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Il Passato che sorge
Il Passato che sorge
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E-book451 pagine5 ore

Il Passato che sorge

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Info su questo ebook

Pubblicato per la prima volta nel 1929, "Il passato che sorge" è un romanzo che non può lasciare indifferenti. Frutto della prolifica penna di Flavia Steno – giornalista, corrispondente e scrittrice fra le più significative del Novecento – esso gira attorno alla vendetta di un imprenditore di successo sul proprio peggior nemico. Scaturito da un amore contrastato, tale progetto di rivalsa si sviluppa nel corso di molti anni, trascorsi dal protagonista ad arricchirsi proprio a questo scopo. Ma non è mai detta l'ultima parola: trovare soddisfazione può anche implicare pagare per le proprie colpe, anche se dovesse essere passato tantissimo tempo.-
LinguaItaliano
Data di uscita28 ott 2022
ISBN9788728436110
Il Passato che sorge

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    Anteprima del libro

    Il Passato che sorge - Flavia Steno

    Il Passato che sorge

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1929, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728436110

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    Parte prima

    I.

    — Un bicchier d’acqua — disse Filippo Leonardi rispondendo al cameriere che, dopo di avere atteso come al solito il ritorno del signor Conte e di avergli comunicato, sempre come al solito, gli avvenimenti della serata, — la signora Contessa si era recata al «Costanzi» con la Contessina ed erano rientrate entrambe subito dopo il Teatro; il Contino era tornato verso le due e adesso doveva dormire perché non c’era piú luce nella sua camera, — gli chiedeva con la voce, smorzata non soltanto dalla doverosa deferenza ma anche dai riguardi imposti dall’ora tarda, se non gli occorresse piú nulla.

    Mentre il cameriere si avviava, Filippo Leonardi entrò nella sua camera.

    Quando l’uomo riapparve col vassoio, la bottiglia un po’ appannata e il bicchiere, lo congedò con un gesto di impazienza:

    — Metti lí e vai pure a dormire.

    — Debbo versare, prima?

    — Verso io, vai.

    Appena solo, bevve l’un sull’altro tre bicchieri d’acqua gelata senza riuscire a togliersi il senso d’arsura che gli faceva arida la gola.

    Era la sola sensazione che avvertisse — quell’arsura — della catastrofe che da un’ora era piombata sulla sua vita.

    Gli pareva d’avere il cuore calmo, il cervello lucido, i nervi distesi. Tutto era, come sempre, magnificamente a posto nel suo organismo. Tutto, tranne la gola che gli pareva di fuoco.

    — Curioso — pensò — che un’idea molesta sia andata a ficcarsi proprio in gola.

    L’idea molesta, cosí evocata, si formulò, si precisò, s’impose a un tratto con un lungo brivido che lo attraversò tutto, dalla nuca al calcagno.

    — Bisogna morire.

    Era la sola conclusione possibile della catastrofe. Anzi, ne era il corollario inevitabile.

    Ma non era piacevole.

    Lo ripeté a se stesso mentre si contemplava ritto dinanzi alla specchiera dell’armadio come avesse voluto chiamare la propria figura riflessa a testimonio del suo ultimo soliloquio.

    — Non c’è altro da fare, caro!

    Non c’era altro da fare.

    Lo sapeva perfettamente. Da parecchi giorni, forse da parecchie settimane, da quando, cioè, le sue cose avevano cominciato a precipitare, l’idea precisa dormiva in lui.

    In fondo, anzi, ci dormiva, forse, da sempre.

    Da sempre, sí, aveva considerato la morte come la porta d’uscita di tutte le situazioni inestricabili.

    Gli pareva il punto di vista naturale d’ogni buon giuocatore, quello. E lui che era sempre stato buon giuocatore doveva esser logico con se stesso sino alla fine.

    Soltanto, ecco: veduta da vicino, quella soluzione delle situazioni insolubili diventava assai meno facile che non contemplata da lontano.

    Un mese prima… una settimana prima… Sí: perché c’era tuttavia del tempo, dinanzi.

    Tante cose possono accadere in un mese o in una settimana! Anche una giornata, una serata, un’ora possono contenere la eventualità che tutto salva.

    Lo sapeva benissimo Filippo Leonardi che, dopo aver giuocato in Borsa con un unico scopo che in lui era insieme speranza e fede: guadagnare, si era ridotto, proprio quella sera, a puntare gli ultimi venti biglietti da mille su una carta nella folle speranza di moltiplicarli tante volte quanto fosse stato sufficiente a permettergli di tappare le maggiori falle della sconquassata barca delle sue finanze.

    I venti biglietti da mille erano passati dalle sue mani in quelle del Principe Nijeradzè, un georgiano presentato da Rispoli al Club, che a lui, Leonardi, non era mai piaciuto e che quella sera teneva banco. Vedeva ancora il gesto delle mani lunghe, scarne e brune di Nijeradzè mentre piegava i biglietti e li metteva sopra gli altri, tanti, che formavano una piccola pila, dinanzi a sé. E gli tornava alla mente, chissà perché la storiella del generale sud-americano della «pochade» che, avendo giuocato persino i due «cruzeros» commissionati in Europa per conto del suo Governo, spiegava tranquillamente la sua disavventura cosí:

    Es la fatalidad! Mientras yo tenia ocho, el tenia nueve!Y alora stoy condemnado a muerte. En el Perú, so entiende! però yo quedo en Paris

    Lui invece era condannato a morte qui, a Roma, nella sua casa. E la sentenza doveva essere compiuta prima che venisse il giorno…

    Il giorno!

    Che cosa avrebbe portato, per lui, ove lo avesse trovato in vita, sapeva: la scadenza di Borsa e quelle, anche piú gravi, delle cambiali rilasciate agli strozzini che gli avevano fornito le risorse per proseguire sei mesi il treno di vita poco meno che principesco che era sempre stato il suo e al quale aveva abituato anche i figli e la moglie.

    Non aveva nemmeno il coraggio di fare il totale dei suoi debiti. Sapeva che era enorme. E sapeva anche di non poter piú scrivere, nella colonna dell’attivo, nessuna cifra tranne quella rappresentata dalle gioie della Contessa e dal mobilio della casa.

    Tutto il resto era sfumato: ipotecate fino all’ultimo palmo le terre e fino all’ultimo tegolo le ville di Frascati e di Ninfa; venduti i Gobelins, gli arazzi, i tappeti persiani del VII secolo, i Goya e i Teniers ereditati dalla zia di Utrecht, il Guido Reni che da tre secoli formava l’ammirazione dei visitatori della villa di Frascati, persino la biblioteca della quale suo figlio, Neri, ignorava di avere ormai soltanto l’usufrutto sino al 1940, epoca nella quale presumibilmente egli avrebbe finito i propri studi…

    Ma avrebbe potuto continuare a studiare, Neri, una volta partito il padre e scoppiata la catastrofe?

    E Bianca Maria, che cosa avrebbe fatto?

    E Jeannette?

    Per la prima volta il pensiero di coloro che si lasciava alle spalle soverchiò in Filippo Leonardi il terrore tutto fisico della morte e la terribile nostalgia di vita piú forte anche della sua spregiudicatezza.

    Che sarebbe stato di sua moglie, di sua figlia, lui morto?

    — Jeannette — pensò ancora — ha le sue gioie. Potrà sempre ricavarne trecentomila lire… Ammesso che gliele lascino. Ma perché non dovrebbero lasciargliele? Quelle sono sue.

    Bisogna lasciarlo scritto che le gioie di Jeannette provenivano dalla famiglia di lei e che, su di esse, lui, Leonardi, non aveva alcun diritto, di conseguenza nessuna rivalsa avrebbero potuto esercitare i suoi creditori contro di esse.

    Scrisse subito. Ma mentre firmava la dichiarazione, gli venne un altro pensiero: perché Jeannette non avrebbe nascosto le gioie salvo riesumarle per venderle, in un momento piú propizio? Tracciò anche quest’altra lettera, diretta alla moglie, questa, e la chiuse con una rapida formula di saluto che conteneva anche un atto di umiliazione e di rammarico per le proprie colpe riconosciute.

    Provò il bisogno di dire una parola anche a suo figlio: preghiera di perdono; esortazione a meditare sulle ragioni che spingevano lui a morire per cavarne il proposito di mutare il proprio orientamento di vita; raccomandazione di diventare l’effettivo capo di famiglia, l’aiuto efficace e capace di sua madre e di sua sorella.

    S’accorse, nello scrivere l’indirizzo che aveva gli occhi pieni di lagrime.

    Chiuse le lettere, le collocò bene in mostra sulla scrivania; accanto, ostentata, sempre sottomano com’egli usava tenerla, c’era la rivoltella.

    Gli occhi di Filippo Leonardi vi si posarono.

    — Mi aspetta — pensò.

    E, quasi a rispondere alla piccola arma lucente, mormorò:

    — Ancora un momento.

    Adesso i suoi occhi erravano inquieti sui mobili, sulle tende, sulle pareti quasi volessero bere per l’ultima volta la forma viva delle cose intorno…

    Si posarono anche sul telefono che era collocato a portata di mano, di fianco alla scrivania, sopra un piccolo mobile elegante.

    Vi si fermarono insistenti. Un’acuta smania di servirsene ancora una volta, di udire ancora una volta la propria voce e quella di un altro essere umano prima di piombare per sempre nel silenzio eterno, assali Filippo Leonardi.

    Ma… a chi avrebbe telefonato?

    A un amico, per annunziargli l’imminente viaggio senza ritorno?

    A Liolà, la bionda girl che lo aveva aiutato a finire il suo patrimonio anche a profitto di un bruno e volgarissimo amante del cuore che, forse, a quell’ora la teneva fra le braccia?

    A uno dei suoi creditori?

    Gli si affacciò, fra tutti, un nome.

    Ma, quasi a tradimento, gli si affacciò vestito di speranza, dandogli subito un senso di trepidazione quasi dolorosa: Falchieri!

    Guido Falchieri avrebbe anche potuto salvarlo se avesse voluto…

    Si scosse, trasalí come si destasse da un incubo. Si passò una mano sulla fronte: era madida. Freddo o ardore? Sentiva, dentro, un fuoco che pareva inaridirgli le vene e tuttavia provava anche il brivido di freddo della lunga veglia e dell’avvicinarsi dell’alba.

    Perché aveva pensato a Falchieri?

    E come aveva potuto concepire di venir salvato proprio da lui che era l’artefice maggiore della sua catastrofe?

    Non lo sapeva, forse, che il gioco della Arteb era stato fatto da lui esclusivamente e proprio appena aveva saputo che Filippo Leonardi aveva investito, nel titolo promettentissimo, la maggior parte della propria fortuna? E non gli avevano anche assicurato che la stessa prestazione d’aiuto, offertagli, a patti da strozzino, da Cave, era stata suggerita e preparata sottomano da lui, Falchieri, per compiere intera, attraverso a quella illusione suprema, la sua rovina?

    E, infine, non conosceva forse, Leonardi, la ragione dell’odio implacabile votatogli dal potente industriale?

    … Pensare a Falchieri, illudersi di poter ricorrere a lui, costituiva, in quel momento supremo, peggio che una debolezza, una viltà.

    Guido Falchieri non era uomo accessibile alla pietà. Non lo era per natura — Filippo Leonardi, evocandone la figura, non vedeva che i denti dell’avversario, i denti, piantati saldi nelle mandibole come nel lupo e nel pescecane, visibili fino in fondo alla doppia chiostra nella risata sempre un po’ ambigua, sempre un po’ beffarda che schiudeva le labbra grosse, un po’ bestiali anch’esse, e faceva affluire il sangue alla testa taurina aggiogata salda alle spalle — non lo avrebbe potuto essere per quella bontà che è comprensione, in quanto la comprensione presuppone intelligenza. Guido Falchieri non aveva altra intelligenza che quella degli affari concepiti come vittoria ottenuta in duello di astuzia combattuto con tutte le armi, comprese le sleali e le disoneste.

    Immaginare che Falchieri avrebbe steso una mano a lui, Filippo Leonardi, che gli aveva influito la sola, forse, e certo la piú amara delle sconfitte patite — quella dell’amor proprio, e, forse, dell’amore, nella conquista d’una donna — era pazzia spiegabile soltanto con la disperazione suprema nella quale si dibatteva e anche, sí, con la riluttanza di tutta la sua carne e di tutto il suo spirito di fronte alla morte.

    Non avrebbe mai creduto che dovesse essere cosí difficile morire. Era difficile. Alla ripugnanza di tutto il suo essere che chiedeva insistentemente di vivere, si aggiungeva la voce di considerazioni che non comprendeva donde venissero ma che gli dicevano:

    — La vita è il supremo dei beni, la sola cosa che conti, la sola positiva, la sola che abbia un valore intrinseco e assoluto. Tutto il resto è relatività e convenzione, tutto, anche l’orgoglio, anche la reputazione, anche l’onore. E, poiché cosí è, perché non tentare, sia pure a costo di umiliazione, la sola via che ancora ti rimane aperta? Che cosa arrischi telefonando a Falchieri? nulla. Se egli consente, ti salvi. Se sarà implacabile, niente ti potrà accadere di peggio di quello che già ti sovrasta. E nessuno saprà mai di questo tuo passo poiché, a quest’ora, nessuno è presso Falchieri che certo dorme. Anche classificandola una viltà, questa tua, sarà una viltà a quattr’occhi, senza testimoni, e… ben lecita, insomma, a un individuo che è alle prese con la morte…

    Si alzò per riscuotersi. Un’altra volta si avvicinò allo specchio, si guardò a lungo: alto, snello, elegante, ancora giovane d’aspetto malgrado i cinquant’anni suonati.

    Ebbe un pensiero puerile:

    — Jeannette ha avuto ragione, dopo tutto, di preferire me a Guido Falchieri…

    Il ritratto di Jeannette, la donna ancora bellissima che aveva scavato fra lui e l’industriale un abisso di rivalità, gli sorrise a un tratto dalla parete accanto.

    Continuando il pensiero di prima, soggiunse, rivolgendosi, adesso, a lei:

    — Vero è che, se tu avessi sposato Falchieri, fra qualche ora non avresti tutte le noie e, sí anche il dispiacere che io sono costretto a procurarti, povera cara, ma avresti invece, la ricchezza, gli agi, le eleganze e i divertimenti che a te piacciono tanto assicurati per tutta la vita…

    Scattò, a un tratto, in una bestemmia:

    — Perdio! ma che non debba piú essere in grado di procurarteli io stesso? che me ne debba proprio andare cosí, come un naufrago che rinunzia a chiamare soccorso? Di che si tratta infine? di trovare una mano che mi aiuti a saltare l’ostacolo di questa crisi! Avanti! Coraggio!

    Era già dinanzi all’apparecchio telefonico.

    — 1864, signorina. Se non rispondesse subito, insistete: si tratta di svegliare un dormiente.

    Ma non occorse insistere.

    Guido Falchieri o era desto o s’era subito svegliato, perché Filippo Leonardi udí immediatamente la sua voce, leggermente annoiata, chiedere chi parlasse.

    — Leonardi, sí, Filippo Leonardi… Avete ragione di meravigliarvi. Infatti, l’ora è singolare. Scusatemi. È superfluo vi dica che sono particolarissime anche le ragioni. Anzi… peggio che particolari… disperate…

    … Falchieri, in questo momento, io sono un uomo che affoga. E voi passate sulla riva. Se vi supplico di darmi una mano, mi direte di no?

    … Come? La situazione la conoscete, almeno ho ragione di ritenerlo.

    … No? Ve la dico in due parole: è tale che, se voi non mi aiutate, fra pochi minuti io mi sparo.

    … Parlate come avrei parlato anch’io fino a qualche tempo fa… Purtroppo, invece, ora mi avvedo che ci si ammazza anche per ragioni di denaro.

    … Quanto? Ah, non saprei. Subito, sono due effetti da 25 e 15 mila. Contemporaneamente, la situazione di borsa. Qui, l’arbitro siete voi.

    … 20 mila Arteb.

    … Purtroppo, nessuna garanzia.

    … Ipotecata, Falchieri; e anche Ninfa, sí. Nulla. Ve lo dicevo che soltanto la disperazione aveva potuto determinare il naufrago ch’io sono a chiamarvi perché mi salviate la vita!

    … Falchieri, quando un uomo vi parla come io vi parlo, non intende di proporre un affare. Lo so che voi siete uomo d’affari. Ma siete anche un uomo. Ed è solidarietà umana che io invoco da voi…

    … L’ultima parola? Pensateci bene, Falchieri: ho due figli, io!

    … Avete ragione: avrei dovuto pensarci prima. Addio.

    Lasciò cadere il ricevitore dell’apparecchio. Era affranto.

    Poi, si aggrappò alla estrema illusione che Guido Falchieri, pentito d’averlo trattato con tanta durezza, lo richiamasse. Ricollocò al suo posto il ricevitore e stette un attimo col cuore sospeso.

    Nulla.

    — Pazzo! pazzo! pazzo! — esclamò — che cosa speri ancora? che cosa speravi? che cosa hai fatto? Devi andartene con una umiliazione di piú: ecco tutto!

    Le ultime ciniche frasi di Falchieri: «Ma io non ho ufficio di opere di misericordia, caro Leonardi, e voi capite che se mi dovessi commuovere per tutti i casi meritevoli di solidarietà umana, come dite voi, sarei ben presto in condizioni di doverla invocare anche per me questa solidarietà…» pronunziate con la voce arida e fischiante che egli soleva assumere quando intendeva sferzare o frustare, gli straziavano le carni fisicamente.

    Come sentiva di odiare quell’uomo, adesso!

    — Canaglia! — esclamò — canaglia! Come ti vendichi della mia superiorità di sangue, di educazione, di intelligenza, di felicità familiare!

    Un orologio lontano suonò le quattro. Leonardi rabbrividí.

    — È tardi — disse — bisogna finirla…

    Alle cinque, il meccanico era solito alzarsi per pulire la macchina; alle sei, la casa si ridestava.

    Tutto doveva essere finito prima.

    Si guardò intorno come cercando dalle cose il suggerimento di ciò che gli rimanesse ancora da fare: le lettere erano scritte, i cassetti in ordine, le carte… Pensò che sarebbe forse stato bene informare dettagliatamente Neri della situazione finanziaria: poi, si disse che ci avrebbe pensato l’amministratore.

    Non c’era dunque piú nulla da fare.

    Piú nulla… fuorché morire.

    Gli occhi cercarono la rivoltella. Si distolsero subito con un brivido di ribrezzo…

    — Se mi venisse un buon colpo… — pensò.

    Poi, si sforzò di superare quell’istinto di viltà che suo malgrado affiorava sempre dal fondo del suo scetticismo.

    — Un momento di coraggio, perbacco! in fondo non ho fatto che godere, nella vita. È giusto che adesso paghi!

    Ma, quel modo di pagare, rappresentava forse qualche cosa di buono, una azione meritoria, proficua almeno a qualcheduno? O non era piuttosto anch’esso viltà?

    In quel momento, un colpo aspro di tosse, proveniente da una delle stanze attigue, ruppe il silenzio alto della casa.

    — È Bianca Maria — pensò. — Avrà preso freddo stasera.

    Vide col pensiero il visetto pallido e spirituale della sua secondogenita cosí dissimile e da lui e da sua madre eppure cosí attaccata a entrambi con tutta la dolcezza del suo carattere mite e schivo.

    — Chissà se è sveglia!

    Resistette a fatica alla tentazione di andare a bussare alla sua porta per vedere ancora una volta, per portarsi via, nella tomba, come ultima immagine terrena, qualcosa di puro, di incorrotto, di riposante…

    — Ma se è sveglia e sente lo sparo, chissà che spavento, poveretta! — pensò.

    Soggiunse, sempre nel pensiero:

    — Ma anche se non sente lo sparo, lo spavento non le sarà risparmiato fra qualche ora, al risveglio… Non a lei, non a Neri, non a Jeannette…

    Vide la scena di sgomento e di disperazione intorno al suo cadavere…

    Gli fu piú intollerabile dello stesso pensiero della morte.

    Soffocava.

    Si alzò dalla poltrona dinanzi alla scrivania dove istintivamente s’era adagiato come, ormai, in un letto funebre, e si accostò alla finestra che spalancò.

    L’aria frizzante dell’alba di marzo lo investi e passò oltre a invadere la stanza.

    — Morire, morire quando il mondo è cosí bello! — gemette mentre levava gli occhi a contemplare lo stellato fitto, limitato, al suo orizzonte, dal profilo della Trinità dei Monti e dalla macchia scura degli alberi del Pincio.

    Dalla finestra ove si trovava, al secondo piano del palazzetto d’angolo fra via Condotti e Piazza di Spagna, si vedeva fin quasi alla base l’obelisco della terrazza in capo alla scalinata e, ai piedi della scalinata stessa, alcune ombre si movevano, stagliate in bruno sullo sfondo chiaro della gradinata, intente già a qualche lavoro.

    — Preparano i banchi per i fiori — pensò Filippo Leonardi. Vide, nel ricordo, le larghe chiazze vivaci di rosso, di viola, di aranciato, di verde che il sole accendeva sulla scalinata quando il mercato dei fiori vi era sciorinato in pieno.

    La festosa visione si sarebbe ripetuta un’altra volta fra poche ore; tre, quattro… ma egli non l’avrebbe veduta mai piú… Invece, chissà che tra i fiori che stavano per giungere non ve ne fossero di destinati ad appassirsi e a morire intorno al suo cadavere?…

    Un’altra volta «si vide» morto in quella stessa stanza, disteso immobile su quel letto…

    Un’altra volta la visione gli parve atroce e insopportabile.

    No, lí, no.

    Sarebbe uscito, avrebbe compiuto altrove il gesto irreparabile.

    — Almeno — pensò — risparmio alla mia povera gente lo spettacolo orribile.

    Era contento della risoluzione presa e che in realtà nascondeva, sotto l’apparenza d’un estremo riguardo per i suoi, il bisogno di sentirsi appartenere per qualche momento ancora al mondo dei vivi.

    Uscí in fretta, senza nemmeno concedere un’ultima occhiata d’addio a quella casa che lasciava per sempre, cacciandosi in tasca soltanto la rivoltella.

    Nel vestibolo gli giunse un’altra volta l’urto secco della tosse di Bianca Maria. Lo percosse in cuore.

    Aveva gli occhi annebbiati scendendo le scale. Ma, giunto in fondo, vide accesa la luce nella portineria e l’usciolo del portone già socchiuso. Allora reagí, d’istinto, a tutta la debolezza interiore e si compose un contegno.

    Mentre stava per varcare la soglia, vide entrare una figura sottile, ammantata di nero, un po’ stanca, un po’ curva.

    Indovinò, piú che non riconobbe, la vecchia e pia marchesa d’Ayala che viveva di memorie e di fede. Poco la conosceva. Sapeva soltanto che occupava, da sola, tutto il vasto appartamento del primo piano, che era vedova di un generale borbonico, morto trent’anni prima, che era ricchissima.

    Certo, malgrado l’ora che apparteneva ancora, quasi, alla notte, ella tornava già dalla Messa.

    Si guardarono un attimo, poi, Filippo Leonardi si scoperse e s’inchinò profondamente.

    Allora ella osò dire:

    — Buongiorno, signor Conte. Spero che la fortuna che ho d’incontrarvi a ora cosí insolita, non sia dovuta a nessuna causa spiacevole per la vostra famiglia.

    La sensibilità tutta affiorante di Filippo Leonardi fu scossa e presa dalla delicatezza del saluto che racchiudeva, evidente, un interessamento simpatico e discreto.

    — Grazie — egli mormorò. — In casa stanno tutti bene.

    — Dio sia lodato, allora. Voi non immaginate quanto mi sia simpatica la vostra cara figliola…

    — Davvero? Allora — disse Leonardi con calore e con impeto, stringendo fra le sue la mano sottile inguantata di filugello nero che la marchesa gli aveva teso — ve la raccomando tanto la mia Bianca Maria. Tanto! tanto!

    Fuggi via, quasi, lasciando la vecchia signora attonita e turbata.

    — Signore Iddio, tenetegli la Vostra Santa mano sul capo! — pregò devotamente.

    E si avviò su, lenta, per l’unica breve scala che conduceva al suo appartamento.

    Filippo Leonardi, fermo sulla piazza, si chiedeva intanto quale via dovesse prendere: se una di quelle che portavano nel cuore della città, oppure, salendo alla Chiesa e prendendo a sinistra, oltre la Villa Medici, quella che metteva al giardino del Pincio.

    Scelse quest’ultima. Però, non si addentrò nel giardino: invece, scese dal Pincio verso Porta del Popolo, la varcò e si avviò, volgendo le spalle a Roma, lungo la via Flaminia appena rivestita, adesso, del grigio azzurrognolo della primissima alba serena.

    Pensava che, per morire, la solitudine della vasta campagna sarebbe stata meno triste; quasi una porta aperta sull’infinito riposo…

    Nell’aria c’erano richiami lontani e prossimi di campane, trilli di rondini, cigolio di rotabili invisibili: le voci prime della vita ridesta che accompagnavano lo stanco andare del morituro…

    II.

    Mario Falchieri tornava a casa assai tardi, quella notte. Alcuni amici lo avevano trascinato per forza all’«Excelsior» e, contrariamente alle sue abitudini, egli vi si era fermato sino a un’ora assolutamente indebita.

    Per questo, vedendo accesa la luce nello studio di suo padre, il giovane rimase sorpreso.

    Non era nelle abitudini di suo padre di lavorare di notte.

    Instancabile alla fatica, diligente, metodico, Guido Falchieri soleva considerarsi il primo impiegato della sua azienda colossale: gli impiegati terminavano il loro lavoro alle sei ed egli faceva altrettanto. «Per arrivare lontano e in buone condizioni» soleva dire.

    Dopo le sei, chiuso lo studio, Guido Falchieri faceva una lunga passeggiata in automobile, rientrava in tempo per mutar d’abito e presentarsi a tavola inappuntabilmente elegante; tornava a uscire per recarsi a teatro o al suo Circolo o magari a far qualche visita e a mezzanotte, regolarmente, si coricava per essere in piedi, altrettanto regolarmente, alle sette.

    Ma quella notte, invece, ecco che Mario Falchieri trovava suo padre in piedi alle tre e, verosimilmente, intento al lavoro.

    Che cosa succedeva?

    Il giovane se lo chiedeva mentre saliva le scale quando, improvviso, un pensiero gli balenò:

    — E se non ci fosse papà nello studio? Se ci fossero, invece, i ladri?

    Rise subito del proprio sospetto.

    I ladri non hanno l’abitudine di accendere tutte le luci delle stanze dove vanno a rubare. E lo studio di Guido Falchieri, lungo quanto tutta un’ala della villa e aperto su cinque enormi finestroni che gli davano un aspetto di veranda, quando era illuminato, proiettava luce fin nel giardino.

    Poi, era assolutamente assurdo pensare che dei ladri avessero potuto introdursi senza dar l’allarme in una casa custodita da due mastini oltre che da un esercito di persone di servizio.

    Salí dunque, e si avviò verso lo studio, attraversando il breve pianerottolo sul quale si aprivano l’appartamento suo e quello di suo padre, preceduto, quest’ultimo, da due salottini.

    Entrava appunto nel secondo, che aveva la porta sullo studio spalancata, quando udí la voce di suo padre. Si fermò convinto che Falchieri non fosse solo e chiedendosi, stupito, chi potesse essere a quell’ora, l’interlocutore di suo padre. Un uomo d’affari senza dubbio, perché Falchieri aveva la voce aspra e tagliente dei momenti decisivi, quando annunziava una determinazione sulla quale non c’era da illudersi di poter tornare piú.

    Gli dava sempre un piccolo brivido quella voce.

    Glielo diede anche allora. E piú profondo per le parole che pronunziava e che furono le prime che egli colse:

    — Non ci si ammazza per questioni di quattrini…

    Chi era l’ospite notturno di suo padre che minacciava di ammazzarsi?

    E perché suo padre gli parlava con quella ironia?

    Stette ad ascoltare, ansioso, la risposta dell’ignoto.

    Non l’udí.

    Udí invece ancora, quasi beffarda, adesso, la voce di suo padre, e allora capí che egli parlava per telefono a un interlocutore lontano. Gli giunse, spezzettato, un interrogatorio:

    — Il passivo totale?… Quali titoli?… ma la Villa di Anzio… Ahi, ahi… Ma io sono un uomo d’affari, caro, non sono il buon Samaritano…

    Un uomo, a un tratto, lo fece trasalire…

    Suo padre, adesso, diceva:

    — Non drammatizziamo, caro Leonardi!

    Leonardi? Era Leonardi colui che parlava di ammazzarsi?

    Adesso, ascoltava con febbre. Ma il colloquio era finito.

    Spazientita, la voce di suo padre disse ancora:

    — Non so che farci! Impossibile, vi dico…

    Poi, un lungo periodo dove era questione di opere di misericordia e di solidarietà umana, e la comunicazione fu tolta.

    Mario Falchieri si presentò sulla soglia dello studio col cuore in tumulto.

    — Papà! — chiamò subito senza dissimulare il proprio turbamento.

    Guido Falchieri si voltò.

    — Tu? — disse con tono volutamente disinvolto, ma dove la contrarietà di esser stato sorpreso era evidente.

    Si fissarono un attimo.

    E per prevenire le domande che sentiva sospese nel silenzio del figlio, disse scherzoso:

    — Da dove vieni a quest’ora?

    — Sono stato con Bertaldi e con Rova e abbiamo fatto tardi. Anche tu, d’altronde, lavori a un’ora insolita.

    — Non per mio piacere. Mi hanno chiamato al telefono!

    — Soltanto un pazzo o un disperato poteva chiamarti a quest’ora.

    — Infatti.

    Vi fu un altro silenzio brevissimo che parve senza fine.

    E ancora fu il padre a interromperlo.

    — Che ore sono? — chiese levando lo sguardo a consultare il quadrante di madreperla d’una pendola fissata alla parete proprio di fronte alla poltrona che Guido Falchieri soleva occupare al centro della vasta e lunghissima tavola. — Le quattro a momenti! — soggiunse, fingendosi sorpreso — non ci sarà piú modo di prender sonno e oggi starò male tutto il giorno.

    — Probabilmente — disse, lento e freddo, suo figlio — Filippo Leonardi starà peggio di te.

    — Ah! Sei stato a sentire?

    — Ho sentito. Non sono stato a sentire. Ho visto la luce qui, nell’attraversare il giardino. M’è venuto il sospetto che ci fossero i ladri a tutta prima. Poi ho capito che era assurdo, ma ho avuto paura che tu stessi male…

    — Grazie per la premura.

    — Avrei preferito non essere venuto.

    — Cioè, non avere udito. Anch’io. Anzi, avrei preferito di non venir disturbato… Non dico per te… Tu sei mio figlio, per quanto mi assomigli cosí poco…

    — Papà!

    — … dico per l’imbecille che mi ha disturbato il sonno per farsi salvare da me, proprio da me!

    Si era alzato, parlando, e adesso si chiudeva sul petto, assicurandola con una stretta del cordone a ghiande d’oro, la vestaglia di seta gialla che vestiva come d’un saio fratesco la sua poderosa figura squadrata solida in tipo di lottatore.

    Prosegui, come intendesse rispondere alle domande che suo figlio non gli moveva:

    — Straordinari questi oziosi eleganti! Passano la vita a divertirsi senza un pensiero al mondo, senza un briciolo di senso della responsabilità, neppure verso le creature che associano alla propria esistenza o che buttano nella vita, e poi, quando si trovano con la corda al collo, ricorrono a noi, agli uomini d’affari che hanno ostentato di disprezzare, tirano fuori i grandi sentimenti: la famiglia, la solidarietà umana… e pretendono che noi si pensi di salvarli!

    — Hai forse ragione, papà, ma è terribile aver di fronte un uomo che affoga e ricusare di stendergli la mano…

    Guido Falchieri guardò suo figlio, stupito di sentirlo adoperare la stessa immagine che Filippo Leonardi aveva adoperato e, quasi, le stesse parole…

    — E credi tu che, se l’uomo che affoga fossi io, Filippo Leonardi mi stenderebbe la mano?

    — Non lo so. Ma amo pensare che sí.

    — T’inganni.

    — Comunque, non vorrei avere nella mia vita il rimorso di aver potuto salvare un uomo e di non averlo fatto.

    Guido Falchieri aggrottò le sopracciglia.

    — Quando avrai dei capitali tuoi ne farai quello che vorrai — disse con un tono che voleva troncare la discussione.

    Ma poiché suo figlio non replicava piú e taceva confuso, quasi mortificato, soggiunse con tutt’altro tono di voce:

    — Ma vedrai che non dovrò avere nessun rimorso nemmeno io. Leonardi non si ammazzerà. E farà benissimo, d’altronde. Nel caso suo, con la moglie e due figliuoli, sarebbe l’ultima vigliaccheria. Oh, intendiamoci: per loro, non farà mai niente nemmeno restando al mondo, ma almeno non infliggerà loro lo scorno e l’umiliazione della pubblicità della catastrofe…

    — Speriamo…

    — Come lo dici! Ti interessa tanto la famiglia di Filippo Leonardi?

    Il volto di Mario Falchieri era nell’ombra: suo padre non vide, quindi, l’onda di sangue che sali a imporporarlo.

    — Siamo stati compagni di Liceo, Neri Leonardi e io.

    — Non studia piú, mi dicono.

    — No. Finito il Liceo, ha fatto l’anno di volontariato.

    — In cavalleria, scommetto?

    Mario Falchieri non poté fare a meno di sorridere.

    E poiché quel sorriso era un assenso, suo padre scattò:

    — Vedi? li conosco, io, o no? Tu, figlio di Guido Falchieri, con un pezzo di pane assicurato al sole, studi legge e ti prepari a

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