Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Mala fortuna
Mala fortuna
Mala fortuna
E-book267 pagine3 ore

Mala fortuna

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Stefano Pante è uno spregiudicato speculatore finanziario, con la coscienza macchiata da ben più di una nefandezza. Una mattina, mentre si prepara a partire per un viaggio d'affari a Parigi, riceve una misteriosa missiva. Si tratta della lettera, scritta in punto di morte, da un giornalista di cui Pante non ha mai sentito parlare. Paolo Dardo – questo il suo nome – è un redattore del quotidiano La Capitale che, cosciente dell'imminenza della propria dipartita e preoccupato delle condizioni economiche in cui lascia moglie e figlio, si rivolge proprio a lui, Stefano Panta, ma non con una supplica: con un ricatto! Sostenendo di conoscere un suo segreto inconfessabile, la cui sola notizia spingerebbe la Procura ad incriminare Pante, l'astuto giornalista convince il cinico finanziere a un atto di forzosa generosità. Pante non ha scelta, certo, ma di quale segreto starà parlando Paolo Dardo?
LinguaItaliano
Data di uscita12 feb 2024
ISBN9788728409886
Mala fortuna

Leggi altro di Flavia Steno

Correlato a Mala fortuna

Ebook correlati

Classici per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Mala fortuna

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Mala fortuna - Flavia Steno

    Mala fortuna

    Copyright © 2024 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728409886

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    I.

    La stanza da letto di Stefano Pante, uomo d’affari e di finanza di cui si diceva, in gergo di Borsa, che controllasse più di un miliardo, era, a parte il lusso della vastità, di una semplicità cenobitica: pareti a intonaco; assenza assoluta di cortine; vetrata ampia e nuda che dal letto permetteva soltanto la vista del cielo e, a chi vi si accostasse, quella del boschetto di camelie che chiudeva, a ponente, il vasto giardino nel quale era inclusa la palazzina Pante, in via Boncompagni. Pochissimi i mobili: oltre il letto, alto e vasto, alla maniera antica, una cassaforte monumentale; un tavolino col telefono a portata di mano; carta e lapis per gli appunti rapidi; qualche giornale; un libro. Una poltrona e due sedie completavano l’arredamento di quella singolare camera che Pante aveva voluto così, sgombra e sommaria, perchè appunto doveva servire soltanto per dormirvi.

    D’altronde, il lusso, escluso dalla camera, prendeva la sua rivincita nell’attigua stanza da bagno dove tutta l’arte delle installazioni e le conquiste ultime della tecnica si erano unite per realizzare sontuosità decorative e virtuosismi idraulici da palazzi incantati. Si tornava a una relativa semplicità entrando, dopo la stanza da bagno, nello spogliatoio dove armadi vasti quanto le pareti custodivano il vestiario di Pante, ricco così da esigere per sè solo tutte le cure di un espertissimo cameriere.

    I tre locali, contigui, costituivano l’appartamento privato di Stefano Pante, al secondo piano della palazzina. Sullo stesso erano le stranze di Donna Fausta Pante, sua moglie. L’appellativo, non legittimato da alcuna nobiltà nè ereditaria nè acquisita, le veniva correntemente dato dalla ossequiosità degli uni e dalla servilità degli altri come omaggiò alla ricchezza dei Pante e Fausta lo accettava, naturalmente, come un suo diritto.

    Superfluo dire che l’appartamento della signora era il più bello di tutta la casa: situato ad angolo tra levante e mezzogiorno, si apriva su una vasta terrazza da un’intera parete vetrata che aggiungeva il lusso di una luminosità da cielo aperto alla sontuosità ricercata di un arredamento principesco.

    Due e due altre camere, completate dal rispettivo bagno e destinate ai figli di Pante, Tullia e Bruno, completavano gli appartamenti padronali riservati mentre i due primi piani della palazzina erano adibiti a salotto e a sale da pranzo, da studio, da giuoco e da soggiorno.

    Quella mattina, quando, scoccato l’ultimo tocco delle sette, il cameriere di Pante bussava sommesso alla porta della camera del padrone e, non ottenendo risposta, la socchiudeva ed entrava, come soleva fare ogni giorno, dormivano ancora tutti negli appartamenti padronali. Dormiva anche Stefano Pante, e così placidamente che il cameriere restò un momento esitante se dovesse, come gli era prescritto da sempre, spalancare, senz’altro le finestre e lasciar entrare la luce che fuga, con le tenebre, anche il sonno.

    — Ha lavorato anche stanotte — egli osservò tra sè osservando sul tavolino un mucchietto di foglietti scritti a lapis ed irti di cifre.

    Avveniva spessissimo che Stefano Pante, che se non doveva accompagnare la moglie e la figlia in società o a teatro, soleva recarsi a dormire alle dieci, si svegliasse fra le tre e le quattro e si mettesse a lavorare dal letto fino a che il sonno tornava. Allora spegneva la luce e piombava ancora a dormire fino all’ora in cui. Giacomo veniva a svegliarlo. Il suo segretario particolare che aveva ordine di trovarsi alla palazzina alle otto, sempre, non si stupiva ormai più dì trovare già imbastito, a quell’ora, il programma della giornata. Ma Giacomo aveva sempre un po’ di rimorso a svegliare il padrone quando lo vedeva addormentato; stava invece a guardarlo qualche istante con un senso misto di ammirazione e di sgomento, ma soprattutto con l’orgoglio di essere lì lui, Giacomo Corin, povero cameriere veneto, a vigilare il sonno di un così potente signore al cospetto del quale tremavano tutti in Borsa e, qualche volta, financo nei Ministeri. Tuttavia, finiva sempre col decidersi per non venir beccato sul capitolo della puntualità alla quale il padrone teneva soprattutto.

    Quella mattina c’era poi una ragione speciale per essere anche più puntuali del solito: il padrone, anzi, il commendatore, doveva partire alle dieci per Parigi, e, prima, ce n’erano delle cose da fare!

    Fece dunque scorrere le griglie nei telai delle finestre e, rigirandosi verso il letto, vide il commendatore già ritto a sedere, in atto di finire uno sbadiglio.

    — Buon giorno — disse con familiarità ossequiosa — dormivate così bene che mi rincresceva proprio di dovervi svegliare, stamattina. Se non fosse stato per via del viaggio….

    — Che tempo fa? — interruppe Stefano Pante mettendo le gambe fuori dalle coperte.

    Veduto così, ritto in piedi, appariva più giovane di quanto il suo viso, sul guanciale, lasciasse credere. Era alto e asciutto come un sarmento, con occhi e capelli nerissimi ancora quantunque fosse vicino alla cinquantina. Le sopracciglia folte davano al suo sguardo un che di corrusco che serviva benissimo quando egli doveva imporsi o recriminare o ingaggiare uno di quei duelli dai quali era ormai abituato a uscire sempre trionfatore; ma nella intimità, nessuno se ne lasciava impressionare chè, lontano dal suo mondo degli affari, Stefano Pante diventava una persona trattabilissima e persino amabile se ci teneva a parerlo.

    — Tempo magnìfico, signor commendatore; proprio primavera piena.

    — Benone, Novità?

    — Nessuna, signor commendatore. Dormono ancora tutti.

    — Ah, quello lo so.

    — Telefonate?

    — Nessuna.

    — Nemmeno Turri?

    — Nemmeno, signor commendatore.

    Turri era l’uomo di fiducia di Pante: qualcosa tra l’informatore segreto e l’esecutore di ordini che nessuno doveva conoscere.

    — Allora, avanti; preparami il bagno poi scendi e avvertimi appena arriva Soresi.

    Dopo meno di un’ora, la toeletta di Stefano Pante era terminata ed egli sedeva, solo, nella piccola sala dove la famiglia era solita prendere la primissima colazione mattutina. Dinanzi a lui stava il mastro di casa impettito come la dignità della sua carica esigeva e intento a esporre la necessità di alcuni provvedimenti d’urgenza per i quali sollecitava l’autorizzazione a provvedere durante l’assenza del signor commendatore.

    L’autorizzazione venne e, insieme, un ordine.

    — Chiedi se la signora è sveglia; vorrei salutarla prima di partire.

    — La signora mi ha già fatto dire dalla cameriera che dovrà rinunziare al piacere di salutare il signore perchè ha Mario.

    — Mario?

    — Il parrucchiere.

    — A quest’ora?

    — Alle dieci, signor commendatore; alle dieci precise. La signora ha appena il tempo di alzarsi.

    — Infatti — disse Pante con indulgenza scevra di ironia.

    Non si sarebbe mai permessa l’ironia, presente un subalterno, nei confronti di Fausta; e d’altronde era così abituato al placido egoismo della bella e superficialissima donna che era sua moglie che non si meravigliava affatto del messaggio che il mastro di casa gli riferiva. Poi, se un viaggio a Parigi avrebbe potuto rappresentare qualche cosa di insolito in una famiglia borghese qualsiasi, non era così per i Pante abituati a vedere spostarsi continuamente fra Roma e tutti i centri industriali o finanziari d’Europa il rispettivo marito e padre.

    — Se posso disturbare ancora il signor commendatore….

    Di’ pure, Domenico.

    — Il signorino domanda se può concludere, oggi, per il ponny di Gadda e la signorina vi prega di dare ordini al cassiere per l’assegno di cui vi ha parlato. Dice che oggi ci sono le Gori all’Excelsior.

    Senza una parola, Pante trasse di tasca il libretto degli assegni, vi scribacchiò una firma sotto un numero di cinque cifre e lo porse al domestico.

    — Dirai alla signorina che non si rivolga al cassiere; questo le può bastare fino al mio ritorno. E anche Bruno, aspetti, per concludere, d’averlo provato il ponny; intanto può farlo portare alla cavallerizza.

    — Ma potrebbe anche essere alzato, Bruno; non ha la scuola? — fece a un tratto Pante guardando l’orologio. — Le otto e dieci; non cominciano alle nove i corsi?

    — Il signorino faceva la ginnastica poco fa.

    — Vedi se ha finito.

    Il mastro s’inchina e va.

    Bruno, un bel ragazzo snello che giustifica il suo nome con una testolina morata di pretto carattere romantico, entra in quel momento già pronto per uscire.

    — Papà — egli dice subito saltando il buongiorno — ti ha detto Domenico per il ponny?

    — Mi ha detto; ti convien provarlo, prima, Bruno. Fallo portare alla cavallerizza.

    — Era questo che volevo. Grazie, papà. Voglio un bel regalo da Parigi, sai?

    — Sentiamo.

    Ma prima che Bruno abbia trovato quello che vuole, entra, annunziato dal mastro di casa, Giulio Soresi, il giovane segretario di Pante.

    — Addio, Soresi; la posta?

    — Sì, commendatore.

    Nel porgergli una dozzina di lettere ancora chiuse, il segretario commenta con l’aria d’importanza che egli suol dare a ciascuna sua parola, in armonia con l’alto concetto che ha di sè e col disdegno per la funzione che esplica e che considera assai inferiore ai suoi meriti:

    — La sola che è bene vediate: il resto, tutta roba d’ufficio, non rappresentava niente di particolare; il Comptoir ha fatto l’opzione, come ci si aspettava; i Clary cedono; da Londra aspettano istruzioni per orientarsi.

    Stefano Pante non lo ascolta. Fra le lettere che gli stanno dinanzi, due hanno attratto la sua attenzione: sono entrambe affrancate con l’espresso e portano l’indicazione: «strettamente personale».

    Ma mentre la prima — busta azzurrina rettangolare e scrittura ad aste lunghe, verticali, artificiosa — è passata rapidamente dalle mani di Pante alla tasca capace della sua giacca a doppio petto, la seconda inviata raccomandata e ricca di suggelli, resta un momento sotto l’esame del suo sguardo quasi egli volesse indovinare il contenuto.

    Mentre taglia regolarmente la busta col tagliacarte che il segretario, consapevole della piccola manìa d’ordine del principale che detesta le buste strappate, ha sempre pronto e gli ha porto, domanda, così, per dire, quasi per rompere con la voce il senso di fastidio che gli sembra improvvisamente sentire nell’aria:

    — Fissati i posti?

    — Fin da ieri, commendatore.

    — Fatemi il piacere, Soresi, di vedere se Giacomo è pronto e aspettatemi di là.

    Ha bisogno di star solo.

    Gli è venuto improvvisamente questo bisogno, quando, spiegata la lettera che è lunga, e scritta nervosamente, ha letto la prima frase: «Se leggerete questa lettera, Pante, vorrà dire che io sono morto….».

    Un trasalto e uno sguardo alla firma: «Paolo Dardo, giornalista, redattore a La Capitale».

    — E chi è costui? e che vuole da me?

    Si è alzato e, raccolte le lettere, si dirige verso il suo studio. Non sa nemmeno lui a quale impulso abbia ubbidito ritirandosi colà dove è ben certo che nessuno si permetterà di disturbarlo; ma un giornalista che «in extremis» dirige una lettera a un grande finanziere ha certamente da dirgli cose che meritano di essere ascoltate con attenzione.

    Ora, i suoi occhi leggono intenti:

    «Se leggerete questa lettera, Pante, vorrà dire che io sono morto. Mi ascolterete dunque con pazienza perchè i morti hanno sempre cose da dire più interessanti di quelle dei vivi.

    «Io vi conosco. Pante. Vi conosco come nessunc di coloro che vi stanno intorno, che dipendono da voi, che lavorano con voi, come nessuno di coloro che vi inchinano, vi stimano, vi temono, vi ubbidiscono.

    L’origine della vostra fortuna non ha segreti perme. Voi dite che molti sono coloro che si vantano di conoscerla; forse. Certo, nessuno di costoro sarebbe però in grado di documentare certi episodi — uno, specialmente, — che, risaputi e provati, interesserebbero sicuramente anche il Procuratore del Re. Perchè se uno esistesse che conoscesse quello che io so e che sono in grado di provare, costui sarebbe diventato il vostro padrone, a meno che non fosse diventato «la vostra vittima silenziosa ner sempre.

    Voi vi chiedete perchè vi scrivo questa lettera, oggi; perchè parlo mentre sto per morire; perchè non ho «cercato di diventare, io, vivo, il vostro padrone.

    Ve lo dico subito: perchè, vivo e sano, sarei stato un ricattatore, mentre, nelle condizioni attuali, il mio gesto può venire, se non giustificato, almeno perdonato dalla disperazione. Tengo a dichiarare che non sono un ricattatore. Lo fossi stato, voi mi avreste coperto d’oro e, a quest’ora, non avrei l’angoscia di pensare che la mia morte lascierà nella miseria la mia cara donna e il mio bambino.

    Se mi sono deciso a scrivervi questa lettera è perdoro; unicamente per loro.

    Ascoltatemi dunque.

    «Morendo, io affido la mia famigliola, composta, vi dissi, della mia donna e del mio unico figlio di nove anni, al solo amico che abbia: Marco Lovere, giornalista come me, come me redattore a La Capitate.

    Ma Lovere è povero come me. Il suo stipendio basta appena a far vivere lui e la vecchia madre che vive con lui. E io non voglio che mia moglie e la mia creatura abbiano a soffrire. Mlada (mia moglie); Alessio (il mio bambino) avranno in Lovere un fratello e «un padre; ma l’aiuto materiale ad entrambi dovrà «venire da voi.

    Nessuno sa che vi scrivo. Ho detto alla mia com «pagna e anche a Lovere che un tempo ho avuto occasione di rendervi un grosso servigio per il quale ho costantemente rifiutato il riconoscimento materiale che voi avreste voluto darmi. Ho espresso loro la certezza che la mia morte non vi avrebbe lasciato indifferente. Così, nessuno dei miei si meraviglierà se voi chiederete a mia moglie di lasciarvi fare per il figlio quello che non avete potuto fare per il padre, vale a dire, di permettervi di prendere cura della sua educazione fino all’epoca in cui egli non sarà in grado di bastare «a sè stesso e alla propria madre.

    Ed eccovi detto quello che io attendo e voglio da voi: che aiutiate i miei cari in modo che la mia scomparsa non si traduca, per essi, anche in strettezze finanziarie. Poco occorre a Mlada e ad Alessio per vivere: meno, certo, per un anno, di quanto voi spendete in un mese per Lilla Zivio, la vostra ultima amante. Vedete che non è un grave peso quello che vi impongo. Lo accetterete; a titolo di solidarietà uma«na e perchè vi valga il perdono di Dio come vi assicurerà l’impunità fra gli uomini. Perchè è proprio il prezzo della impunità e della vostra pace che io mercanteggio, qui, con l’animo che ripugna, ma col cuore che mi assolve.

    Se farete per i miei cari quello che vi ho chiesto, nulla e nessuno turberà la vostra vita. Ma se non lo farete….

    Ascoltatemi bene: una persona che non conoscete è stata eletta da me depositaria di un plico suggellato sul quale è scritto: Da aprirsi il 31 Dicembre 1923 — vale a dire fra nove mesi. Alla data fissata, aprendo la busta, il depositario si troverà in presenza di un secondo plico suggellato, accompagnato da un foglio sull’esterno del quale ho scritto «queste parole: «alla data d’oggi (31 Dicembre 1923) la mia famiglia non risente, finanziarmente, della mia dipartita, si lasci intatto questo secondo plico che verrà consegnato al signor Comm. Stefano Pante il 6 aprile 1935, giorno in cui il mio bambino compirà i ventun anni. Ma se nel frattempo le condizioni finanziarie della mia famiglia saranno diventate così precarie da far supporre un abbandono «assoluto da parte di chi ha solennemente preso l’impegno di aiutarla, si apra questo secondo plico e si faccia pervenire la busta suggellata che contiene all’indirizzo tracciato sulla busta stessa».

    Il quale indirizzo, commendator Pante, è quello «del Procuratore del Re. Voi vedete che ho previsto tutto. Da parte vostra, sapete quello che vi resta da fare. Un galantuomo che sta morendo e che soffre dell’angoscia di lasciare nella miseria la propria famiglia più di quanto non soffra dell’approssi«marsi della morte, vi chiede di comprare la vostra impunità e la vostra sicurezza con una buona azione che vi porterà fortuna. Se vi rifiutaste di farlo, credo che al vostro caso andrebbe applicato il tremendo proverbio che Dio accìeca coloro che vuol perdere. Ma sono sicuro che non vi rifiuterete. Non avete che da fare un breve esame di coscienza per rendervi conto della nessuna convenienza che avete a «che il Procuratore del Re metta il naso nel vostro passato….».

    La lettera era finita, ma gli occhi di Stefano Pante non si staccavano dal foglio. Nel turbine di sensazioni suscitate dalla drammatica missiva, una conclusione sovrastava che voleva allontanare, e magari distruggere, in modo sbrigativo, la preoccupazione sollevata dal terribile aut-aut:

    — Costui è matto!

    Ma sentiva bene che non lo era.

    — Matto! — disse a mezza voce spiegazzando la lettera fra le mani. — E porco, sì, porco, anche se è morto, anche….

    Sentiva le fiamme salirgli al viso come quando lo prendevano gli accessi d’ira che poi lo lasciavano stroncato e malato.

    Non volle cedere all’impulso. Si alzò; tornò a spiegare largo il foglio, rilesse….

    — Un ricattatore; un volgare ricattatore; ci vado io dal Procuratore del Re; ci vado io, e se costui non è morto….

    Un’idea. Lo avrebbe visto subito se era morto. C’erano tutti i giornali del mattino sulla sua scrivania: anche La Capitale. Se un redattore del foglio era morto, il giornale ne avrebbe certo parlato.

    Aperse, cercò la cronaca: gli apparve subito il trafiletto che annunziava in termini commossi la fine immatura di Paolo Dardo e ne riassumeva la vita e l’opera improntante, diceva, e l’una e l’altra a dignità di sentire altissima e a grande nobiltà.

    Sentì subito, col fiuto che egli aveva degli uomini e della vita, che l’individuo che veniva giudicato con tanto rispetto non era stato un ricattatore e nemmeno un pazzo. La lettera era dunque da prendersi molto sul serio. Documento di disperazione — come Dardo stesso l’aveva definita — non ricatto volgare.

    Sentì che se Dardo diceva di essere in possesso del suo segreto passato e di essere in grado di documentarlo, così doveva essere. E tremò. Caduta l’ira, smorzato l’impeto, restava, viva e terribile, una domanda:

    — Che cosa saprà?

    Che cosa?

    La vita di Stefano Pante ne conta più d’uno di episodi incriminabili.

    Quale è quello che Paolo Dardo dice di poter documentare?

    Come in un film drammatico, le tappe dell’ascesa del grande finanziere sfilano dinanzi al suo pensiero. Punto di partenza: un crimine. Il suo giovane socio del Banco Pante-Rabano morto improvvisamente e il suo nome caricato da Pante di tutta la parte passiva del Banco. La vedova e il figlio di Rabano ignari di tutto e condannati alla miseria mentre lui, Pante, rimasto solo e padrone di tutte le attività del Banco, spiegava le ali sorretto dalla fortuna.

    Più tardi, l’inganno teso alla giovane segretaria del Consigliere delegato della Electric per strapparle, attraverso due dichiarazioni d’amore e la promessa di sposarla, le informazioni preziose che gli hanno permesso di costruire non soltanto la sua prima fortuna ma anche la fama di intuito affaristico non comune. La ragazza, perdute insieme la illusione e il posto, è finita miseramente, ma lui, Pante, era ormai lanciato.

    La guerra è stata un filone d’oro per Stefano Pante. Padrone della maggioranza delle azioni delle Industrie tessili, egli non ha certamente avuto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1