Israeliani e palestinesi. Le ragioni degli altri
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Recensioni su Israeliani e palestinesi. Le ragioni degli altri
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Anteprima del libro
Israeliani e palestinesi. Le ragioni degli altri - Patrizia Fabbri
633/1941.
PREMESSA
Uno dei principali errori frequentemente commesso dai diretti protagonisti della vicenda israelo-palestinese e dalla comunità internazionale è quello di considerare questo conflitto unico, specifico, eccezionale.
Da questo presunto carattere di eccezionalità deriva una estrema difficoltà a identificare possibili vie d’uscita. Questa presunzione porta inevitabilmente a non prendere in considerazione altri paradigmi della Storia, a non cercare nella Storia percorsi, modelli, esempi che possono rappresentare un punto di partenza per intraprendere un positivo cammino verso la pace. Se il conflitto israelo-palestinese è unico ed eccezionale, a qualsiasi soluzione proposta è estremamente facile opporre dei però
che calano come macigni a interrompere qualsiasi percorso di dialogo e incontro.
Per questo motivo ritengo fondamentale conoscere i fatti, gli avvenimenti storici che hanno contraddistinto questo conflitto, per comprendere che non si tratta di avvenimenti o storie eccezionali, ma di un accadere di eventi, un intrecciarsi di relazioni con i quali l’umanità si è spesso già confrontata riuscendo, in molti casi, a fornire risposte positive e risolutorie. È importante capire che stiamo parlando di nazionalismi, di colonialismi, di interessi economici e geo-politici delle grandi potenze, di conflitti sociali, di sfruttati e sfruttatori, di vittime e persecutori. Vittime e persecutori che, in più di 100 anni, non hanno mantenuto staticamente il proprio ruolo: stiamo parlando di vittime che si trasformano in persecutori, di persecutori che si trasformano in vittime, in un’alternanza che si ripete ciclicamente.
In questo contesto è inutile e fuorviante pretendere di identificare chi
ha ragione. Se si affronta la lettura di questo conflitto con l’obiettivo di dare una risposta a questa domanda, la partita è persa in partenza. Il problema non è chi
ha ragione, bensì quali
sono le ragioni. Comprendere le ragioni degli altri è il primo fondamentale passo per intraprendere un dialogo costruttivo.
Per far emergere e comprendere le ragioni degli altri
è necessario muoversi su un piano di lettura e interpretazione che tenga in considerazione due elementi fondamentali: da un lato gli interessi geo-politici delle grandi potenze per la regione medio-orientale; dall’altro la nascita, lo sviluppo e la diffusione dei nazionalismi in quest’area (quello arabo prima e palestinese poi e quello, nella sua particolare accezione, ebraico).
Questo piano di lettura dovrebbe essere tenuto presente per qualsiasi conflitto locale
del XX secolo. Il caso israelo-palestinese, quindi, non è avulso da questo contesto e ha le sue radici a partire dalla seconda metà del XIX secolo: è in quegli anni che nascono il nazionalismo arabo all’interno dell’Impero Ottomano e il nazionalismo
ebraico in Europa; è in quegli anni che l’interesse delle grandi potenze per l’agonizzante Impero inizia a manifestarsi con forza.
L’unica peculiarità, ma che comunque può rappresentare sia fattore di divisione e contrasto sia elemento di solidarietà e unione, è che questo conflitto si svolge in una regione che rappresenta il centro spirituale più sacro per due delle principali religioni monoteiste (ebraica e cristiana) e il terzo luogo sacro per la terza (islamica). È innegabile che tutto quello che succede in quest’area, accanto agli interessi economici e politico-strategici, smuove nelle popolazioni che vi abitano e in quelle che, nel resto del mondo, si riconoscono in queste religioni un’emotività che travalica questi stessi interessi.
Nota alla seconda edizione
La prima edizione di questo libro è stata scritta nei due mesi successivi all’Operazione Piombo Fuso (febbraio-marzo 2009). Da quella data il Medio Oriente è stato sconvolto da stravolgimenti irreversibili: regimi decennali sono caduti; due sanguinose guerre in Siria e in Libia stanno falciando quotidianamente centinaia di uomini e donne; si è aperto un nuovo fronte di guerra nello Yemen; stiamo facendo l’abitudine a termini come foreign fighters (cittadini europei che arruolano nell’ISIS andando a combattere in Siria) e a sgozzamenti mediatici di crociati
, traditori
, infedeli
; la guerra tra sciiti e sunniti sembra tornata ai tempi della battaglia di Kerbala del 680; sono quasi 4.000.000 i profughi siriani dall’inizio del conflitto mentre per la Libia non esistono dati ufficiali e le stime sono di circa 300.000 persone.
Ma in questi 7 anni che hanno cambiato il volto del Medio Oriente nessun passo avanti è stato compiuto nel processo di pace tra israeliani e palestinesi. Al contrario, Gaza è sempre più stretta in un assedio mortale e ha subìto altre due operazioni militari sferrate da Israele, l’ultima delle quali nel luglio-agosto 2014 ha provocato più morti di Piombo Fuso. Il livello della vita in Cisgiordania subisce un crollo costante mentre proseguono gli investimenti del governo israeliano in nuovi insediamenti di coloni al punto da incrinare perfino i rapporti con gli USA. Israele è sempre più isolato dalla comunità internazionale e l’Autorità Palestinese si riavvicina ad Hamas.
Le prospettive per la creazione di uno Stato palestinese indipendente e la sua pacifica convivenza con Israele sono pressoché nulle, eppure una soluzione equa e giusta alla questione israelo-palestinese avrebbe molto probabilmente un impatto positivo sulle popolazioni arabe e islamiche del Medio Oriente aiutando a depotenziare gli estremismi più pericolosi.
IL NAZIONALISMO ARABO E IL NAZIONALISMO
EBRAICO
L’Impero Ottomano
Il secolo successivo la conquista di Costantinopoli (1453) rappresenta il periodo di maggiore estensione dell’Impero Ottomano nonché quello di massimo splendore. Sono anni nei quali si definisce e consolida una struttura statuale e un’organizzazione della società che, seppur attraverso crisi e riforme, rimangono il fondamento dell’Impero fino agli inizi del XIX secolo.
Esso risulta costituito, da un lato, da una grande massa di sudditi, di differenti razze, etnie e religioni, impegnata a produrre ricchezza e, dall’altro, da un piccolo gruppo di dirigenti al vertice, il cui obiettivo è sfruttare tale ricchezza a vantaggio proprio e del sultano. Lo Stato viene organizzato in modo da porre in essere questo obiettivo e la sua azione si limita all’esercizio di quelle attività a esso funzionali (capillare organizzazione burocratica per la riscossione delle tasse, forte istituzione militare in grado di garantire la protezione dell’Impero). La massa dei sudditi, una volta adempiuti gli obblighi della assoluta fedeltà al sultano e del pagamento delle tasse, è libera di organizzarsi nei modi più congeniali alla propria specificità razziale, etnica, culturale e religiosa e che meglio consente loro di svolgere le attività economiche. La forma più comune di organizzazione è quella religiosa; oltre alla comunità religiosa (millet) musulmana vengono riconosciute dal sultano le millet greco-ortodossa, cattolica, ebraica, gregoriana-armeni fino a quella protestante. Alle comunità religiose si affiancano le corporazioni che si occupano dell’organizzazione della società dal punto di vista economico.
I popoli dominati mantengono così le proprie istituzioni, tradizioni e culture garantendo all’Impero Ottomano una sostanziale tranquillità interna e il limitato manifestarsi di proteste o rivolte da parte di questa grande ed eterogenea popolazione. Questa situazione rimane inalterata per circa 300 anni.
Minato da varie crisi economiche, conseguenza anche del forte impegno militare necessario a proteggere un così vasto territorio, agli inizi del 1800, l’Impero Ottomano inizia un profondo progetto di riforma dando vita a una forma istituzionale completamente nuova che scardina la tradizionale struttura della società ottomana; viene così posta fine alle antiche autonomie che vengono rimpiazzate con un governo e una burocrazia fortemente centralizzati.
Questo radicale stravolgimento avviene nel secolo in cui nasce e si sviluppa (in Europa occidentale, per poi diffondersi anche tra le popolazioni sottomesse agli Ottomani) un nuovo sentimento
politico: il nazionalismo, ossia l’identificazione dell’individuo in una comunità che si riconosce nelle stesse tradizioni storiche, culturali, linguistiche e che ne cerca il riconoscimento a livello politico.
Le spinte nazionalistiche, in particolare quelle slave nei Balcani, insieme all’arroccamento del sultano Abdulhamid nel più assoluto autoritarismo decretano l’inizio della fine dell’Impero, alimentando gli interessi delle grandi potenze (Russia, Inghilterra e Francia) per la spartizione dei resti di quello che veniva considerato il grande malato d’Europa
.
Il nazionalismo arabo
Il Movimento dei Giovani Turchi, nato nella seconda metà del 1800 nella penisola anatolica, che determinerà la deposizione di Abdulhamid e prenderà definitivamente il potere nel 1908, si era inizialmente dichiarato a favore di una decentralizzazione dell’Impero, alimentando le aspirazioni nazionalistiche (seppur sempre all’interno dell’autorità statuale ottomana) delle popolazioni arabe. Il successivo disconoscimento da parte dei Giovani Turchi di questa posizione indusse un’evoluzione della coscienza araba verso la lotta per una totale indipendenza e liberazione dal dominio turco
.
La storia e l’evoluzione del nazionalismo arabo sono articolate, con orientamenti e sviluppi molto diversi tra mondo arabo orientale (Mashreq) e mondo arabo occidentale (Maghreb). Tralasciamo quest’ultimo, la cui analisi ci allontanerebbe dal nostro percorso, e concentriamoci sul primo che, oltre a svilupparsi soprattutto in contrapposizione al predominio turco all’interno dell’Impero Ottomano, si inserisce nel pensiero socio-politico che si va diffondendo nella società musulmana dell’epoca, i cui confini travalicano quelli geografici ottomani per giungere fino alla Persia e all’Afghanistan.
Nella seconda metà dell’Ottocento, questo pensiero si esprime sostanzialmente attraverso due correnti: il riformismo musulmano e il nazionalismo areligioso o laico. Il primo, le cui figure di spicco sono Jamal ad-Dine al Afghani e Abd ar-Rahman al Kawakibi, si focalizza sulla reinterpretazione dell’Islam in chiave moderna, cercando di assimilare, all’interno della religione musulmana, i principi del pensiero liberale nato in Occidente. È comunque importante sottolineare che non è tanto all’Islam come religione cui al Afghani si riferisce bensì all’Islam come civiltà. I nazionalisti laici, con Ibrahim al Yaziji e Nahjib Azouri, propugnano invece la creazione di uno stato moderno fondato sulla nazionalità e ispirato al sistema politico occidentale, nel quale il ruolo della religione è limitato a un problema di coscienza individuale.
La caduta e lo smembramento dell’Impero Ottomano dopo la I Guerra Mondiale e la costituzione di un insieme di stati arabi laici, seppur sotto la tutela
di Francia e Inghilterra, ha determinato un deciso predominio della seconda corrente sulla prima e il ruolo politico dell’Islam è stato drasticamente ridimensionato. Ritornerà a reimpossessarsene prepotentemente solo nel 1979 con la rivoluzione khomeinista in Iran e la successiva evoluzione dell’integralismo islamico. Ma questa è un’altra storia.
Con il diffondersi del sionismo e l’inizio della colonizzazione ebraica della Palestina inizia poi ad emergere un nazionalismo arabo con caratteristiche antisioniste, il cui principale esponente è Rashid Rida, il quale evidenzia il pericolo per il mondo arabo rappresentato dal progetto sionista: sebbene voce poco ascoltata, quella di Rida può essere considerata la prima espressione di una specificità palestinese all’interno del movimento nazionalista arabo. Bisognerà però attendere gli anni ‘60 del secolo scorso per assistere all’emergere di una coscienza nazionale palestinese che nascerà proprio dalla mancata realizzazione di uno stato per la popolazione araba della Palestina. La nascita di questa coscienza nazionale porterà inoltre indirettamente a una ridefinizione dei confini geografici della Palestina stessa con la quale, oggi, si identifica un territorio ben più limitato di quello che definiva la Palestina storica
.
Gli ebrei dalla diaspora all’Europa del XIX secolo
La diaspora ebraica ha inizio nel 70 d.C. quando l’imperatore romano Tito pose fine, con l’assedio di Gerusalemme e la distruzione del Tempio, alle rivolte per l’indipendenza degli ebrei in Palestina. Fino al II secolo, quella verso gli ebrei è una persecuzione politica; è solo con l’affermarsi del Cristianesimo che essa assume connotati molto diversi con l’accusa, rivolta agli ebrei, di deicidio (definitivamente ritirata dalla Chiesa Cattolica nel 1962 con il Concilio Vaticano II): in quanto discendenti dei responsabili della crocifissione di Cristo, gli ebrei sono condannati all’odio universale e quindi, nel migliore dei casi emarginati, nel peggiore perseguitati. Per secoli, in occasione di epidemie, carestie, crisi, gli ebrei hanno rappresentato il capro espiatorio ideale per le popolazioni cristiane. Ciclicamente, nei vari paesi europei, essi sono stati vittime di espulsioni e massacri.
Da questo humus
determinato dall’imputazione di deicidio conseguono, nei secoli, due tipi di accuse: quella di manovrare la finanza e l’economia e quella di praticare rituali profanatori, sacrileghi e soprannaturali. La prima deriva principalmente dal fatto che le attività bancarie erano esercitate soprattutto da ebrei: si trattava di una delle poche attività economiche loro consentite anche perché il prestito su pegno veniva considerato moralmente illecito per un cristiano fino ad essere addirittura vietato dalle norme canoniche. Nel carattere stesso della seconda sono palesi quegli elementi che nel Medio Evo hanno portato sul rogo centinaia di streghe
, eretici o semplicemente diversi
.
Per tutto questo periodo, nonostante le difficoltà, gli ebrei si riuniscono in comunità, costituendo piccoli microcosmi dove fortissimo era il legame tra le attività della comunità (la politica, potremmo dire) e la religione. In questo non sono molto dissimili dalle altre forme di organizzazione politica e sociale che contraddistinguono il periodo medievale.
Quando però l’Europa sarà attraversata da quel grande movimento innovatore che è stato l’Illuminismo, le comunità ebraiche della diaspora ne rimarranno ai margini: mentre l’Illuminismo esalta l’individualismo, gli ebrei si richiudono nelle proprie comunità; alla rescissione del legame tra politica e religione, uno dei principi cardine dell’Illuminismo, gli ebrei contrappongono il tenace autoriconoscimento basato proprio sulla solidità di questo legame; al nascere di uno Stato centralizzato nel quale vengono riconosciuti i diritti individuali, ma contrastati quelli delle comunità, gli ebrei si riconoscono in entità
avulse da questo processo.
Nonostante questa biforcazione, con la Rivoluzione Francese e il riconoscimento dell’uguaglianza tra gli uomini, anche per gli ebrei emarginazione e discriminazione si allentano. Ma nel secolo successivo, con la nascita della scienza
delle razze
e una classificazione dei popoli che rappresenta la giustificazione scientifica ideale per il colonialismo del XIX secolo, esplode in Europa una nuova forma di discriminazione e persecuzione del popolo ebraico: l’antisemitismo. Dai pogrom in tutta l’Europa Orientale, culminati con quelli degli zar del 1881-1882, al caso Dreyfus in Francia (un ufficiale francese di ricca famiglia ebrea accusato, ingiustamente, di tradimento), le manifestazioni