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La Musica e i suoi nemici: Dai talent show alla trap - Come l’industria discografica crea il conformismo di massa
La Musica e i suoi nemici: Dai talent show alla trap - Come l’industria discografica crea il conformismo di massa
La Musica e i suoi nemici: Dai talent show alla trap - Come l’industria discografica crea il conformismo di massa
E-book244 pagine3 ore

La Musica e i suoi nemici: Dai talent show alla trap - Come l’industria discografica crea il conformismo di massa

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“La Musica e i suoi nemici” analizza il dietro le quinte di un Sistema che utilizza la musica come medium privilegiato per imporre la propria ideologia

Affermare che la musica di oggi rappresenta uno scadimento rispetto a quella del passato, anche prossimo, è oramai quasi una ovvietà.

Ma come è stata possibile questa involuzione e, soprattutto, per quale motivo è stata intrapresa questa strada?

La musica: uno strumento dei poteri forti?

In La Musica i e suoi nemici, Cresti svela come dietro a questa banalizzazione e a questo abbassamento vi sia la volontà da parte del Sistema di utilizzare la musica come medium privilegiato per imporre in varia forma la propria ideologia.

Svelare questo trucco significa non solo ridare alla musica la sua giusta centralità, ma anche riconoscere pienamente come opera la moderna propaganda neoliberista.

Un viaggio puntuale ed appassionato all’interno della industria musicale odierna, rivelandone tutto il potenziale nichilistico e tracciando contemporaneamente itinerari di ascolto alternativi, per tornare a cogliere di nuovo quelle dimensioni politiche e spirituali insite nel mondo del suono.

Con questo libro scoprirai:
  • i vari procedimenti tecnici che rendono la musica di oggi asettica e disumanizzata
  • come i Talent Show rappresentino un tentativo di eliminare l’espressione personale ed emotiva da parte degli artisti
  • perché la musica Trap promuove i valori del Sistema spacciandoli per “trasgressione”
E ancora:
  • come la musica “indipendente” sia spesso figlia di operazioni di marketing
  • perché i concerti oggi non rappresentino più una occasione di vera socialità
  • l’importanza di coltivare un ascolto attivo.
… e molto altro ancora.
LinguaItaliano
EditoreOne Books
Data di uscita19 gen 2022
ISBN9788833802633
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    Anteprima del libro

    La Musica e i suoi nemici - Antonello Cresti

    Ringraziamenti

    L’autore desidera ringraziare Christian Dalenz, Massimo De Nittis e Giuseppe Barone per i suggerimenti relativi al capitolo sull’indie italiano.

    Per il capitolo sulla trap occorre segnalare la essenziale e preziosissima collaborazione documentativa di Leonardo Sultato.

    Un grazie particolare a Enrica Perucchietti per il supporto e l’incoraggiamento in ogni fase del lavoro relativo a questo libro.

    Prefazione

    Preludio #1

    Stiamo parlando di musica o di fusilli?

    Il problema della musica e di conseguenza dell’industria musicale oggi, è che da decenni nelle sale di comando ci sono gli asini. È come se a un certo punto a scuola avessimo messo a insegnare gli ultimi della classe: è chiaro che dopo qualche generazione il risultato è che nessuno sa più cosa sia un buon libro e, se gli allievi si trovassero davanti un testo di Manzoni, non saprebbero né decifrarlo né capirne il valore letterario oggettivo, al di là dei gusti, al di là dell’opinione personale.

    Avendo cominciato la mia carriera oltre trent’anni fa, io questi asini li ho visti arrivare e moltiplicarsi... Un fattorino di una casa discografica nel 1989 mi confessava candidamente di aver mandato il suo curriculum alla Barilla, all’Enel e a quella casa discografica. Per lui un posto valeva l’altro, non c’era un grammo di passione per la musica nella sua motivazione e neanche la volontà di farsi una cultura musicale. Ho scoperto poi che questo signore dopo qualche anno è diventato direttore della promozione e poi direttore artistico della major, cioè la persona che sceglie gli artisti e che discute dei contenuti e delle forme dei dischi. Poteva finire a vendere fusilli e invece per caso è diventato una voce di potere su degli artisti a cui non dovrebbe neanche permettersi di suonare il citofono. Come può uno così poco interessato alla musica diventare direttore artistico di una casa discografica? Semplice! Nel momento il cui il livello d’incompetenza è generalizzato, nessuno si accorge più di chi ci capisce qualcosa e chi no. Quelli che ci capiscono qualcosa sono tacciati di essere dei secchioni noiosi o, come si dice oggi, dei rosiconi.

    Alla fine la qualità della musica è l’ultima delle preoccupazioni di una casa discografica perché già dagli anni Ottanta la musica con una espressione artistica stava diventando solo un prodotto commerciale. I dischi si dovevano vendere, poco importa che fossero buoni, fatti bene, originali. Quando arrivavo io con i miei brani inediti, mi guardavano strano. Alla casa discografica piacevano, ma continuavano a dirmi Ma come si fa a farci un disco?... Io non capivo, mi dicevo È semplice, si va in studio e si registra, dov’è il problema?. Mi rispondevano che non ero commerciale. Anche lì non capivo... Quando io suonavo dal vivo la gente applaudiva, il locale si riempiva, non era questo essere commerciale?

    L’altra osservazione ricorrente insopportabile era che l’ironia non vende e soprattutto i miei primi dischi ne erano pervasi, di ironia. Alla fine di fronte all’opportunità di incidere il mio primo album, accettai di seguire le indicazioni della casa discografica. Mi misero nelle mani di un cervellone che per prima cosa decise di togliere tutta l’ironia delle mie canzoni. Sei genovese, i genovesi non fanno ridere. Certo, i genovesi devono per forza trapanarti le palle e farti venire la depressione...

    Mi portarono in uno studio sperduto dove persi contatto con il mondo e sotto ipnosi mi ritrovai a stravolgere le mie canzoni, mi stavo trasformando in Johnny Dorelli! Altra botta: Tu da adesso non suonerai più il pianoforte perché secondo loro non andavo a tempo con il clic del metronomo e quindi no, non andava bene. Io sentivo i provini nuovi e mi veniva da piangere, la casa discografica invece era entusiasta. Credetemi, erano inascoltabili, cercavo di convincermi che ero in buone mani, ma di fondo mi facevo schifo e anche i miei amici che mi conoscevano da prima erano imbarazzati quando gli facevo ascoltare i provini. Se sono riuscito a incidere Cartoons come lo sentite ora non è certo grazie alla casa discografica che stava facendo tabula rasa di tutto quello che ho di originale, quello che mi caratterizza, quello che fa sì che quando sentite un pezzo mio e magari non lo conoscete vi dite Hey, dev’essere Baccini.

    Perché è vero che quando suono il piano il tempo non è perfettamente calibrato al metronomo, è vero che cambio registro tre volte in una sola canzone, è vero che magari i miei pezzi sono storti, ma sono proprio queste le cose che mi rendono unico, riconoscibile in mezzo agli altri. La casa discografica e il cervellone erano esattamente agli antipodi dal cercare e valorizzare l’espressione e l’originalità artistica.

    Io ho avuto la fortuna che una persona in quel periodo mi sentì suonare e mi portò a Roma di nascosto dove feci sentire i miei brani suonati al piano a qualcuno che aveva modo di farsi valere ai piani alti della casa discografica. Da quel momento ho potuto contare su uno scudo magico tra me e i produttori che avevano l’ordine di lasciarmi fare il disco come volevo io. E come volevo farlo questo disco? Semplicemente andando in studio a registrarlo, punto. La casa discografica tentò di impormi i musicisti, proponendomi i soliti nomi che giravano in quel periodo. Ma io non volevo i soliti nomi. Chiesi un chitarrista e polistrumentista che avevo conosciuto a Genova, un vero mostro di bravura, uno che avevo incontrato quando suonavo nei locali. Mi ostacolarono in ogni modo: proporre uno nuovo sembrava un rischio inaudito. Accettarono di incontrarlo e quando lo videro mi chiamarono da parte e senza neanche averlo sentito suonare mi dissero sottovoce: Hey, ma chi è questo? è brutto!... Ora, io dovevo andare a registrare un disco in studio, mica a fare un défilé di Gucci alla Fashion Week!

    Per fortuna ero testardo, e riuscii ad averla vinta. Alla fine se i miei dischi sono quello che sono, è perché per un allineamento dei pianeti come ne accadono ogni duemila anni sono riuscito a fare a modo mio, senza i soliti arrangiatori che hanno messo le mani su tutti i dischi di quegli anni là, senza i soliti musicisti che hanno registrato in tutti gli album di quell’epoca, senza lasciarmi annientare dalle linee guida di come doveva essere il disco di un cantautore secondo loro. L’unica cosa che volevo io, era fare il mio disco. L’idea che vendesse tanto o poco era secondario per me, ma alla fine i miei primi dischi sono stati anche un enorme successo commerciale. Insomma, la casa discografica avrebbe sabotato anche il guadagno economico che gli ho permesso di fare sulle vendite dei miei dischi, senza parlare dello scempio artistico. Per loro qualcosa di commerciale è fare una merda omogeneizzata, per me fare musica è preservare la propria identità musicale.

    Ho dimostrato che oltretutto quando si ha qualcosa da dire e il talento per dirlo, questa cosa paga. E affanculo gli altri! Il problema è che il pubblico si adegua a tutto e si abitua, anzi, perde l’abitudine alla curiosità, al piacere di scoprire universi musicali originali. E così hanno vinto loro. Io ho avuto la fortuna di fare quello che volevo ed, essendo uno spirito libero, di continuare a fare esattamente quello che voglio, ma l’appiattimento e l’omologazione sono sotto gli occhi e gli orecchi di tutti, non invidio un giovane oggi né tantomeno un giovane con velleità artistiche.

    Ma continuiamo con gli aneddoti, che vale la pena...

    Appuntamento alla casa discografica dal direttore artistico per discutere del nuovo disco (ero già al terzo o al quarto, non ero più un ragazzino). Questo tizio era uno che rideva sempre, non so perché ridesse, forse perché prendeva uno stipendio della Madonna senza sapere fare un cazzo. Appena entrato lui si lamentava sempre di quello che era appena uscito, cosa che mi faceva imbestialire, perché voleva dire che appena fossi uscito io avrebbe detto a chi veniva dopo Che palle Baccini.

    Ero lì per discutere del progetto dell’album nuovo e dopo più di un’ora di chiacchiere, finito l’appuntamento, esco e in ascensore mi rendo conto che mi ha parlato di orologi, di camicie, di locali e neanche un momento si è parlato del mio disco. Per me la musica è una cosa seria, è la mia vita! Non lo reggo chi si pavoneggia di un posto di prestigio senza rendersi conto della fortuna di lavorare nel mondo della musica, senza dare tutto se stesso per fare il più bel disco possibile. Io questi li avrei presi tutti a testate... D’altronde Frank Zappa lo diceva ben prima di me quanto valessero i direttori artistici e i produttori delle case discografiche, ma il disgusto di trovarsi davanti questa gente lo condivido con lui e negli anni è andato sempre peggiorando.

    Gli appuntamenti e i pranzi di lavoro dove si parla di tutto meno che di musica, erano e sono la norma. Al punto che ricordo meglio i rari casi nei quali si è lavorato seriamente con qualcuno invece di dovermi sbattere come un pazzo per limitare i danni e il cazzeggio selvaggio dei cosiddetti addetti ai lavori.

    Un’ultima storia: eravamo negli anni Novanta e stavamo preparando Baccini and Best Friends. Avevo un brano intitolato Portugal che volevamo inserire nel nuovo album: l’idea era di fare un duetto con qualcuno di lingua latina mentre io cantavo in genovese. Mi fanno sentire un cd di un gruppo cubano, io li trovo fortissimi anche se sono completamente sconosciuti. La casa discografica invia loro il mio brano, loro lo sentono e rispondono con un fax entusiasta: sono d’accordo per fare il duetto insieme a me gratis. Oltretutto in quel momento erano in Spagna per altri progetti, quindi bastava che io prendessi un aereo con un nastro e li raggiungessi un giorno in studio per registrare. Praticamente a costo zero la cosa era fatta. A quel punto il direttore artistico comincia a frenare, forse per l’idea di dover organizzare la cosa o semplicemente perché era uno che di musica non capiva proprio una mazza, anzi, dava l’idea di odiarla proprio la musica... Quando si parlava del disco era sempre scocciato come si parlasse di algebra.

    Fatto sta che comincia a dire Ma chi ce lo fa fare, ma chi li conosce, questo progetto non ci porta da nessuna parte, questi quattro vecchi tra un anno sono morti e insomma alla fine manda tutto a monte. L’anno seguente esce un film che si chiama Buena Vista Social Club, i quattro vecchi in questione erano l’omonimo progetto guidato da Compay Segundo. E il loro album fu uno dei più grandi successi planetari del 1996...

    Francesco Baccini

    Francesco Baccini è un cantautore della scuola genovese tra i più eclettici del panorama musicale italiano. Esordisce nel 1989 e da lì a breve incarnerà un particolarissimo caso di fenomeno commerciale non programmato. A suo nome oltre dieci album di inediti, due libri, varie partecipazioni attoriali. Si è esibito in innumerevoli occasioni, toccando persino il territorio cinese. Ha partecipato a Sanremo, nel 1997.

    Prefazione

    Preludio #2

    Musica, musicanti!

    «Musica, musicanti!», dice O’Zappatore, la sceneggiata più famosa del repertorio partenopeo.

    E di Musica, in Italia, se ne fa assai. Ma, come dice la Marescialla nel Rosenkavalier di Richard Strauss, «È nel come che giace l’intera differenza».

    Il come si faccia musica in Italia, è, infatti, a mio parere, disastroso. Forse frutto di un trend mondiale – almeno per quanto concerne la Classica e l’Opera – che è sempre stato basato su grandi personaggi, grandi personalità dal potere attrattivo sul Mercato (Mercato che regna assoluto, ma sempre così è stato, mettiamocelo bene in testa, da quando è stata inventata l’industria discografica e di diffusione musicale mediatica). Personalità che oggi non solo non esistono più: ma se esistono, lo fanno solo grazie a stratagemmi di informazione che poco hanno a che vedere con la loro vera o presunta Arte. Orchestre che suonano tutte uguali, tutte nello stesso modo, standardizzate (parlo di quelle di livello, anche a livello mondiale).

    Per forza: stessi direttori che fanno ospitate come trottole, nessun tempo per creare interpretazioni valide e veramente meditate, nessun tempo parimenti per poter lavorare su un suono orchestrale proprio, singolo e caratteristico (anche perché i tempi dei direttori tiranni e esigenti allo spasmo è finito; oggi regna la democrazia totale in orchestra... Bella cosa ma assai limitativa...). Poco il tempo per lavorare, poco il tempo per esibirsi. Poca la voglia di creare e di lasciare contributi validi e fattivi. Produzioni con una prova e via, parti tagliate (un corno invece dei quattro previsti, un fagotto, forse un flauto, forse forse una delle tre trombe e non rompete le palle che è già anche troppo!), condizioni organizzative pecorecce. E mi limito a parlare di orchestre – spesso in bilico su baratri di buchi di bilancio spaventosi e, quindi, umanamente portate a tirare a campare. Orchestrali pagati poco e male, direttori artistici strapagati e potenti più che mai... – e poi i direttori soprattutto, la categoria al momento più inutile. I Vecchi resistono ancora, grazie a un solido mestiere acquisito in anni buoni, e grazie alla capacità di attrarre ancora certa attenzione di certi pubblici. Morti i grandi Vecchi, sarà il deserto. Karajan, il più grande di tutti, diceva: Morto io? Tutto andrà avanti, come sempre e mentiva sapendo di mentire.

    I tempi sono cambiati: i grandi direttori, i miti del Mercato, quelli che tirano i grandi pubblici, per le cause sopra esposte, non esistono più. Il pubblico voleva costoro: senza di essi, smetterà di andare ai concerti, almeno in certe sedi. L’Italia è da questo punto di vista, paradigmatica. Prendete le grandi istituzioni: quando Chailly, Muti e Mehta non ci saranno più, vedrete che succede... Cantanti lirici: stessa zuppa. Poche voci di rispetto internazionale, spesso note più per scandali che per vero valore. Vecchi immarcescibili, che cantano di tutto e lo cantano pure male insistendo però a farsi pagare milioni, mentre ci son tante belle voci in provincia – e mi riferisco all’Italia soprattutto – in mano a un manipolo di agenzie e agenti sul cui operato non spreco manco una parola tanto schifo mi fanno per come gestiscono questa forza di giovani volonterosi, spesso ridotti a merce di scambio, se non peggio. Sottopagati, con ritardi di due tre anni, e devono pure coprirsi autonomamente le spese... Meno male che ci sono mamma e nonna con la pensione dell’Inps. Ma gli agenti, come i direttori artistici, incassano le provvigioni dai teatri anche subito. Loro ingrassano, i cantanti son sempre più magri, anche fisicamente, disattendendo così l’immagine stereotipata del soprano o del tenore, che per spostarli occorreva una gru industriale.

    La Leggera: i soliti Vecchi che attraggono vecchi del pubblico ai loro concerti. I Vecchi sono famosi, il pubblico dei vecchi ha soldi da spendere. I giovani non hanno centinaia di euro da buttare in concerti: si debbono accontentare di Spotify o di YouTube. I giovani performers? Mamma mia... Tra intonazione e scialbezza di personalità, se ne salvano davvero pochi.

    E chi si salva, o è fighetto, bellino, giovane ambosessi, bella preda per il mercato degli affamati sia ascoltatori che agenti/mezzani/ intermediari, o è figlio a mamma nota: ce ne son diversi con aureo cognome che insistono a portare a casa la pagnotta grazie al cognome del babbo o mamma morta, figuriamoci se per virtù preclare... Teatri al collasso, in Italia. Dove si va al Teatro per fare la parata – in provincia almeno – della bella società. Sul palco ci può essere un branco di lemuri che saltano obliquamente e va bene lo stesso! Il pubblico assiste alle sfilate di notabilato provinciale, vestitini delle prime comunioni, gioielli della zia ricca, gente che dorme nei palchetti, Uh c’è l’avvocato, Uh c’è il presidente. E di ciò che accade, della qualità sul palco, dell’Arte? Ma che ci frega ma che c’importa. Anche perché per giudicare bisogna sapere. O almeno bisogna essere sensibili da percepire. All’estero invece fioriscono teatri, orchestre, compagnie stabili di cantanti, concert-halls e grande attività. Ma l’estero è l’estero e, almeno in questo, si distingue ben da noi italiani e ci dà dei sani punti.

    Sui registi e gli allestimenti non dico niente: ho mangiato da poco e rischio la crisi emetica.

    La Musica funziona solo in certe limitatissime realtà, in Italia. Sono fiero di rappresentarne una che produce una quantità stratosferica di concerti l’anno, senza soldi pubblici, con professionisti di valore, ben pagati e regolarmente... Solo che il nostro pubblico è estero... Eh sì, perché dall’estero si viene in Italia non per sentire i Rolling Stones a Roma o Céline Dion a Lucca, ma per sentire Puccini, Verdi, Rossini, l’Opera Italiana e Vivaldi, tutto fatto col marchio di fabbrica originale. Esattamente come torme di mammalucchi vanno a Salisburgo a sentire il Mozart doc. Ebbene, chi ha deciso di concentrarsi sulla nostra Musica e lo fa per un mercato non italiano (cosa che prevede alcune piccole

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