverno davanti al camino e sui barbecue in giardino d’estate.
– Tutto a carico della signora del castello – precisava Giulio ogni cinque minuti.
Silvia rideva spesso. Non le capitava da un pezzo.
Sì, pensava, ho fatto la cosa giusta.
Fu lei a proporre il pranzo al sacco, verso mezzogiorno. La cucina funzionava, ma le stoviglie erano da lavare e non c’erano spugne e detersivi.
Svuotò sul tavolino portaoggetti le cianfrusaglie dello zaino e s’incamminò verso il paese.
Trecento metri al centro storico. Quasi in verticale.
Pendenza del quindici per cento. Forse di più, calcolò Silvia. Glutei di marmo garantiti.
Uscendo, aveva dato un’occhiata alle case vicine. Quella alla sua destra aveva le imposte serrate; dall’altra, a sinistra, era uscita una donna alta e magra, coi capelli neri a caschetto, che si era messa a spolverare un tavolino sulla terrazza. Silvia aveva accennato un saluto, ma il gesto era morto sul nascere. La tizia non l’aveva vista, forse. O forse non amava le novità.
Lei si era stretta nelle spalle. Il posto era isolato, Stefania aveva ragione. Chi lo aveva scelto doveva tenere in gran conto pace e riservatezza. Avrebbe avuto tempo per conoscere i vicini.
Raggiunse la via che attraversava il centro del paese. Zona pedonale, negozi con la merce esposta come in una galleria d’arte all’aperto, vicoli, fiori. Ai tavolini dei bar, alcuni turisti in ciabatte e bermuda portavano fin lassù l’aria balneare del lago.
Entrò con un sorriso nel primo minimarket che incontrò, pregustando la confidenza che si sarebbe instaurata con i gestori del negozio più vicino a casa.
Un paio di donne in fila davanti al bancone le rivolsero un’occhiata distratta, mentre prendeva pasta, olio, sale e una confezione di mele dagli scaffali. La signora di mezza età alla cassa la guardò come se fosse trasparente e l’uomo al banco le servì pane, affettati e formaggi senza alzare gli occhi su di lei fino a che non le porse lo scontrino.
A lui verrà la gobba, e lei ha già lo schiacciamento L4-L5, si vendicò mentalmente.
Cercò un negozio di articoli per la casa, lo trovò in un vicolo da cui, sul fondo, si vedeva il lago. Acquistò spugne e detersivi nella stessa atmosfera indifferente.
Tornò verso casa, soffocando una punta di delusione.
Che ti aspettavi, l’accoglienza con la banda?, si rimproverò. Se molli una vita che non ti sta più bene, non è che te ne servano subito un’altra perfetta. C’è da lavorare.
Affrontò la discesa verso casa a passo vivace. I suoi amici l’aspettavano, e lei aveva tempo per costruirsi la serenità.
Vide che le imposte della villa a destra ora erano aperte. Una tendina calò di colpo, come se qualcuno si fosse appena allontanato dalla finestra.
Tutto il tempo, sì. We have all the time in the world.
Scacciò dalla mente il vecchio pezzo di Armstrong con un gesto di stizza.
Sandra le corse incontro sulla porta, le guance rosse di eccitazione.
– Guarda! Guarda cosa ho trovato in fondo a un pensile!
Un telefono di bachelite nera, con i numeri a disco. Lucido, senza un grano di polvere, Sandra doveva averlo già ripulito. A Silvia ricordò un grosso scarafaggio.
Lo zaino sembrò pesarle il doppio sulle spalle. Una delle nuvole messe lì per bellezza passò davanti al sole, insinuando una lama di freddo nella giornata estiva. Silvia rabbrividì.
Piantala, è solo l’escursione termica.
– Ti avevo detto di buttare tutto il ciarpame – le disse.
– Buttare? Sei impazzita? Me lo prendo io, il ciarpame.
– Fa’ un po’ come ti pare, basta che me lo togli di torno.
Seguì a passo lento Sandra, che stava infilando la spina del telefono nella presa.
– Paolo ha già controllato, funziona!
Silvia voleva dire a tutti di staccare l’apparecchio, che non le serviva. Che aveva il cellulare, che si portassero pure via quell’aggeggio funereo.
Ma non riuscì a mortificare l’entusiasmo di Sandra, né a deludere Stefania. Tanto, il vecchio attrezzo non avrebbe mai squillato.
– Ok, hai ragione. Accanto alla vetrinetta della trisnonna sta benissimo – scherzò, scaricando la spesa sul tavolo della cucina.
Mangiarono di buon appetito.
– Quando attacchi a lavorare? – le chiese Paolo.
– Le palestre andranno a regime la prima settimana di ottobre, giorno da definire. Ho tutto il tempo per sistemarmi.
– Di stare in vacanza, vuoi dire – malignò Giulio mandando giù l’ultimo boccone del terzo panino. – Qui sembra sempre vacanza. La spiaggia, i ristoranti, più avanti c’è pure l’entrata al bosco, mi pare.
– Seh. Voglio vedere d’inverno – lo interruppe Paolo. – Col freddo, il buio alle quattro, il nebbione e magari il vento che ulula.
– Sempre positivo tu, eh? – lo rimbrottò Stefania.
– Deve sapere quello che l’aspetta. Te l’hanno fatto firmare il consenso informato? Sembrerà la casa della famiglia Addams, te lo dico io.
– Ti sembro Morticia? – chiese Silvia.
– No. Peccato. Un po’ pallida, ma una gran gnocca, Morticia.
La battuta fruttò a Giulio un calcione sulla caviglia destra da Sandra e uno sulla sinistra da Silvia.
– Ahio. Se mi azzoppate chi lavora, qui?
– Va’ al bar qui di fronte a prendere cinque caffè, lavoratore. Poi riattacchiamo.
Silvia ridacchiò. Aveva sempre visto Stefania, una miniatura di donna di capello rosso e occhi verdi, con la frusta da domatore in mano.
In attesa di Giulio, Silvia si crogiolò nel calore che le trasmettevano i suoi amici. Stefania la conosceva da bambina, gli altri erano eredità del liceo. Avevano preso strade diverse, ma non si erano mai lasciati. Quei quattro erano lo zoccolo duro su cui stava ricostruendo la vita. Di tutti loro, quella che stava meglio era proprio lei. Con l’attenzione spasmodica al corpo che imperava da trent’anni, un’istruttrice ISEF trovava più lavoro di un architetto, un medico, un’informatica e uno chef. Tutti, a parte Sandra che era ricca di famiglia, si dibattevano ancora fra le spire del precariato.
Sospirò e raggiunse Stefania alla finestra della cucina.
– Anche questa te l’ha fatta tenere Sandra? – domandò l’amica, spostando al centro del davanzale un vaso con una pianta mummificata.
Silvia sbuffò. – Lascia perdere. Al giardino e alle piante penserò poi.
– Ecco, qui al centro. Così la vedi, ti viene la depressione e ti ricordi di buttarla.
– Se non ci fossi tu – rispose Silvia, lanciandole un bacio dalla punta del dito medio mentre andava ad aiutare Giulio con i caffè.
Fu in quel momento che il telefono squillò. Un trillo metallico, che qualcuno di loro aveva sentito, forse, solo da bambino a casa dei nonni.
Silvia gelò, fissando l’apparecchio di bachelite.
Pensieri che aveva faticato a bandire giravano in tondo, ossessivi, fuori controllo. La solita sensazione di esofago contratto, di fame d’aria, di cuore in controtempo.
Percepì appena i movimenti di Sandra che cercava la propria borsa, la trovava, rispondeva al cellulare interrompendo lo squillo, usciva per parlare con chissà chi.
La tensione cadde, lasciandola svuotata.
Maledizione. Accidenti a Sandra e alle suonerie vintage. E accidenti a me.
– Tutto bene?
Stefania le era arrivata alle spalle. Silvia era sicura che non le fosse sfuggito niente.
– Sì. Sì, tutto bene.
– Ci vorrà tempo.
– Lo so. Forza, che c’è da portare via gli scatoloni e da sistemare il piano di sopra. Che vi pago a fare?
Ma la battuta risultò fiacca.
Lavorarono tutto il pomeriggio. Alle sei e mezza erano stanchi, sudati, impolverati e soddisfatti. C’era ancora molto da sistemare, ma la casa era vivibile.
– Voglio una doccia – disse Giulio.
– Andate, prima che Sandra si metta a incerare il cotto esagono per esagono – rise Silvia.
Li accompagnò fuori, sul vialetto.
Nella casa a destra, una sagoma immobile alla finestra. La luce del sole calante si rifletteva su un paio di occhiali. Silvia si sentì puntata da due spade laser.
– Brrr – le sfuggì.
– Che c’è? – chiese Stefania.
– Il mio vicino. No, non voltarti subito.
– Che ha?
– Niente. Fa luce dagli occhi. Mi mette i brividi.
Stefania si girò verso la casa accanto. La finestra era vuota.
– Lì non c’è nessuno.
Silvia si voltò.
– Be’, qualcuno c’era.
– Stai bene? Guarda che posso rimanere, stanotte. Domani non lavoro.
Silvia sospirò.
– Sto bene, davvero. Sono felice e non vedo l’ora di godermi la prima notte a casa Addams.
Restò a guardare gli amici che scomparivano per le scale. Li vide salire in macchina. Seguì l’auto con lo sguardo nel crepuscolo, finché i fanalini non svanirono a sinistra, dietro il tornante stretto e in salita che sembrava troncare di netto la circumlacuale bordata dai pini mediterranei.
L’aria era diventata fresca, i bagnanti se n’erano andati e la quiete aveva invaso il cratere. Le luci dei paesi intorno al lago si accesero nell’aria violacea. Era sola. Lei e tutta quella bellezza.
Inghiottì un groppo in gola.
Si svegliò di soprassalto. La sveglia diceva che erano le due e quaranta. Stanca com’era, non aveva cenato ed era crollata in un sonno profondo dopo la doccia.
Era un rumore che l’aveva destata?
Silvia sedette sul letto, in ascolto.
Il silenzio premeva sulle orecchie come se fosse diventato solido.
Accese l’abat-jour, si alzò, andò scalza alla finestra.
Gli alberi erano immobili, il lago fermo, la strada deserta. Il mondo sembrava sospeso in una bolla di foschia leggera.
Forse non era stato un rumore a svegliarla, pensò, ma l’assenza di ogni suono. Il silenzio li inghiottiva tutti.
Era abituata al rumore continuo del traffico, che a Roma non si fermava neanche di notte. Quel tappeto sonoro aveva fatto parte di lei per trent’anni.
Scosse la testa.
Mi manca il traffico. Cose da pazzi.
Si riaddormentò, rannicchiata nella quiete spessa come in un abbraccio.
Capitolo 2. Il vento
(Domenica, 20 settembre)
Silvia aprì le imposte su un’altra bella giornata. Meno limpida del giorno prima, con qualche nuvola grigia oltre il ciglio del cratere. Ma, a quanto pareva, questo non scoraggiava i bagnanti.
Mandò giù una mela, un paio di caffè e iniziò a lavorare. Uno sguardo al piano di sopra, dove aveva ammucchiato in una stanza gli scatoloni con le mille cose che si accumulano in trent’anni di vita, prima di trasformarla in una camera per gli ospiti.
Aggrottò la fronte. No, meglio le stoviglie. Quel giorno aveva intenzione di cucinare il primo piatto di pasta nella nuova casa.
Si fermò pensierosa davanti al camino.
E chi l’ha mai avuto, un camino? Come si pulisce? Dove si compra la legna?
Cominciò a lavare il cassetto della cenere e a spazzare il focolare intorno alla griglia.
Avrebbe chiesto ai vicini, quando e se si fossero scongelati.
Quella mattina aveva visto l’Uomo Laser che usciva, forse per una passeggiata, forse