La Grande Guerra dei Rosolinesi
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Anteprima del libro
La Grande Guerra dei Rosolinesi - Vittorio Belfiore
Dalla primavera all’estate, in quel tempo impercettibile in cui la nostra terra compie la sua metamorfosi lasciando che un’aridità diffusa prenda il posto di verdi campi nei quali i rossi papaveri regnano sovrani tra le spighe di grano che si offrono all’affilata lama della falce maneggiata secondo un rituale sacro e antico da uomini temprati dalla fatica e dal sudore, un eco lontano di guerra si faceva sempre più roboante fra l’assordante silenzio della campagna rosolinese, in quel cuspide della Sicilia sud-orientale ai piedi dei monti Iblei.
La speranza comune era che la guerra si potesse evitare. I contadini manifestavano la loro estraneità all’idea della guerra portatrice di sventure, semmai erano inclini alla cultura cattolica professata nelle parrocchie di appartenenza.
Il pensiero e le azioni del pontefice Benedetto XV, ammantati dal principio della non violenza, rivelavano, invece, un atteggiamento neutrale, e quindi politicamente conservatore e filo asburgico.
La popolazione rosolinese, in maggior parte analfabeta ma di cervello fine, era silenziosa e diffidente ai discorsi interventisti degli intellettuali che vedevano nella guerra il compimento dell’unità nazionale.
L’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Triplice Intesa giunge al termine di manovre di politica estera e interna complesse, se non addirittura avventurose
.
Il governo italiano, inizialmente dichiaratosi neutrale, nei primi mesi del 1915 richiede agli austriaci la restituzione dei territori italiani ancora loro soggetti.
I contatti diplomatici tra Roma e Vienna non ottengono i risultati sperati.
La trattativa si potrebbe concretizzare con la cessione del Trentino all’Italia e l’autonomia di Trieste. Il re Vittorio Emanuele III ribadisce l’urgenza che l’Austria faccia nell’immediato le concessioni richieste. Anche Benedetto XV, protendendo per l’impero asburgico, quale ultima grande potenza cattolica, riconosce che la guerra può essere evitata soltanto con una pronta cessione del Trentino.
Il papa stesso si adopera incaricando il cardinale Piffl, arcivescovo di Vienna, di parlare personalmente con l’imperatore Francesco Giuseppe. Ma quando il cardinale espone all’imperatore i termini suggeriti per la trattativa, è da questi messo bruscamente alla porta. Perciò, il governo Salandra intraprende trattative segrete con Francia, Inghilterra e Russia, e il 26 aprile 1915 firma il patto di Londra con cui si impegna a scendere in guerra a fianco delle potenze dell’Intesa entro un mese, in cambio di Trento e Trieste, il Tirolo meridionale, la maggior parte della Dalmazia, l’Albania, il Dodecaneso, di vaghe promesse coloniali e di un prestito la cui modesta entità si spiegava con la certezza di una guerra di breve durata.
Il parlamento italiano, in maggioranza neutralista e tenuto all’oscuro di tutto, inizialmente avrebbe voluto togliere la fiducia al governo, ma poi condizionato dalla minaccia di abdicazione del re e intimorito dalle violente dimostrazioni interventiste svoltesi in tutta la nazione, il 20 e 21 maggio, si rassegna ad accordare poteri straordinari al governo italiano in vista della guerra, ritenuta ormai inevitabile.
Renitente anche al lungo periodo di leva: «megghiu porcu cà surdatu», così si diceva nelle campagne, il popolo siciliano si piega mansueto obbedendo alla mobilitazione rossa di Cadorna, che era già entrata in vigore dal 1° marzo 1915.
La precettazione prevedeva richiami alle armi di militari in congedo effettuati non mediante pubblici bandi, ma attraverso l’invio di una cartolina personale di color rosso. Dunque, l’Italia si apprestava all’ultimo irredentismo con l’intenzione di completare etnicamente e territorialmente il processo di unità nazionale.
Il 23 maggio il governo italiano guidato da Salandra, supportato dal voto del parlamento, a nome del re comunica all’ambasciatore d’Austria a Roma che dal successivo giorno 24 l’Italia si sarebbe considerata in guerra con l’Austria-Ungheria. La nuova nazione italiana, nata da nemmeno cinquant’anni, azzardava una scommessa sulla pelle di oltre 4 milioni di italiani spediti al fronte. Neanche il re Vittorio Emanuele III credeva che questa guerra sarebbe stata breve e facilmente vittoriosa, come gli suggeriva il primo anno di scontri sui campi di battaglia europei. Alle ore 4 del 24 maggio, con il colpo di cannone sparato dal forte Verena ha inizio il primo conflitto degli italiani.
Il primo sbalzo offensivo dell’esercito italiano si estende su tutto il fronte di guerra dell’Isonzo. Oltrepassato il fiume, il IV corpo d’armata del generale Robilant raggiunge la linea Stretta di Saga-dorsale monte Nero-monte Jeza, mentre il II corpo d’armata sotto la guida di Reisoli si porta sulla sponda destra dell’Isonzo e, oltrepassato il fiume, raggiunge la quota 383 di Plava.
I soldati del generale Ruelle guadagnano le pendici del Sabotino e del Podgora mentre quelli del generale Cigliana prendono campo sulla sponda destra dell’Isonzo. Il VII corpo d’armata del generale Tettoni si dispone sul canale Dottori e a Monfalcone. Il 16 giugno gli alpini conquistano la dorsale del monte Nero.
L’avanzata italiana spazza via le deboli postazioni avanzate nemiche, mettendo a nudo la linea difensiva asburgica, una barriera più che solida, eretta a resistere a ogni sfondamento. Il generale Cadorna ordina, allora, una serie di operazioni sul fronte Giulia che prendono il nome di battaglie dell’Isonzo
.
La prima battaglia ha inizio il 23 giugno. Gli italiani attaccano le teste di ponte di Tolmino e Gorizia e il ciglione del Carso, riuscendo a portare le linee a stretto contatto con la 5ª armata comandata da Boroevic.
La brigata Napoli, che riuniva i battaglioni del 75° e 76° reggimento, all’inizio delle ostilità, si trova nei pressi di Cividale, alle dipendenze della 24a divisione.
Il 12 giugno la Napoli viene fatta schierare sulle alture della riva destra dell’Isonzo, a nord-ovest del monte Sabotino, dove il 30 giugno trova la morte per le ferite riportate in combattimento il soldato del 75° reggimento fanteria Gregorio Candido, il primo dei rosolinesi a morire, a cui ne seguiranno purtroppo tanti altri.
L’azione sul Sabotino è tentata dalla 4a divisione nei giorni 29 e 30, ma, nonostante i ripetuti attacchi, le linee di difesa predisposte dal nemico sui fianchi del monte risultano invalicabili.
La brigata Pistoia, all’inizio della guerra, passato il confine, procede verso la testa di ponte di Gorizia, arrestandosi di fronte le alture ben difese dagli austriaci. Al 35° reggimento viene affidato l’attacco del Podgora, che inizia il 10 giugno con un assalto sotto il tiro nemico. Nonostante l’impeto, l’attacco si conclude sotto i reticolati nemici con gravi perdite per il 35°.
Riusciti vani i primi assalti, il 23 giugno la brigata Pistoia intraprende di nuovo la conquista del Podgora.
L’insufficienza di mezzi per aprirsi i varchi attraverso le nutrite e robuste posizioni difensive degli avversari, rigetta i fanti della Pistoia nelle trincee di partenza, subendo, tra l’altro, numerose perdite. In questo assalto muore l’11 luglio Corrado Garrone dilaniato dalla mitragliatrice asburgica.
Nella prima battaglia dell’Isonzo l’esercito italiano consegue scarsi vantaggi nella regione: dei territori nella zona del Tolmino, un lieve progresso alla colletta del monte Nero; l’avanzata fino alla quota 1.000 dello Sleme e del Mrzli; l’avvicinamento alla testa di ponte di Santa Maria e Santa Lucia; a Plava, qualche progresso verso Globna, davanti Gorizia; l’occupazione di qualche difesa avanzata e sul Carso la conquista delle pendici del poggio della quota 170; progressi nella zona di Castelnuovo; il possesso delle quote 89 e 92 e delle pendici di monte Sei Busi; nonché la conquista di Vermegliano, Selz e dell’Adria-Werke. Ogni zolla di terra vede il sacrificio dei fanti italiani con l’intingersi del loro sangue.
Si constata subito che l’armamento dell’esercito italiano è inadeguato: appena due mitragliatrici per reggimento, un gran numero di pezzi di artiglieria antiquati e cesoie da giardiniere per tagliare i reticolati di filo spinato.
Dunque, il Comando Supremo Italiano emana un piano di attacco per la conquista dei capisaldi difensivi austriaci del Sabotino, del monte San Michele e monte Sei Busi.
Tra il 18 luglio e il 3 agosto, i reggimenti della 3ª armata italiana avanzano conquistando e poi perdendo monte San Michele per il contrattacco nemico. Uguale esito ha la battaglia per la conquista del monte Sei Busi, poiché, il giorno 25, una colonna italiana, composta dal 14° e 134° reggimenti fanteria e dal III battaglione bersaglieri, attacca il monte conquistando la quota 111 e poi la quota 118, ma investiti dal contrattacco nemico devono ritirarsi perdendo le quote appena espugnate. Tenacemente, nelle giornate del 27 e 28, in sanguinosi scontri, i soldati italiani riconquistano il monte Sei Busi.
Negli stessi giorni, alcuni reggimenti della 3ª armata italiana riescono a occupare parte della Conca Carsica attestandosi a Doberdò, mentre sul monte Cosich l’inutile assalto costa un numero spropositato di perdite tra le fila italiane, così come gli assalti al monte Sabotino, al Podgora e alla quota 383 di Plava.
Con 42.000 morti la