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Viaggio al centro della Terra
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E-book288 pagine3 ore

Viaggio al centro della Terra

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Viaggio al centro della Terra (in francese Voyage au centre de la Terre) è un romanzo scientifico d'avventura del 1864 di Jules Verne. Appartenente al sottogenere della fantascienza sotterranea, in esso si narra del viaggio immaginario di uno scienziato tedesco e dei suoi collaboratori in un mondo sotto la superficie terrestre, che l'autore lascia intuire si trattasse di quello un tempo esistente alla luce del sole; per tale ragione è uno dei primi romanzi che si inscrive nel filone del mondo perduto. 

«Maestro, quanti sogni avventurosi / sognammo sulle trame dei tuoi libri! / La Terra il Mare il Cielo l'Universo / per te, con te, poeta dei prodigi, / varcammo in sogno oltre la Scienza.»

(Guido Gozzano, In morte di Giulio Verne)

Jules Gabriel Verne (Nantes, 8 febbraio 1828 – Amiens, 24 marzo 1905), è stato uno scrittore francese. È tra i più importanti autori di storie per ragazzi, e grazie ai suoi romanzi scientifici è considerato, assieme a H. G. Wells, il padre della moderna fantascienza. Giunse al successo nel 1863, quando si dedicò proprio al racconto d'avventura.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita2 mag 2022
ISBN9791221328806
Autore

Jules Verne

Jules Verne (1828-1905) was a French novelist, poet and playwright. Verne is considered a major French and European author, as he has a wide influence on avant-garde and surrealist literary movements, and is also credited as one of the primary inspirations for the steampunk genre. However, his influence does not stop in the literary sphere. Verne’s work has also provided invaluable impact on scientific fields as well. Verne is best known for his series of bestselling adventure novels, which earned him such an immense popularity that he is one of the world’s most translated authors.

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    Viaggio al centro della Terra - Jules Verne

    I.

    Il 24 maggio 1863, una domenica, mio zio, il professore Lidenbrock, ritornò precipitosamente verso la sua casetta posta al N. 19 di Königstrasse, una delle più antiche strade del vecchio quartiere di Amburgo.

    La buona Marta dovette credersi in ritardo, poichè il desinare incominciava appena a cantarellare sul fornello della cucina.

    «Ahi! dissi tra me, se ha fame, mio zio, che è il più impaziente degli uomini, getterà gridi da disperato.

    — Già il signor Lidenbrock! esclamò la buona Marta stupefatta, socchiudendo la porta della sala da pranzo.

    — Si, Marta; ma il desinare ha diritto di non essere cotto, poichè non sono ancora le due; la mezz’ora è appena suonata a S. Michele.

    — Allora perchè il signor Lidenbrock rincasa?

    — Egli ce lo dirà probabilmente.

    — Eccolo! io scappo via, signor Axel; voi gli farete intendere la ragione.»

    E la buona Marta ritornò nel suo laboratorio culinario.

    Rimasi solo. Ma far intendere la ragione al più irascibile dei professori, gli è ciò che la mia indole alquanto titubante non mi permetteva; però io mi accingeva a ritrarmi prudentemente nella mia cameretta al piano superiore, quando la porta di strada cigolò sui cardini; passi pesanti si udirono su per le scale di legno e il padron di casa, attraversando la sala da pranzo, si precipitò nel suo studiolo.

    Ma durante quel rapido passaggio egli aveva gettato in un cantuccio il suo bastone dal pomo a schiaccia-nocciole, sulla tavola il largo cappello a peli arruffati e al nipote queste parole rimbombanti:

    «Axel, seguimi!»

    Io non aveva ancora avuto il tempo di muovermi che già il professore mi gridava con vivo accento d’impazienza:

    «Ebbene, non sei ancora qui?»

    Mi slanciai nel gabinetto del mio formidabile maestro.

    Otto Lidenbrock non era un cattivo uomo, ne convengo volentieri; ma, a meno di improbabili mutamenti, egli morrà nella pelle d’un terribile stravagante.

    Era professore all’Joannæum, e vi faceva un corso di mineralogia, durante il quale andava regolarmente in collera un paio di volte. Non già ch’egli tenesse ad aver allievi assidui, nè che si desse gran pensiero del grado d’attenzione che gli accordavano, nè del successo che potevano ottenere per tal via; questi particolari non lo inquietavano punto. Professava soggettivamente, secondo un’espressione della filosofia tedesca, per sè e non per altri. Era uno scienziato egoista, un pozzo di dottrina la cui carrucola strideva quando si voleva trarne alcuna cosa: in una parola un avaro.

    In Germania di siffatti professori ve n’ha qualcuno.

    Mio zio, disgraziatamente, non godeva di grande facilità di pronuncia, se non nell’intimità, per lo meno quando parlava in pubblico, spiacevole difetto per un oratore. Infatti nelle sue dimostrazioni all’Johannæum, soventi volte il professore s’arrestava di botto, lottava contro un vocabolo ricalcitrante che non voleva uscirgli dalle labbra, uno di quei vocaboli che resistono, si gonfiano e finiscono col venir fuori nella forma poco scientifica d’una bestemmia. D’onde gran collera.

    In mineralogia ci sono molte denominazioni semigreche, semilatine, difficili a pronunciare, rudi appellattivi che scorticherebbero le labbra d’un poeta. Io non voglio già dir male di questa scienza; il cielo me ne guardi! ma quando si hanno dinanzi le cristallizzazioni romboedriche, le resine retinasfalti, i gheleniti, i fangasiti, i molibdati di piombo, i tungstati di manganese e i titaniati di zircone, è permesso alla lingua più abile di far fallo.

    Ora, nella città, era notoria questa perdonabile infermità di mio zio, e se ne abusava, e lo si attendeva nei passi pericolosi, ed egli infuriava e si rideva, la qual cosa non è di buon gusto nemmeno per i Tedeschi. Se vi era quindi gran concorso di uditori alle lezioni di Lidenbrock, molti dei più assidui venivano specialmente per darsi spasso alle amene collere del professore.

    Checchè ne sia, mio zio, non l’avrò mai detto abbastanza, era un vero scienziato. Tuttochè spezzasse talvolta i suoi campioni nell’assaggiarli troppo bruscamente, congiungeva al genio del geologo l’occhio del mineralogista; col suo martello, colla sua punta d’acciaio, col suo ago calamitato, col suo cannello e colla sua boccetta d’acido nitrico, era uomo validissimo. Alla frattura, all’aspetto, alla durezza, alla fusibilità, al suono, all’odore e al gusto d’un minerale qualunque, egli lo classificava senza esitazione fra le seicento specie che la scienza conta oggigiorno.

    Laonde il nome di Lidenbrock era ripetuto con onore nei ginnasi e nelle associazioni nazionali. I signori Humphry Davy, De Humboldt, i capitani Franklin e Sabine, non tralasciarono di fargli visita quando si trovarono di passaggio ad Amburgo, e i signori Becquerel, Ebelmen, Brewster, Dumas, Milne-Edwards, usavano consultarlo circa le questioni più nuove della chimica. La qual scienza gli andava debitrice di bellissime scoperte; perocchè nel 1853 era apparso a Lipsia un Trattato di Cristallografia trascendente, del professore Otto Lidenbrock, un bel volume in-foglio con tavole, che tuttavia non coprì le spese.

    Aggiungete a questo che mio zio era conservatore del Museo mineralogico del signor Struve, ambasciatore di Russia, preziosa collezione che ha una rinomanza europea.

    Quest’è adunque il personaggio che mi chiamava con tanta impazienza. Figuratevi un’uomo alto, magro, d’una salute di ferro, d’un biondo giovanile che toglieva dieci buoni anni alla sua cinquantina; i suoi occhi grossi erano senza riposo stralunati dietro gli enormi occhiali; il suo naso lungo e smilzo aveva l’aspetto d’una lama affìlata; i maldicenti pretendevano perfino che fosse calamitato e che attirasse la limatura di ferro. Calunnie; non attirava che il tabacco, ma in grande abbondanza, convien dirlo.

    Quando avrò aggiunto che mio zio faceva passi matematici d’una mezza tesa, e se dico che nel camminare teneva i pugni fortemente stretti, segno di temperamento impetuoso, lo si conoscerà quanto basti per non mostrarsi ghiotti della sua compagnia.

    Egli abitava la sua casicciola di Königstrasse, abitazione metà legno, metà mattoni, a cornicione dentato; affacciava sur uno di quei canali sinuosi che s’incrociano nel mezzo del più antico quartiere d’Amburgo che l’incendio del 1842 ha per buona sorte rispettato.

    La vecchia casa pencolava alquanto, è vero, e tendeva il ventre ai passanti, portava il suo tetto inclinato sull’orecchia come la berretta d’uno studente della Tugendbund; l’appiombo delle sue linee lasciava molto a desiderare, ma tutt’insieme essa si portava bene in grazia d’un vecchio olmo vigorosamente incastrato nella facciata, il quale gettava in primavera le sue gemme fiorite attraverso i vetri delle finestre.

    Mio zio era ricco per essere un professore tedesco. La casa, contenente e contenuto, gli apparteneva interamente. Il contenuto era la sua figlioccia Graüben, giovane irlandese di diciassette anni, la buona Marta ed io. Per la mia doppia qualità di nipote e di orfano divenni l’aiutante preparatore delle sue esperienze.

    Confesserò che io addentai con appetito le scienze geologiche. Avevo sangue di mineralogista nelle vene e non mi annoiavo mai in compagnia dei miei ciottoli preziosi.

    Insomma, si poteva vivere felici in questa casicciola di Königstrasse, non ostante l’impazienza del suo proprietario, perocchè costui, sebbene me lo dimostrasse in maniera alquanto brutale, mi amava tuttavia molto. Ma quell’uomo lì non sapeva attendere, era più frettoloso della natura.

    Quando in aprile aveva piantato nei vasi di porcellana del suo salotto la reseda o il convolvulo, ogni mattina andava regolarmente a tirarli per le foglie pensando di farli crescere più presto.

    Con un originale di questa fatta, il meglio era obbedirlo: però io mi precipitai nel suo gabinetto.

    II.

    Questo gabinetto era un vero museo, Tutti i campioni del regno minerale vi erano notati in ordine perfetto, secondo le grandi divisioni di minerali infiammabili, metallici e litoidi.

    Come mi erano noti quei ninnoli della scienza mineralogica! Quante volte invece di baloccarmi con fanciulli della mia età io mi ero divertito a spazzolare i grafiti, gli antraciti, i litantraci, le ligniti e le torbe! E i bitumi e le resine e i sali organici che bisognava preservare dal minimo atomo di polvere! E i metalli, dal ferro fino all’oro, il cui valore relativo spariva dinanzi all’uguaglianza assoluta dei campioni scientifici! E tutte quelle pietre che sarebbero bastate a ricostruire la casa di Königstrasse, anche con una camera di più, in cui io mi sarei trovato così bene!

    Ma, entrando nel gabinetto, io non pensava punto a tali meraviglie. Mio zio solo occupava il mio pensiero. Egli era sprofondato sul suo largo seggiolone guernito di velluto d’Utrecht e teneva fra le mani un libro che osservava colla più profonda ammirazione.

    «Qual libro, qual libro!» egli esclamava.

    Questa esclamazione mi ricordò che il professore Lidenbrock era anche bibliomane nei suoi momenti perduti. Ma un vecchio libro non aveva pregio ai suoi occhi se non a patto d’essere introvabile o per lo meno illeggibile.

    «Ebbene, mi disse egli, non vedi tu dunque? È un tesoro inestimabile questo che io ho trovato stamane frugando nella bottega dell’ebreo Hevelius.

    — Magnifico!» risposi con entusiasmo poco sincero.

    Infatti, a qual pro tanto rumore per un vecchio inquarto il cui dorso e la coperta sembravano fatti di cuojo grossolano; il libraccio giallastro in mezzo al quale pendeva un segnacolo scolorito?

    Tuttavia le interiezioni ammirative del professore non cessavano.

    «Vedi, diceva egli, facendo a sè stesso domande e risposte: non è egli bello? Si, è ammirabile! e qual legatura! Questo libro si apre facilmente? sì, poichè rimane aperto ad ogni pagina! E si chiude bene? sì, perchè la coperta e i fogli formano un tutto ben unito senza separarsi nè socchiudersi in alcun punto! V’è il dorso che non ha neppure una scalfittura dopo settecento anni di esistenza! In fede mia quest’è una legatura di cui Bozerian, Closs o Purgold andrebbero orgogliosi!»

    Così parlando, mio zio apriva e chiudeva successivamente il vecchio libro. Io non poteva non interrogarlo sul suo contenuto, benchè la cosa non m’interessasse punto.

    «E qual’è dunque il titolo di questo meraviglioso volume? domandai con una premura troppo entusiastica, appunto perchè non era sincera.

    — Quest’opera, rispose mio zio infervorandosi, è l’ Heims-Kringla di Snorre Turleson, il famoso autore islandese del duodecimo secolo; è la Cronaca dei principi norvegiani che regnarono in Islanda!

    — Davvero! esclamai del mio meglio; è senza dubbio una traduzione in lingua tedesca.

    — O che! ribattè vivamente il professore, una traduzione! E che ne farei io della tua traduzione? Chi si cura della tua traduzione? quest’è l’opera originale in lingua islandese, magnifico idioma, ricco e semplice ad un tempo, che acconsente combinazioni grammaticali svariatissime e numerose modificazioni di parole!

    — Come il tedesco? osservai.

    — Si, rispose mio zio scrollando le spalle, senza contare che la lingua islandese ammette i tre generi, come il greco, e declina i nomi propri come il latino!

    — Ah! esclamai, scosso un po’ dalla mia indifferenza, e i caratteri di questo libro sono belli?

    — Caratteri! chi ti parla di caratteri, disgraziato Axel? Si tratta di ben altro che di caratteri! Ah tu prendi questo libro per uno stampato? ma, ignorante, è un manoscritto, è un manoscritto runico!

    — Runico!

    — Si, mi domanderai tu forse di spiegarti questa parola?

    — Non ne ho punto bisogno,» replicai coll’accento d’uomo ferito nel suo amor proprio.

    Ma mio zio continuò senza arrestarmi e mi istruì mio malgrado intorno a cose alla cui scienza io non teneva punto.

    «I Runici, riprese a dire, erano caratteri di scrittura usati un tempo in Islanda, e, secondo la tradizione, furono inventati dallo stesso Odino. Ammira dunque, empio, questi tipi che sono usciti dall’immaginazione di un Dio! »

    Affè, non sapendo che dire, io stava per prosternarmi, maniera di risposta che deve piacere agli Dei come ai re, poichè, ha il vantaggio di non imbarazzarli mai, quando un incidente venne a sviare il corso della conversazione.

    Fu l’apparizione d’una bisunta pergamena, che uscì dal libro e cadde a terra.

    Mio zio sì precipitò sopra questa bazzecola con un’avidità facile a comprendere. Un vecchio documento, chiuso forse da tempo immemorabile, in un vecchio libro, non poteva non avere ai suoi occhi un pregio immenso.

    «Che cosa è questo?» sclamò egli.

    E in pari tempo spiegò con gran cura sulla tavola un pezzo di pergamena lungo cinque pollici, largo tre, sul quale si schieravano in linee trasversali caratteri incomprensibili.

    Eccone l’esatto fac-simile. Mi preme far conoscere questi segni bizzarri poichè sono essi che indussero il professore Lidenbrock e suo nipote ad intraprendere la più singolare spedizione del secolo decimonono:

    Il professore considerò per alcuni istanti questa serie di caratteri, poi disse sollevando gli occhiali:

    «È Runico; questi tipi sono assolutamente identici a quelli del manoscritto di Snorre Turleson! ma... che mai ciò può significare?»

    Siccome il Runico mi aveva l’aria d’essere un’invenzione degli scienziati per mistificare la povera gente, io non fui punto dolente che mio zio non ne comprendesse nulla.

    Almeno così mi parve a giudicare dal moto delle sue dita che cominciavano ad agitarsi terribilmente.

    «È tuttavia vecchio islandese!» mormorava fra i denti.

    Il professore Lidenbrock doveva saperne qualcosa poiché passava per un vero poliglotta. Non già ch’egli parlasse correntemente le duemila lingue e i quattromila idiomi adoperati alla superficie del globo; ma infine ne sapeva la sua buona parte.

    Egli stava dunque, innanzi a questa difficoltà, per abbandonarsi a tutto l’impeto della sua indole, ed io prevedeva una scena violenta, quando le due suonarono all’orologio dal camino.

    In pari tempo la buona Marta apriva la porta del gabinetto dicendo:

    «La zuppa è in tavola!

    — Al diavolo la zuppa e chi l’ha fatta, e chi la mangerà.»

    Marta scappò via; io le corsi dietro e senza saper come mi trovai seduto al mio posto solito nella stanza da pranzo.

    Aspettai alcuni istanti. Il professore non venne. Era la prima volta, per quel ch’io ne sapessi, ch’egli mancava alla solennità del desinare. E qual desinare! Una zuppa al prezzemolo, una frittata col prosciutto, con sapore di acetosa e di noce moscata, una lombata con composta di prugne, e alle frutta gamberi in dolce, il tutto inaffiato da un vinello della Mosella.

    Ecco ciò che un vecchio scartafaccio doveva costare a mio zio. Dal canto mio, in qualità di nipote affezionato, io mi credetti in obbligo di mangiare la sua parte e la mia, la qual cosa feci con tutta coscienza.

    «Non ho mai visto nulla di simile! diceva la buona Marta servendo; il signor Lidenbrock che non è a tavola!

    — È da non credere.

    — È un presagio di qualche avvenimento grave!» aggiunse la vecchia serva tentennando il capo.

    Secondo me, la cosa non presagiva altro fuorchè una scena spaventevole quando mio zio troverebbe il suo pranzo divorato.

    Ero giunto al mio ultimo gambero quando una voce rimbombante mi strappò alla voluttà delle frutta. Non feci che un balzo solo dalla sala al gabinetto.

    III.

    «È evidentemente Runico, diceva il professore, aggrottando le sopracciglia. Ma c’è un segreto ed io lo scoprirò, altrimenti...»

    Un gesto violento compì il suo pensiero.

    «Mettiti li, aggiunse indicandomi il tavolino, e scrivi.»

    In un momento fui pronto.

    «Ora ti detterò ogni lettera del nostro alfabeto corrispondente a ciascuno di questi caratteri irlandesi. Vedremo il risultato. Ma, per S. Michele! bada bene di non sbagliare!»

    Il dettato incominciò. Io ci attesi del mio meglio; ogni lettera fu detta una dopo l’altra e formò la seguente incomprensibile successione di parole:

    Quando questo lavoro fu compiuto, mio zio prese vivamente il foglio sul quale io aveva scritto e l’esaminò a lungo con attenzione.

    «Che vuol dir ciò?» ripeteva egli macchinalmente.

    Sull’onor mio, io non avrei potuto dirglielo; d’altra parte egli non m’interrogò e continuò a parlare a sé stesso.

    «Quest’è ciò che noi diciamo un criptogramma, nel quale il senso è nascosto sotto lettere scompigliate a posta e che, disposte convenientemente, formerebbero una frase intelligibile. Quand’io penso che vi ha forse la spiegazione e l’indicazione d’una gran scoperta!»

    Per parte mia pensavo che non vi fosse assolutamente nulla. Ma tenni prudentemente per me solo la mia opinione.

    Il professore prese allora il libro e la pergamena e li confrontò tra loro.

    «Queste due scritture non sono della stessa mano, diss’egli; il criptogramma è posteriore al libro ed io ne vedo una prova irrefragabile a bella prima. Infatti, la prima lettera è una m doppia che si cercherebbe invano nel libro di Turleson poichè non fu aggiunta all’alfabeto islandese se non nel XIV secolo. Così adunque vi hanno per lo meno dugento anni fra il manoscritto e il documento.»

    Questo, ne convengo, mi parve abbastanza logico.

    «Io sono dunque condotto a pensare, ripigliò mio zio, che uno dei possessori di questo libro abbia tracciato siffatti caratteri misteriosi. Ma chi diancine era questo possessore? Non avrà egli messo il suo nome in qualche punto del manoscritto?»

    Mio zio rialzò gli occhiali, prese una forte lente e passò attentamente in rassegna le prime pagine del libro. In capo alla seconda, quella del falso titolo, egli scoprì una specie di sgorbio che appariva all’occhio come una macchia d’inchiostro. Peraltro, guardando attentamente, si scorgevano alcuni caratteri mezzo cancellati; mio zio comprese che quivi stava il punto interessante; egli non abbandonò più lo sgorbio, e coll’aiuto della grossa lente riuscì a riconoscere i segni seguenti di carattere runico ch’egli lesse senza esitare:

    «Arne Saknussemm! esclamò coll’accento del trionfo; ma questo è un nome, un nome islandese, quello di uno scienziato del sedicesimo secolo, d’un celebre alchimista!»

    Guardai mio zio con una tal quale ammirazione.

    «Questi alchimisti, proseguì egli, Avicenna, Bacone, Lulle, Paracelso, erano i veri, i soli scienziati del loro tempo. Essi hanno fatto scoperte di cui noi dobbiamo essere sbalorditi. Or perchè codesto Saknussem non potrà aver celato sotto l’incomprensibile criptogramma qualche invenzione meravigliosa? Così dev’essere; così è.»

    L’immaginazione del professore si accendeva a questa ipotesi.

    «Senza dubbio, osai rispondere; ma quale interesse poteva avere quello scienziato a nascondere di cotal guisa qualche scoperta meravigliosa ?

    — Perchè? perchè? e lo so io perchè? Galileo non ha egli fatto altrettanto per Saturno? d’altra parte noi vedremo; io avrò il segreto di questo documento e non prenderò nè nutrimento, nè sonno prima di averlo decifrato.

    — Oh! pensai io.

    — E neppur tu, Axel, riprese egli.

    — Diavolo! dissi a me stesso, fortuna che ho desinato per due,

    — Ed anzitutto, proseguì mio zio, convien trovare la lingua di questo garbuglio. Ciò non dev’essere difficile.»

    A tali parole, sollevai vivamente il capo e mio zio prosegui il suo soliloquio.

    «Nulla di più facile. Ci sono in questo documento cento trentadue lettere che danno settantanove consonanti e cinquantatrè vocali; ora gli è all’incirca secondo questa proporzione che sono formate le parole delle lingue meridionali, mentre gl’idiomi del nord sono infinitamente più ricchi di consonanti; si tratta dunque di una lingua del mezzodì.»

    Codeste conclusioni erano giustissime.

    «Ma qual’è questa lingua?»

    Qui aspettavo il mio scienziato, nel quale per altro scoprivo un profondo analista.

    «Codesto Saknussemm, continuò egli, era uomo colto; ora, poichè non scriveva nella sua lingua materna, doveva scegliere a preferenza la lingua adottata fra gli intelletti colti del sedicesimo secolo, voglio dire il latino. S’io m’inganno, potrò tentare lo spagnuolo. il francese, l’italiano, il greco e l’ebraico; ma gli scienziati del XVI secolo scrivevano generalmente in latino; però ho il diritto d’asserire a priori: questo è latino.»

    Balzai

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