Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La mamma bella
La mamma bella
La mamma bella
E-book235 pagine3 ore

La mamma bella

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Letizia si trova a bordo di un treno diretto da Milano a Genova. È pervasa dalla felicità di avere terminato il collegio e perché sa che alla stazione ci sarà suo padre ad aspettarla, come pattuito. A smorzare il suo entusiasmo è però l'atteggiamento della madre, una donna vanitosa e vittima dei giudizi altrui. Non appena incontra la povera Letizia, la prega infatti di non chiamarla "mamma". Il motivo che si cela dietro la strana richiesta è il timore che l'aspetto poco avvenente di sua figlia possa arrivare a scandalizzare gli avventori dei salotti borghesi a lei molto cari...-
LinguaItaliano
Data di uscita7 apr 2022
ISBN9788728195246
La mamma bella

Leggi altro di Flavia Steno

Correlato a La mamma bella

Ebook correlati

Narrativa letteraria per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La mamma bella

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La mamma bella - Flavia Steno

    La mamma bella

    Translated by

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1943, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728195246

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    LA MAMMA BELLA

    I

    Letizia si affacciò al finestrino: il treno era a Mignanego, appena uscito dalla galleria dei Giovi, e precipitando verso Genova con un cupo fragore di ferraglie, lo inghiottì quasi subito un’altra breve galleria, poi una terza e una quarta, brevissime tutte, che lo assorbivano e lo restituivano come in un gioco a rimpiattino.

    — Corri, corri — incitava, dentro, l’impazienza della fanciulla, e, come volesse accontentarla, il treno sembrava accelerare davvero sempre più la sua corsa fin che si fermò ansante alla stazione di Sampierdařena, per riprendere poi subito e sparire nell’ultima galleria del percorso.

    C’era appena il tempo di togliere dalla rete le due valigie e di prepararle nel corridoio.

    Un gentile signore, che da Milano non aveva cessato di guardare la fanciulla pur senza osare di rivolgerle la parola, poichè il comportamento di Letizia — perfetta educanda, ligia alle raccomandazioni della Madre Superiora di non parlare a nessuno in treno — era stato tale da scoraggiare qualsiasi iniziativa in proposito, si precipitò ad aiutarla dicendo, con un calore d’espressione che andò perfettamente perduto perchè non compreso:

    — Almeno questo!

    Però, quando le due valigie furono a posto, ebbe il suo compenso: un «grazie» accompagnato dal più soave dei sorrisi, che il gentile signore osò interpretare per un incoraggiamento.

    Disse dunque:

    — Se a Genova non vi attende nessuno, disponete pure di me.

    Il «grazie» venne ripetuto, ma senza sorriso, stavolta, e accompagnato, invece, da una frase che suonò definitiva sconfitta dell’iniziativa del gentile signore.

    — Ci sarà certo papà alla stazione.

    Nei pochi minuti che seguirono — il treno aveva rallentato nella seconda metà della galleria e fischiava come a chiedere che qualcuno gli facesse posto nella stazione dove stava per entrare — Letizia, con lo sguardo perduto in dentro, le labbra atteggiate a un misterioso sorriso, il sangue pulsante in tutte le arterie con ritmo accelerato, ripeteva a se stessa la cosa grande, luminosa, magnifica:

    — Torno a casa mia! È finito il collegio! Da oggi incomincio una nuova vita, la vera vita!

    Si disse che, in realtà, la nuova vita l’aveva già incominciata con quel viaggio compiuto da sola da Milano a Genova, da quando lo zio Guido era andato a rilevarla dal Collegio per prenderla in consegna sino al suo installamento nella carrozza di prima classe.

    Una grande emozione, certo, quella, ma di un genere particolare che non aveva a che fare con ciò che l’aspettava a casa sua.

    «Casa sua»: due piccole ma immense parole per chi ha passato esattamente nove anni in collegio; prodigiose addirittura per Letizia che da ben due anni non vedeva più la sua casa, perchè le ultime vacanze le aveva passate a Varese Ligure con la nonna paterna, avendo la mamma dovuto andare successivamente alla Porretta e poi a Salso per cure, e le penultime in montagna, dove aveva raggiunto direttamente la mamma senza passare da Genova.

    Era una bimba ancora, a quel tempo — appena quindici anni e la treccia sulle spalle — e la montagna l’aveva divertita tanto da non lasciarle rimpiangere la casa. Ma adesso, l’impazienza di rivederla e di riaverla per sempre era tanto viva quasi quanto l’ansia di riabbracciare la mamma.

    Un sorriso di compiacimento sfiorò le labbra della fanciulla proprio mentre il treno si rimetteva lentamente in moto.

    La sua bella mamma!

    L’avrebbe trovata in stazione?

    Si disse subito di no, senza nemmeno sapere perchè. Zio Guido, mettendola in treno, le aveva detto:

    — Stai tranquilla che a Genova vengono a prenderti.

    E papà, scrivendole, prima, aveva assicurato: «Ci troverai in stazione all’arrivo del treno.»

    «Ci troverai». E tuttavia, ella sentiva che a riceverla ci sarebbe stato soltanto il babbo.

    Fu proprio così.

    Cessate le effusioni, che da parte del padre furono particolarmente gioconde, ella domandò:

    — E la mamma?

    — Non le è stato possibile venire — sentì rispondersi con una nota lievemente forzata che il suo subcosciente soltanto avvertì — perchè aveva la casa piena di gente. Sai, il mercoledì e il venerdì ha il suo poker.

    Letizia ricordò a un tratto la montagna e le partite eterne che ogni pomeriggio le rubavano la sua mamma.

    — Anche qui? — disse, sorridendo.

    E c’era, nel sorriso, una punta d’indulgenza per quella debolezza della sua mamma, ammettendo in blocco che ella avesse tutti i diritti.

    — Già — fece il babbo, sorridendo pure.

    — Dura fino a tardi la partita?

    — Eh, di solito, fino all’ora di pranzo.

    — Il che vuol dire che fino all’ora di pranzo non potrò vederla…

    — Intanto ti prepari, e c’è qui Giannina per aiutarti.

    — Sì; riporremo la roba, intanto.

    Si sentiva così satura di felicità che nessun contrattempo avrebbe potuto, nonchè turbarla, nemmeno infastidirla. Era disposta a trovare tutto bello, tutto meraviglioso, a cominciare dalla macchina nella quale stava chiusa, stretta vicina al suo capo papà.

    — Contenta, eh?

    — Me lo chiedi? Ne avevo proprio fin sopra i capelli del collegio! Sai che ero ormai la più anziana fra le educande? Già, non sapevano più cosa insegnarmi.

    Addirittura!

    — Proprio così, papà. I corsi regolari li avevo terminati l’anno scorso.

    — Ma ti sarai perfezionata nelle lingue, nel piano, nel lavoro…

    — Sì, sì, sono la perfezione incarnata.

    Rise con un piccolo gorgoglio nella gola, che era come il traboccare della piena felicità.

    Entrò in casa con un impeto che era una presa di possesso. Ma smorzò subito il tono di voce col quale aveva salutato la vecchia cameriera di sua madre accorsa ad aprire, al gesto che costei fece di mettersi l’indice attraverso la bocca a raccomandare il silenzio.

    — Stt! c’è la partita.

    — Uff! — sbottò sottovoce Letizia. E rivolta al padre, chiese a mezza voce: — Cosa credi che succederebbe se entrassi un momento a dare un bacio alla mamma?

    — Non devi farlo. Mamma s’inquieterebbe.

    — Però… infine sono la sua figliola e non ci vediamo da un anno.

    — Appunto: puoi aspettare ancora un’ora.

    Un sospiro di rassegnazione forzata. Poi, Letizia seguì la cameriera giovane, che s’era avviata verso la breve scala che dal vestibolo portava alle stanze del primo piano.

    — Dio, come ti sei fatta alta!

    La voce era nettamente sgomenta.

    Ritta in mezzo alla camera, Letizia rideva a sua madre.

    — Te ne spiace, mamma?

    Non pensava affatto che potesse spiacerle, per cui si stupì della risposta.

    — Certo che mi spiace; mi fai diventare vecchia di colpo!

    — Che esagerazione! Guarda come sei vecchia!

    La trascinò allo specchio, tenendola alla vita.

    — Vecchia, vero? Ma se sembri più giovane di me! Due sorelle sembriamo, e io sarò certamente ritenuta la maggiore.

    — Due sorelle! Almeno fosse così! Ma no, non ti permetterò di chiamarmi mamma. Dimostri vent’anni! E io non ne ho che trentasei!

    Letizia rideva forte di quella desolazione che sembrava un gioco. Ma la mamma insisteva con una voce così crucciata che ella finì per chiedere perplessa:

    — Ma dici davvero, mamma?

    — Certamente. Ma ti pare — soggiunse quasi pregando, — che io possa entrare in una sala e dire forte: «Ecco la mia figliola!»? Sarebbe come relegarmi da me nell’angolo delle signore che non contano più! No, no! — implorò — non me lo imporre!

    — Io?

    Ora, tutta la gioia di Letizia era naufragata in un senso di mortificazione che le dava quasi voglia di piangere; qualcosa si ribellava nel suo intimo e la spingeva a essere cattiva.

    — Rimandami in collegio, allora — disse con amarezza.

    — Che sciocchina!

    Si sentì intorno al collo il braccio della mamma: un bel braccio tepido, che lo specchio rivelò bianco, tornito e di una perfezione scultorea.

    — Sono felice d’averti con me, Letizia cara, ma non voglio essere, per la gente, la mamma di una figliola che dimostra vent’anni. Sai, nessuno crederebbe che ne hai appena sedici.

    — Diciassette, mamma.

    — Diciassette? Diggià? Sei sicura?

    — Sicurissima. Atto di nascita: 21 marzo 1920.

    — Eh, già! Comunque, nessuno crederebbe che io mi sono sposata alla tua età… — Soggiunse, riabbracciando la figliola: — Oh, lasciami essere giovane qualche anno ancora!

    — Dovrei scomparire, allora?

    La voce della fanciulla suonò impaziente e con rancore.

    — Ancora? Ma che sciocchina! Non mi chiamerai mamma, ecco tutto!

    Stavolta, Letizia rise indulgente.

    — E va bene! Ti chiamerò zia.

    — Zia? Nooo! Sembrerei una vecchia pedante. Chiamami Daria come mi chiama papà.

    — E chi sarei, io, per te, di fronte alla gente?

    — Già, occorre una parentela. Sarai una mia cuginetta; va bene?

    II

    Bastò una serata, a Letizia, per capire sua madre.

    Per capirla e per compatirla affettuosamente.

    Bastò che ella la vedesse fare il suo ingresso nel salotto di casa Arborio, polarizzando immediatamente sulla sua persona tutti gli sguardi con un’unica espressione di ammirazione senza riserve, per capire come la sua fulgida bellezza fosse, per lei, la ragione stessa della vita e che lo sfrondarla dell’aureola della giovinezza sarebbe stato come distruggerla.

    Povera mamma! Come avrebbe potuto vivere senza l’incenso che quotidianamente saliva ad avvolgerla in una nube iridescente trasfigurante la realtà, senza l’omaggio espresso di tutti coloro che le stavano intorno e quello anonimo della strada?

    Era così candida l’infatuazione che ella aveva di se stessa che diventava impossibile di fargliene carico.

    E la figliola non gliene fece, così come non ne gliene aveva fatto mai il marito. Si unirono anzi, Letizia e suo padre, in una tacita intesa d’indulgenza che confinava con una forma di pietà. Inconscia, nella figlia; consapevole, nel marito, che più di una volta si era chiesto che sarebbe stato della sua povera compagna il giorno in cui il tempo avrebbe inesorabilmente posto il suo segno sulla sua trionfale bellezza. La prima volta che egli aveva udito Letizia chiamare sua madre «Daria», aveva compreso subito quello che era avvenuto. S’era accontentato di scrollare il capo. A che sarebbe intervenuto? Felicitò se stesso per il fatto che Letizia si fosse adattata con tanta semplice indulgenza alla debolezza della madre e che la sua tenerezza per lei non ne avesse sofferto.

    No, non ne aveva sofferto. Anche perchè, a parte quella debolezza, la bellissima mamma era anche infinitamente buona, piena di premure per la figliola, sinceramente affezionata al marito, al quale era sempre stata scrupolosamente fedele, paga soltanto di vedersi soddisfatta nella vanità.

    — Anche tu, sai, sei bella — diceva alla figlia con una convinzione che escludeva assolutamente la gelosia, anche perchè sapeva che fra la propria bellezza e quella della fanciulla c’era una notevole distanza. — E vedrai, fra qualche anno, quando avrai finito di crescere…

    — Ma io credo che ho già finito, mamma.

    — Credi, credi, ma non è così. Sei una bambina ancora.

    «Una bambina». Era il ritornello, quello. Anche quando qualche amica, e particolarmente qualche amico, le diceva: «Carina quella vostra cuginetta», ella si affrettava a rispondere:

    — Sì, è una cara bambina.

    Con questa scusa, la teneva lontana non soltanto dalle riunioni dove si giocava, ma anche da quelle che avevano carattere soltanto di amicizia. Qualche serata a teatro era tutta la partecipazione di Letizia alla vita di società. Le sere in cui la mamma riceveva, ella si recava al cinema con suo papà e di questo accomodamento non pensava a lagnarsi.

    Stava molto con suo papà e si accorgeva di farlo felice, interessandosi alla sua vita che, tranne il breve ritrovarsi a tavola, si svolgeva tutta lontano materialmente e moralmente da quella di sua moglie, tra il suo studio d’ingegnere, i libri d’arte di cui era appassionato collezionista e qualche parentesi di dolce oziare in compagnia del suo sigaro, lasciando vagabondare il pensiero senza tenerne le briglie.

    Si capivano perfettamente padre e figlia e non avevano nemmeno bisogno di parole per dirselo. Letizia avrebbe potuto fare la storia di quel suo caro papà che, artista sin nell’intimo, s’era lasciato prendere dalla eccezionale bellezza di Daria così come si sarebbe appassionato per un capolavoro, e come tale continuava a considerarla, riconoscendole tutti i diritti all’adorazione che si ammettono per la bellezza perfetta.

    Comprendeva anche, la fanciulla, con intuito tutto femminile, come suo padre non fosse geloso. Era la stessa gelida perfezione di Daria che, escludendo ogni possibilità di passione, le creava intorno un’atmosfera d’intangibilità. Sapeva per esperienza propria, il marito, come ella fosse inaccessibile all’amore e quella certezza gli permetteva di assistere tranquillo all’incenso di adorazione che veniva bruciato ai suoi piedi.

    Il vero amante di Daria era il suo specchio.

    Lo sapeva suo marito e lo sapeva anche Letizia.

    Ammirare il proprio corpo, studiarle; scrutarlo vigilarlo; creargli intorno la cornice più atta a metterne in valore tutti i pregi e tutte le seduzioni; vederne rispecchiata la perfezione e l’incanto negli occhi di coloro che la guardavano: in questo era riassunta, per Daria, la gioia di vivere e la vita stessa.

    Fermo questo, ella portava nei rapporti con la figlia e col marito una vera bontà, una cordialità affettuosa che, a momenti, era anche riconoscimento della propria debolezza e desiderio di farsela perdonare.

    La stessa bontà esplicava con le persone di servizio, cosicché tutte le erano affezionate e devote, così pure nei rapporti con i necessari collaboratori della propria bellezza: la massaggiatrice che ogni mattina le dedicava un’ora; il parrucchiere, la sarta, la modista, il calzolaio.

    Ognuno di costoro traeva motivo d’orgoglio dal fatto di servire la bellissima signora Sergi e metteva tutto l’impegno nel contribuire a crearle intorno un’aureola degna della sua insuperabile bellezza.

    Che più? Persino l’invidia ella aveva scoraggiato con la grazia candida con la quale portava quel dono magnifico e impegnativo, come qualcosa di prezioso confidatole e di cui dovesse rispondere in faccia a tutti gli uomini.

    Infatti, le sue amiche erano le prime a esaltare quel suo grande privilegio, a ricordarglielo a ogni istante e a valorizzarlo col riconoscimento della inattaccabile condotta di colei cui era toccato in sorte.

    Letizia, per essersi docilmente prestata a mantenere intatta l’illusione della giovinezza di sua madre, era stata, da costei, assunta al ruolo di confidente, e talvolta persino di consigliera, dacchè Daria si era accorta che la fanciulla aveva un gusto sicuro e il vivo desiderio di vedere sua madre figurare il meglio che le fosse possibile.

    Così, ella assisteva sempre, adesso, alle sedute interminabili con la première delle Riccardi per la composizione dei modelli che dovevano essere esclusivi per Daria; l’accompagnava dalla modista, dava il suo parere sui cappelli che ella si provava e riprovava, e il suo consiglio per la scelta definitiva.

    Per conto proprio, Letizia non era ambiziosa. Le piaceva, certamente vestir bene, ma quando aveva trovato il vestito o il cappello che le piacevano, rinunziava a vederne altri che, forse, diceva la mamma, le sarebbero piaciuti di più. Trovava assurdo ciò che la sua mamma e, la maggior parte delle signore facevano, esaminare cioè fino all’ultimo vestito e sino all’ultimissimo cappello le collezioni anche quando avevano già scelto; fare svolgere, nei negozi, cento pezze di stoffe anche di tessuti diversi da quello che erano intenzionate di prendere; di sciupare, insomma, il proprio tempo e quello altrui per una curiosità al servizio della vanità.

    Ma indulgeva all’assurdo quando si trattava di sua madre.

    Allora trovava naturale e giusto che ella spendesse ore e ore alla ricerca d’un tono di colore che meglio si accordasse con quello dei suoi capelli o dei suoi occhi o che desse maggior risalto alla sua carnagione, che aveva la trasparenza luminosa d’una camelia attraversata da un raggio di sole; che studiasse magari una intera mattinata, insieme alla sarta, la linea d’un vestito; che passasse intere giornate da madame Guénola, la dottoressa in estetica dell’Istituto di bellezza, per vedere provare sul viso d’una giovinetta povera che fungeva da cavia umana, un rosso, una crema, una cipria, la linea d’un’ondulazione, una pasta per le ciglia, uno smalto per le unghie…

    — E la signorina, non desidera nulla?

    Oppure era la mamma che le diceva:

    — Non ti occorre della cipria, Letizia? Non vorresti sottolineare un poco il corallo delle tue labbra? Ti piace quel cappellino? Vuoi provartelo? Mi pare che la linea dovrebbe conferirti.

    Perchè non era affatto gelosa della giovinezza di sua figlia, la mamma, e si compiaceva veramente di vederla in piena bellezza.

    Ma raramente Letizia approfittava di quegli inviti che la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1