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Come finì il sogno
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Come finì il sogno
E-book288 pagine3 ore

Come finì il sogno

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Info su questo ebook

In un tranquillo e pittoresco paesino di provincia si incrociano le vite di un piccolo universo umano, fatto di loquacità, pettegolezzi e passioni sepolte. Quando nella tabaccheria della signora Carlotta Paoli arriva il misterioso Mauro Vivante, giornalista in esilio e dalle tendenze socialiste, le vite di Luisella e Clara, figlie della tabaccaia, verranno scombussolate per sempre. Un romanzo toccante che è anche una full-immersion nell'Italia del secolo scorso... -
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2022
ISBN9788728411179
Come finì il sogno

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    Anteprima del libro

    Come finì il sogno - Flavia Steno

    Come finì il sogno

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1938, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728411179

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    PARTE PRIMA

    I.

    — Buongiorno a queste belle figliuole — fece Mauro Vivante entrando nella piccola tabaccheria tutta bianca e ridente per la diffusa luce del meriggio limpido, radioso di sole.

    Luisella Paoli, la maggiore delle due sorelle, da dietro al banco dove stava accomodando una pila di scatoline bianco e oro, sorrise al giovane con una espansività senza riserve sul fresco viso roseo e simpatico, nei chiari occhi largamente tagliati sotto la doppia pennellata scura delle sopracciglia molto marcate.

    — Buongiorno a lei — disse la sua limpida voce squillante.

    Dall’angolo un po’ nascosto dove stava seduta, intenta a un lavoro d’uncinetto, Clara alzò appena gli occhi per rispondere al saluto del giovane con uno sguardo rapido e un chinar lieve del capo e continuò a lavorare silenziosa, assente, fin che la voce di Mauro Vivante più vicina, insistente, non la costrinse ad alzare gli occhi un’altra volta.

    — Come sono svelte quelle piccole mani!

    Ancora Clara tacque seria, chiusa, un po’ ostile, mentre la sorella, ad attenuare l’impressione di quella voluta scontrosità, metteva come una carezza nella voce per chiedere al giovane:

    — Chiari, i Brissago, signor Vivante?

    — Si capisce. Ma, scusi — soggiunse subito guardando la fanciulla sorpreso, — come sa il mio nome, lei?

    — Lo so — fece Luisella trionfante, — me lo hanno detto.

    — Si può sapere chi?

    — Che le importa? Tanto lei non conosce la persona.

    — Ma se sono qui da tre giorni!

    — Che vuole! In un paese piccolo si fa presto.

    — Lo vedo. Ma deve esserci un servizio d’informazioni organizzato mirabilmente, qui. Scommetto che sanno già anche chi sono, quando son nato, quanti soldi ho in tasca… Pochini, veh!

    Luisella sorrideva un po’ confusa.

    — Che esagerazioni! — disse. — Le rincresce?

    — A me? Niente. Mi sorprende, ecco tutto. Mi dica piuttosto quello che le hanno detto di me.

    — S’accomodi — invitò la fanciulla indicando al giovane l’unica sedia libera.

    Mauro Vivante accettò senz’altro, si mise a cavalcioni sulla seggiola, appoggiò i gomiti sulla spalliera e nell’atto d’accendere un sigaro si rivolse dapprima alla fanciulla domandando:

    — Posso?

    — Si figuri — fece Luisella.

    Clara tacque ancora, ostinatamente raccolta nel suo lavoro, con gli occhi bassi, il viso irrigidito in una espressione di scontento e di profonda malinconia.

    — Posso? — ripetè il giovane stendendo verso di lei il braccio che teneva il sigaro.

    — Faccia pure.

    Un inchino esagerato del giovine la ringraziò, poi gli occhi si riabbassarono e il dialogo continuò fra Mauro e Luisella soltanto come se Clara fosse assente.

    — Dunque, sentiamo cosa le hanno detto.

    — Questo: che lei si chiama Mauro Vivante, che viene da Genova, che è ufficiale dei bersaglieri…

    — Io? — interruppe Vivante scoppiando in una risata. — Ufficiale io? Ah, questa è carina davvero!

    — Non è ufficiale? — domandò Luisella mortificata e disillusa.

    — No, cara, nemmeno caporale, nemmeno soldato, perchè non ho fatto il servizio militare. Figlio unico di madre vedova.

    Ingenuamente, la fanciulla esclamò:

    — Che peccato!

    — Mi rincresce. Oggi, vede, mi rincresce: per far piacere a lei, vorrei magari essere ufficiale.

    — Magari? È una bellissima cosa essere ufficiale.

    — Non dico di no. Io non lo sono, ecco.

    — Allora, perchè è scappato?

    — Ah, dicono che son scappato?

    — Già, per un duello che avrebbe avuto col suo capitano.

    — Dio, quant’è bello! — esclamò Mauro Vivante stringendosi il capo con un gesto comico di sbalordimento. Quant’è bello! Ma questo dev’essere il paese dei romanzieri d’appendice! Eppoi?

    — Eppoi, basta.

    — Peccato! Speravo mi potesse dire anche perchè mi son battuto.

    — Quello è sottinteso: per una donna.

    — Meraviglioso! Adesso, vede, comincio a rimpiangere anch’io che non sia vero.

    Una fiamma era salita a imporporare il viso pallido di Clara e proprio a lei si rivolgeva adesso il giovane interrogando:

    — Che ne dice la signorina?… A proposito: dal momento che loro sanno il mio nome, mi permetteranno di chiedere il loro.

    — Io mi chiamo Luisella e mia sorella, Clara.

    — Non è soprannominata la silenziosa, la signorina Clara?

    Luisella sorrise.

    — No — disse, — è soprannominata invece Minervetta dal principe di Bagnoli.

    — Da chi?

    — Dal principe di Bagnoli. Non lo conosce?

    — Non conosco nessuno, gliel’ho detto, e non sapevo che esistessero dei principi anche in terra repubblicana.

    — Ma è un italiano. E lo ha veduto certamente: un tipo alto, forte, molto elegante, molto colorito, biondo, con la caramella e il fiore all’occhiello…

    — Non ricordo. Ma Minervetta mi piace: è un nome che sta bene alla signorina Clara.

    S’era alzato parlando e s’era accostato alla fanciulla con un desiderio cattivo di costringerla a rispondergli.

    — Uncinetto? — domandò fissando le mani non belle, troppo grandi, un po’ gonfie che si movevano rapidamente.

    — Già — annuì la fanciulla.

    — Merletti pel corredo?

    — Ma che corredo! — rispose Luisella da dietro il banco. — È per una tovaglia d’altare!

    — Ah! pardon! Non potevo immaginare che la signorina fosse così devota.

    — Vuol farsi monaca, si figuri!

    Stavolta, Clara alzò il capo con una rapida mossa impaziente.

    — Luisa! — esclamò supplicando e rimproverando insieme.

    Mauro Vivante ebbe così modo d’osservare che la fanciulla aveva davvero una chiusa fisionomia monacale ravvivata soltanto dalla linea rossa e breve d’una piccola bocca tumida che pareva un sacrilegio in quel pallido volto pensoso e mistico rasserenato dai grandi occhi sognanti.

    — È vero o non è vero che ti vuoi far monaca? — insisteva Luisella interrogando. — E io non voglio, — soggiunse senza attendere una risposta che d’altronde non veniva.

    Mauro Vivante venne in soccorso di Clara.

    — Lei non vuole? — fece rivolto alla sorella maggiore. — Scusi, che c’entra lei? O che ciascuno non è libero di scegliersi la propria strada? La signorina Clara vuol farsi monaca? Bisogna lasciarla fare.

    I chiari occhi sognanti si alzarono sul giovane con un’espressione di gratitudine. Ebbero anche un sorriso che per un istante trasfigurò il viso pallido quando il giovane proseguì:

    — Soltanto, bisogna rinunziare al nome di Minerva perchè è un nome pagano.

    — Ma è dunque tanto religioso anche lei che dà di questi consigli? — chiese Luisella con voce impaziente.

    — Io? Io sono ateo e socialista — rispose tranquillo Mauro Vivante colpito un poco, ma punto turbato dall’impressione d’improvviso sgomento tradita dalle due fanciulle. — Ma che vuol dire? — proseguì. — La signorina Clara è credente e mistica. Una fede val l’altra quando è sincera, e gli uomini hanno chiamato appunto fede quel particolar modo di sentire che per ciascheduno costituisce la verità. Discorsi inutili — soggiunse subito riprendendosi, — non adatti per signorine giovani e belle.

    — Non creda — protestò Luisella. — Per me, forse, no; ma mia sorella le capisce queste cose. Studia sempre. È molto brava, sa.

    — Se tu chiacchierassi un po’ meno, Luisella! — fece la fanciulla con una voce intensa e calda che tradiva una reale sofferenza.

    Subito, per l’espressione profonda di quella voce, Mauro Vivante guardò la fanciulla con interesse. Non aveva alcun fascino di bellezza, Clara Paoli: il suo pallido viso dall’ovale troppo affilato non aveva finezza di lineamenti, non splendore di luce o di riso, non freschezza di primavera. Era un viso tormentato, scavato già da una fiamma interiore alla quale Mauro Vivante cercava invano, adesso, un nome, che forse non aveva ancora un nome e che l’ardore celava sotto una voluta maschera d’austerità e di freddezza che ai superficiali poteva sembrare soltanto scontrosità. Anche su quel pallido viso si ripetevano le marcatissime sopracciglia di Luisella ma le palpebre erano più abbondanti, sottili sino alla trasparenza e un poco livide, con un mistero d’ombra che faceva più chiare le iridi grigie pacate e profonde.

    Ancora una volta, il contrasto fra quel volto materiato come di spiritualità e la linea breve della piccola bocca tumida, colpì il giovane.

    — Una bocca pagana in un viso ascetico — egli pensò.

    Disse invece forte:

    — Ma brava signorina Clara. Lei studia, dunque. Ed è lo studio che la porta in convento?

    La fanciulla rispose breve:

    — Forse.

    E Luisella, che aveva avvertito nella sua voce l’ostilità del rancore, consigliò:

    — Lasciamola stare adesso, se no s’inquieta.

    — Ah no, speriamo di no; vero, signorina Clara?

    Non attese risposta e proseguì rivolto ancora alla maggiore delle due sorelle:

    — Mi dia piuttosto un consiglio: come si può passare la serata in questo paese?

    — Si va al caffè.

    — E basta?

    — E basta. A meno che lei non preferisca la birreria, o una passeggiata in riva al lago. O una gita in barca.

    — Se lei mi tenesse compagnia…

    — Grazie — fece Luisella arrossendo con una violenza che parve al giovane deliziosa, — noi non usciamo mai di sera.

    — Davvero? E che fanno?

    — Si chiude tardi, alle otto; si va in casa, si sta un po’ a lavorare e alle dieci siamo già a dormire.

    — Anche la signorina Clara?

    — Anche lei, quando non sta alzata fin molto tardi a leggere.

    — Che cosa legge, se è lecito, signorina Minerva? Non si può sapere? Sono anch’io un divoratore di libri. In questo, vede, simpatizziamo. Adesso, io sto leggendo Max Stirner: L’Unique et sa propriété. Non si sgomenti.

    — Non mi sgomento — fece la voce pacata e tranquilla, — non so che libro sia.

    — Petrolio, signorina. Ma a me, il puzzo di petrolio non fa male. Lei, cosa legge? — domandò per la seconda volta.

    — Letteratura.

    Accomodando la scatola dei toscani dove un operaio entrato allora e uscito subito aveva frugato per scegliersi un « chiaro », Luisella spiegò:

    — Leopardi, Foscolo, Carducci…

    Mauro Vivante ebbe un gesto di sorpresa:

    — Carducci? La signorina Clara legge Carducci?

    — Sì — affermò semplicemente la fanciulla.

    — Brava! E le piace?

    — Moltissimo.

    — Benone. Allora simpatizziamo anche nel puzzo di petrolio.

    Clara Paoli non ebbe il tempo di turbarsi. L’osservazione del giovane era stata subito coperta da una voce di donna che, dall’alto di una scala breve dissimulata dietro uno scaffale e che metteva in comunicazione il negozio col primo piano, chiamava:

    — Luisella! Hai gente?

    — Sì.

    — Dopo, vieni su.

    — Mia madre — Spiegò Luisella.

    — Non la faccia aspettare. Io me ne vado. Sono stato anche troppo indiscreto.

    Ebbe l’impressione sgradevole che le sue parole venissero accolte da Clara con un senso di liberazione, e allora, per ripicco, rispose al saluto cordialissimo della maggiore delle due sorelle con una breve promessa destinata, nella sua intenzione, a dar noia a Clara:

    — Tornerò.

    Luisella sorrise alla promessa, poi appena il giovane si fu allontanato, si rivolse alla sorella:

    — Non ti piace, vero? — domandò.

    — No — rispose breve la fanciulla. E soggiunse subito, come desiderosa di evitare ogni altra domanda: — Vai su tu dalla mamma? Se no, ci vado io.

    — Vai tu, sì. Io riordino il banco intanto.

    Gli occhi di Luisella erano già un’altra volta fuori, sulla strada, rispondevano già sorridendo al saluto di un cliente che passando le aveva accennato con la mano, si perdevano curiosi e leggermente invidianti dietro una sottil figura di donna elegante che passava portando alta la testa con un dardeggiar d’occhi provocatori.

    — Vieni a veder la Flores — ella disse.

    — Grazie, non m’importa — rispose Clara che saliva la scala.

    — Di che cosa non t’importa? — le chiese la madre che dalla cucina aveva udito la risposta.

    — Nulla, mamma. Luisella mi chiedeva che andassi a vedere la Flores.

    — Tua sorella farebbe meglio a interessarsi alle persone per bene invece che a codeste svergognate che sono la favola del paese. Chi c’era, giù, poco fa?

    — Un forestiero.

    — Cos’ha comprato?

    — Non so; un Brissago, mi pare.

    — E per un Brissago s’è fermato a chiacchierare mezz’ora?

    Clara non rispose. Domandò invece, come per cambiare discorso:

    — Cosa desideravi, mamma?

    — Volevo che Luisella m’aiutasse a levare quelle casse. Tu non hai pratica.

    — Vedrai che ci riesco anch’io.

    Con una disinvoltura che rivelava nella fanciulla sottile e pallida una forza di muscoli insospettata, Clara sbarazzò l’angolo della cucina, che serviva da magazzino, da tutte le casse che impedivano d’arrivare a quella contenente certe sigarette che sua madre cercava, poi rimise ogni cosa come prima e domandò:

    — Vuoi altro?

    — Aiutami a verificarle.

    Madre e figlia sedettero accanto nella vasta cucina molto ingombra, un poco buia e molto triste, e cominciarono insieme la verifica.

    La madre enunziava, con la fattura alla mano, la qualità e la quantità di ogni singolo genere; Clara frugava nella cassa cercando, contando, riponendo. E la sua calda voce contenuta si alzava soltanto per annunziare ad ogni verifica:

    — Bene, ci sono.

    Il lavoro durò quasi mezz’ora senza che una sola parola inutile venisse ad interromperlo.

    Sempre così quando Clara e sua madre erano insieme. Avevano entrambe così poche cose da dirsi! La madre si compiaceva di quella sua figliuola che tutti erano d’accordo nel riconoscere intelligentissima, che aveva compiuto quasi da sola, quasi ad insaputa delle stesse suore che l’avevano in collegio, gli studi magistrali e si era presentata agli esami come di sorpresa ottenendo il massimo dei punti non solo ma anche l’encomio solenne, suscitando l’ammirazione del piccolo paese, il rispetto ed un poco lo stupore di tutte le sue antiche compagne di scuola; di quella sua figliuola così profondamente religiosa, riservata sino alla freddezza, schiva e chiusa sino all’orgoglio, seria fino all’austerità; ma nella sua soddisfazione entrava più, vanità che non tenerezza. La tenerezza le era impedita dal contegno di Clara stessa che circondava la madre di grande rispetto e di infinite cure dove era una devozione filiale perfetta ed anche dell’affettuosità, ma dove mancavano assolutamente tutti gli elementi che costituiscono la sostanza del sublime amore che lega un figlio alla madre; la confidenza suggerita dalla indulgenza infinita; l’adorazione ispirata dal sacrificio; la fusione perfetta derivante dalla perfetta comprensione. Fra Carlotta Paoli e sua figlia Clara esisteva una forma di incomprensione spirituale che datava da molto lontano, dalla prima infanzia di Clara e aveva le sue origini in un dissidio tutto sentimentale.

    Esisteva tra madre e figlia l’ombra del rispettivo marito e padre.

    Carlotta Paoli non era stata felice nel matrimonio e Clara aveva adorato suo padre.

    L’aveva adorato e gli rassomigliava tutta: aveva il suo viso pallido e melanconico; i suoi occhi chiari e profondi; la sua fronte alta e spaziosa — magnifica fronte maschia che era un’anomalia e non certo una bellezza nella fanciulla — e aveva anche il suo ingegno e la passionalità concentrata, gelosamente nascosta, del suo temperamento, e la sua grande generosità che Carlotta Paoli definiva spensieratezza e il profondo riserbo che Carlotta Paoli chiamava finzione…

    Questa rassomiglianza fedele fino al prodigio costituiva il grande orgoglio segreto di Clara, ma rispetto a sua madre era sempre stata il suo torto. Come un grosso torto, quasi, anzi, come una vergogna ella aveva udito rinfacciarsela migliaia di volte nel passato a proposito di qualsiasi più piccola mancanza. Gliene era rimasto un senso non solo di sofferenza e di pena, ma di offesa che, bambina, l’aveva gettata tutta verso suo padre colpito come lei da quella che la sua piccola anima intuiva ingiustizia, piena di fiducia, di tenerezza, di amore per quel padre che le dicevano così simile a lei e che perciò doveva naturalmente comprenderla, soffrire dei suoi dolori, godere delle sue gioie.

    In realtà era stata un’anima molto complessa e molto strana quella di Giovanni Paoli. Adolescente ancora, mentre si preparava alla carriera militare in marina, egli aveva conosciuto, in casa d’un amico, la giovinetta che poi era diventata sua moglie. E come avesse potuto diventare sua moglie era sempre rimasto inesplicabile per tutti coloro che conoscevano i due coniugi e li sapevano così profondamente diversi di sentimento, di comprensione, di educazione. Eppure, per sposare Carlotta Andreani non bella, non ricca, non affascinante, cresciuta nella casa d’uno zio prete che l’aveva raccolta orfana e affidata prima alla propria serva, poi alle monache d’un convento di clausura, Giovanni Paoli aveva troncato la sua carriera, aveva espatriato, s’era messo in urto con tutti i suoi — con la madre vedova che lo adorava e sognava per lui una fanciulla che uscisse, come ella era uscita, da una antica famiglia aristocratica dove le tradizioni sono religione e la forma, santità; con lo zio generale che non ammetteva per il nipote altra carriera che quella delle armi che era stata la carriera di tutti i Paoli da due secoli; coi cugini, con gli amici — ed era diventato commerciante!

    Un pessimo commerciante, in realtà, che trattava gli affari come questioni cavalleresche rimanendo costantemente sorpreso nella sua limpida buona fede; un ingenuo commerciante che in ogni compratore credeva di avere un amico e in tutti i viaggiatori di commercio che venivano a offrirgli la loro merce vedeva dei camerati e si sentiva obbligato verso gli uni e verso gli altri dal senso di signorilità che era in lui istinto e natura, con un successo grande di simpatia ma altrettanto disastroso economicamente.

    In tre anni, lo zio prete aveva dovuto intervenire due volte per salvare la situazione compromessa dell’azienda, ma poi, egli era morto e allora Carlotta Paoli aveva assunto le redini del negozio escludendo completamente il marito e rivelando nella direzione dei modesti affari una sicurezza d’intuizione, una energia e un senso d’ordine che nessuno avrebbe mai supposto nella fanciulla cresciuta tra il convento e la canonica. Indiscutibilmente Carlotta Paoli aveva salvato il negozio e assicurato l’avvenire.

    Il primo a riconoscerlo era stato suo marito; ma Giovanni Paoli, abbandonato a se stesso, escluso da ogni lavoro, esonerato da qualsiasi responsabilità, aveva sostituito alle occupazioni gravi le distrazioni liete, staccandosi a poco a poco dalla famiglia dove adesso egli trovava rientrando una moglie troppo saggia e troppo poco amante, evidentemente infastidita dall’impeto del compagno, stanca sempre e sempre preoccupata, incapace di rispondere più nè ai sensi nè alla fantasia di lui.

    Era avvenuto l’inevitabile; Giovanni Paoli si era distratto altrove, ma le sue distrazioni non giocondamente frivole, ma condotte con quella vivacità d’immaginazione che era nel suo temperamento e che gli faceva mettere una poesia di romanzo magari nella banalità d’un intrigo puerile, avevano sollevato pettegolezzi infiniti nella piccola città oziosa.

    Carlotta Paoli non aveva perdonato al marito. Come egli aveva preso troppo seriamente le sue distrazioni, così ella prese tragicamente l’offesa. E nella piccola casa, per qualche anno, era stata una vita d’inferno tra i rimproveri acerbi e quotidianamente ripetuti, le lagrime, gli sfoghi della moglie e i lunghi silenzi del marito interrotti a quando a quando da un impeto di ribellione disperata che finiva costantemente in una minaccia di suicidio.

    Non s’era suicidato Giovanni Paoli, ma se ne era andato dopo una notte drammatica che aveva lasciato un ricordo incancellabile nella memoria e nell’anima di Clara.

    Se ne era andato e non era tornato più, non perchè gli fosse mancato il desiderio di tornare, ma perchè sapeva benissimo che le porte della sua casa sarebbero ormai state inesorabilmente chiuse per lui. Sua moglie gli aveva detto:

    — Vattene! — Ed era bastata quella parola per farlo partire.

    Sua moglie aveva rivendicato per sè la proprietà assoluta di tutto quanto esisteva nella piccola casa, e Giovanni Paoli che per nessuna cosa al mondo avrebbe voluto contestargliela se ne era andato con gli

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