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Il diario perduto del nazismo
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E-book619 pagine8 ore

Il diario perduto del nazismo

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Info su questo ebook

Dal vincitore del premio Pulitzer
Il libro evento dell’anno

I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg e del Terzo Reich

Nell’aprile del 2013, Robert Wittman, ex agente dell’FBI con grande esperienza nel recupero di reperti storici, ha ritrovato il diario di Alfred Rosenberg, il filosofo tedesco conosciuto come il padre dell’ideologia nazista e membro di spicco della ristretta cerchia di Hitler. 
Un documento unico e prezioso, ricco di riflessioni, conversazioni e progetti condivisi con il Führer, che aveva nominato Rosenberg capo ad interim del partito nazista, quando nel 1923 era stato arrestato per un fallito colpo di stato. Rosenberg aiutò a pianificare l’invasione nazista e la successiva occupazione dell’Unione Sovietica e nel 1933 fu nominato da Hitler Responsabile Esteri per il Partito. Il ruolo svolto da Rosenberg nel Terzo Reich e le tragiche conseguenze che ne sono derivate, non devono essere sottovalutati: le sue idee hanno gettato le basi per il lavaggio del cervello di un’intera nazione, e fornito alla gente il lasciapassare per il massacro di milioni di persone. Il diario, già rinvenuto negli ultimi giorni della seconda guerra mondiale, nascosto dietro una finta parete in un castello bavarese, era stato utilizzato come prova durante il processo di Norimberga. In seguito, le 425 pagine, che riportano anche i pensieri e le parole di Hitler nei giorni precedenti alla sua morte, scomparvero. Per anni studiosi di tutto il mondo e fanatici dell’ideologia nazista gli hanno dato inutilmente la caccia, finché Robert Wittman, dopo lunghe e faticose ricerche, lo ha riportato alla luce. Un viaggio avvincente e inquietante in uno dei momenti più bui della storia mondiale.

Dopo 70 anni torna alla luce il diario inedito del nazismo 
Un evento mondiale
Tradotto in 28 Paesi
Dal giornalista premio Pulitzer

«Un manoscritto illuminante di oltre 400 pagine, per quasi sessant’anni dato per disperso. Ci sono voluti due uomini – un ex agente dell’FBI e un ex archivista dell’Holocaust Memorial Museum di Washington – e una dozzina d’anni di ricerche per riportare alla luce questo prezioso documento: uno dei pochi diari scritti da un membro della cerchia più ristretta di Hitler giunti fino a noi.»
New York Times

«Non bastano le parole per raccomandare la lettura di questo volume. È un nuovo deciso atto d’accusa nei confronti del Terzo Reich, un ulteriore rafforzamento di quello che negli ultimi settant’anni è diventato un mantra: non dobbiamo dimenticare né, cosa ancora più importante, permettere che questa inumana pagina di storia si ripeta.»
New York Journal of Books
Robert K. Wittman
è un ex agente dell’FBI. Ha recuperato centinaia di milioni di dollari in arte e manufatti rubati finché, nell’aprile 2013, ha ritrovato il diario di Alfred Rosenberg.
David Kinney
giornalista e scrittore, ha vinto il prestigioso Premio Pulitzer. I suoi articoli appaiono sulle più prestigiose testate americane come il «New York Times», «Washington Post», «Philadelphia Inquirer», e «Los Angeles Times». Vive a Haddonfield in New Jersey.
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2016
ISBN9788854194441
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    Anteprima del libro

    Il diario perduto del nazismo - David Kinney

    356

    Titolo originale: The Devil’s Diary

    Copyright © 2016 by Robert K. Wittman and David Kinney.

    Published by arrangement with HarperCollins Publishers

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Daniele Ballarini

    Prima edizione: settembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9444-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Realizzazione: Paola Hage Chahine

    Copertina: © Getty Images

    Robert K. Wittman – David Kinney

    Il diario perduto del nazismo

    I segreti di Adolf Hitler nei diari inediti di Alfred Rosenberg e del Terzo Reich

    Per le nostre famiglie

    Occorrono numerose generazioni affinché i grandi cambiamenti filosofici si trasformino in vita pulsante. E, un giorno, fioriranno di nuovo perfino le nostre attuali distese di morte.

    ALFRED ROSENBERG

    A piccoli passi si finisce per cadere nello sterminio di massa, questa è la parte negativa. Bastano piccolissimi passi.

    ROBERT KEMPNER

    PROLOGO

    LA CRIPTA

    L’edificio incombeva dalla montagna sulla morbida distesa delle colline bavaresi, così graziose che le avevano soprannominate Gottesgarten, il Giardino di Dio.

    Dai villaggi e dalle fattorie lungo il sottostante fiume sinuoso, lo Schloss Banz appariva imponente. Le sue lunghe ali di pietra baciate dal sole assorbivano la luce dorata e un paio di guglie delicatamente rastremate spiccavano sulla sua chiesa barocca. Il sito aveva una storia millenaria: stazione commerciale, abbazia benedettina e castello fortificato per respingere gli eserciti. Era stato saccheggiato e distrutto in una guerra, poi ricostruito lussuosamente per la famiglia reale dei Wittelsbach. Re e duchi, una volta perfino l’imperatore Guglielmo II, ultimo Kaiser tedesco, avevano onorato con la loro presenza le sue ricchissime sale. Adesso, nella primavera del 1945, il colosso era l’avamposto di una famigerata squadra speciale che si era dedicata a razziare l’Europa occupata a maggior gloria del Terzo Reich.

    Dopo sei durissimi anni di guerra, avvicinandosi la sconfitta, i nazisti s’affaccendavano nell’intera Germania a bruciare gli archivi, prima che i documenti più compromettenti fossero requisiti e usati contro di loro. I funzionari che non avevano il coraggio di distruggere le proprie carte si disponevano a nasconderle nelle foreste, nelle miniere, in altri castelli e palazzi come questo. In tutto il Paese c’erano immense biblioteche di segreti che gli Alleati dovevano scoprire: dettagliati registri interni che gettavano luce sulla perversa burocrazia tedesca, sulle spietate strategie militari e sull’ossessivo progetto nazista di ripulire per sempre l’Europa dai suoi «elementi indesiderabili».

    Nella seconda settimana di aprile, i soldati della III e VII armata americana agli ordini dei generali George S. Patton e Alexander Patch invasero la regione. Alcune settimane prima avevano attraversato il Reno, occupato le plaghe occidentali di un Paese devastato, rallentati soltanto dai ponti crollati, dagli improvvisati blocchi stradali e dalle sacche di resistenza ostinata¹. Avevano attraversato le città rase al suolo dai loro bombardamenti, davanti a paesani dallo sguardo vacuo, a case su cui non sventolavano più i vessilli con la svastica, ma lenzuola e federe bianche. L’esercito tedesco era quasi interamente disintegrato. Hitler sarebbe morto dopo tre settimane e mezzo.

    Poco dopo l’arrivo nella regione, gli americani incontrarono una persona di alto lignaggio che sfoggiava monocolo e lucidi stivaloni. Kurt von Behr aveva trascorso la guerra a Parigi, si era accaparrato le collezioni private d’arte e aveva depredato gli arredi dalle abitazioni di decine di migliaia di ebrei, in Francia, Belgio e Olanda². Prima della liberazione della capitale francese, era fuggito insieme alla moglie verso Banz con tanti di quei tesori rubati da riempire un convoglio di undici automobili e quattro furgoni.

    Adesso Behr voleva giungere a un accordo.

    Si recò nella limitrofa cittadina di Lichtenfels e si rivolse a Samuel Haber, un ufficiale del governo militare. Sembra che, sotto i soffitti affrescati del castello, l’aristocratico si fosse abituato a vivere come un re³. Se Haber gli avesse consentito di rimanerci, lui gli avrebbe mostrato un nascondiglio pieno di importanti documenti nazisti.

    L’americano era interessato alla cosa. Si cercavano infatti informazioni sulle operazioni belliche e già si prospettavano i processi per crimini di guerra, sicché era stato ordinato alle forze d’occupazione di recuperare e salvare qualsiasi documento tedesco che fosse rintracciabile. Le forze di Patton avevano un reparto di spionaggio militare riservato appositamente a tale compito⁴. Nel solo mese di aprile, queste squadre speciali avrebbero requisito trenta tonnellate di dossier segreti.

    Accettando il suggerimento di Behr, gli americani si accinsero a recarsi in montagna, dopodiché entrarono nel palazzo per incontrare il padrone di casa. Questi li accompagnò in un profondo sotterraneo, dove dietro una falsa parete di cemento si celava una miniera di documenti nazisti riservati. L’archivio colmava l’enorme cripta. Gli incartamenti che non vi avevano trovato posto erano sparsi e ammassati sul pavimento.

    Dopo aver consegnato il proprio segreto, Behr, resosi conto che la sua proposta non lo avrebbe comunque salvato dalle conseguenze dell’umiliante sconfitta, si preparò a lasciare la scena in grande stile. Indossò una delle sue uniformi più belle e si chiuse con la moglie nella loro camera da letto. Sollevarono due flûte di champagne francese corretto con una dose di cianuro e brindarono alla fine di tutto. «L’episodio», scrisse un giornalista americano, «conteneva tutti gli elementi melodrammatici che piacevano tanto ai nazisti».

    I soldati trovarono il nazista e la moglie accasciati in mezzo al lusso della loro stanza privata. Mentre esaminavano i corpi, si accorsero della bottiglia mezza vuota ancora sul tavolino.

    La coppia aveva scelto un’annata particolarmente simbolica: 1918, l’anno in cui la loro amatissima patria era stata sconfitta alla fine di un’altra guerra mondiale⁵.

    I documenti nascosti nella cripta appartenevano ad Alfred Rosenberg, il principale ideologo di Hitler, membro della prima ora del Partito nazista e testimone della gestazione del movimento nato nel 1919, quando i nazionalisti tedeschi, amareggiati e infuriati per l’esito del conflitto, avevano riconosciuto il loro capo in Adolf Hitler, anch’egli reduce di guerra sbandato ma pronto a sobillare. Nel novembre 1923 Rosenberg era al seguito del suo eroe durante il tentativo di colpo di Stato in una birreria di Monaco, e si trovava a Berlino, un decennio dopo, allorché il partito prese il potere e cominciò a eliminare tutti i nemici. Era ancora sulla scena, offrendo il suo contributo, quando i nazisti rimodellarono la Germania a loro immagine e somiglianza. E rimase in auge fino alla fine, quando gli eventi bellici presero una brutta piega e l’intera concezione perversa crollò.

    Nella primavera del 1945, mentre scartabellavano nell’enorme deposito documentale, che includeva duecentocinquanta volumi tra corrispondenza ufficiale e privata, gli investigatori rinvennero qualcosa di eccezionale: il diario di Rosenberg.

    Si trattava di cinquecento pagine scritte a mano, in parte su un taccuino rilegato, perlopiù su fogli sparsi. Le annotazioni iniziavano nel 1934, a un anno dalla presa del potere da parte di Hitler, e terminavano un decennio dopo, pochi mesi prima della fine delle ostilità. Fra gli uomini più importanti della gerarchia nazista, gli unici a lasciare un diario furono lo stesso Rosenberg, Joseph Goebbels (il ministro della Propaganda) e Hans Frank (il brutale governatore generale della Polonia occupata dal Terzo Reich)⁶. Gli altri, compreso il Führer, portarono i loro segreti nella tomba. Il diario di Rosenberg prometteva quindi di fare luce sul funzionamento e sui meccanismi del regime visti dalla prospettiva di un uomo che aveva agito ai più alti gradi del Partito nazista per un quarto di secolo.

    Al di fuori della Germania, Rosenberg non fu mai celebre come Goebbels, Heinrich Himmler (l’ideatore delle forze di sicurezza – SS), o Hermann Göring (ministro dell’Aviazione e responsabile dell’economia nazionale). Rosenberg dovette lottare contro questi giganti per ritagliarsi il posto che riteneva di meritare fra le gerarchie tedesche. Tuttavia, dall’inizio alla fine non gli mancò mai il sostegno di Hitler. Lui e il Führer vedevano le cose allo stesso modo, avevano le stesse idee sulle questioni fondamentali, e la fedeltà di Rosenberg non fu mai in discussione. Hitler lo destinò a tutta una serie di cariche all’interno del partito e del governo, elevandolo nella considerazione generale e assicurandogli un’influenza di vasta portata. I rivali berlinesi di Rosenberg lo detestavano, ma la base del partito lo ammirava e lo riteneva un grande pensatore, uno dei personaggi più rilevanti, capace di farsi ascoltare da Hitler.

    Si sarebbe rintracciata la sua impronta su alcuni dei peggiori crimini della Germania nazista.

    Fu lui a orchestrare il furto delle opere d’arte, degli archivi e delle biblioteche, da Parigi a Cracovia, fino a Kiev: il bottino che i «Monuments Men» dell’esercito alleato avrebbero recuperato in seguito nelle saline e nei castelli tedeschi.

    Nel 1920 era stato lui a inoculare nella mente di Hitler la perfida idea dell’esistenza di un complotto mondiale ebraico alla base della rivoluzione comunista che aveva trionfato in Russia, cosa che ribadiva all’infinito. Fu Rosenberg il campione di una teoria che il Führer avrebbe preso a pretesto due decenni dopo per giustificare la brutale invasione ai danni dell’Unione Sovietica. Mentre i nazisti si apprestavano a piombare sui sovietici, Rosenberg promise che la guerra sarebbe stata «una rivoluzione globale di pulizia biologica» con cui si sarebbero definitivamente sterminati «tutti i germi infettivi della razza giudaica e dei suoi bastardi»⁷. Nei primi anni del conflitto sul fronte orientale, quando i tedeschi stavano respingendo l’Armata Rossa a Mosca, Rosenberg fu a capo delle autorità d’occupazione che terrorizzarono gli Stati baltici, la Bielorussia e l’Ucraina, e i suoi uomini collaborarono con gli incaricati del genocidio ebraico agli ordini di Himmler in tutti i Paesi orientali⁸.

    Fu lui stesso, fra gli altri, a gettare le basi per l’avvio dell’Olocausto. Aveva cominciato a pubblicare le sue idee velenose sugli ebrei fin dal 1919: in quanto direttore del giornale di partito e autore di articoli, opuscoli e libri, diffuse un messaggio di odio sconfinato. Dopodiché divenne il delegato nazionale per le questioni ideologiche; tutte le città e i villaggi del Reich lo accoglievano con stendardi e folle esultanti. Il suo capolavoro teorico, Il mito del XX secolo, vendette più di un milione di copie ed era considerato il testo fondamentale dell’ideologia nazista, insieme al Mein Kampf hitleriano. Nei suoi ridondanti scritti, Rosenberg mutuava idee antiquate sulle razze e sulla storia mondiale da altri pseudointellettuali, amalgamandole in un peculiare sistema di credenze politiche. I capetti nazisti dei vari distretti gli dicevano che nei loro discorsi citavano sempre le sue parole a memoria. «Qui», si vantava lui nel suo diario, «essi trovano le istruzioni e il materiale per la battaglia»⁹. Rudolf Höss, comandante del campo di concentramento di Auschwitz, dove furono sterminate più di un milione di persone, disse che a prepararlo psicologicamente alla missione erano state le parole di tre uomini: Hitler, Goebbels e Rosenberg¹⁰.

    Un ideologo del Terzo Reich era capace di far sì che la sua filosofia fosse messa in pratica, e quella di Rosenberg ebbe conseguenze letali.

    «Sono preso continuamente dalla collera», scriveva nel diario, «ogni volta che penso a cosa hanno fatto alla Germania questi parassiti di ebrei. Ma almeno mi resta una soddisfazione: aver contribuito in parte a svelare il tradimento»¹¹. Le sue idee legittimarono e giustificarono l’omicidio di milioni di persone.

    Nel novembre 1945, si riunì a Norimberga un Tribunale militare internazionale per accusare di crimini bellici i più famigerati nazisti ancora in vita. Rosenberg era fra gli imputati. Il procedimento si basava sulla gran quantità di documenti tedeschi requisiti dalle forze d’occupazione alleate alla fine del conflitto. Durante il processo, Hans Fritzsche, accusato di crimini bellici per il suo ruolo di direttore del Reparto informazioni al ministero della Propaganda, disse allo psichiatra della prigione che Rosenberg aveva svolto una funzione cruciale per la formazione della filosofia hitleriana negli anni Venti, prima che i nazisti prendessero il potere. «Secondo me, lui esercitava un influsso notevolissimo su Hitler nel periodo in cui il nostro Führer stava elaborando il suo pensiero», raccontò Fritzsche, che a Norimberga sarebbe stato assolto, anche se poi venne condannato a nove anni di prigione da un tribunale tedesco di denazificazione. «L’importanza di Rosenberg è conclamata perché le sue idee, che erano solo teoriche, divennero realtà a opera di Hitler… La cosa tragica è che le sue teorie fantasiose furono messe in pratica davvero».

    In un certo senso, ipotizzava Fritzsche, a Rosenberg andava attribuita «la colpa principale per tutti quelli che siedono qui, sul banco degli imputati»¹².

    A Norimberga, Robert H. Jackson, il procuratore capo americano, definì Rosenberg «il sacerdote supremo, l’intellettuale della razza superiore»¹³. La giuria lo ritenne colpevole di crimini bellici e, il 16 ottobre 1946, la sua vita andò incontro all’inevitabile fine per impiccagione nel cuore della notte.

    Nei decenni successivi, gli storici hanno tentato di comprendere i motivi e le modalità della più grande catastrofe del secolo spulciando fra i milioni di documenti scovati dalle truppe di occupazione nella Germania sconfitta. La mole di carte pervenute era enorme: registrazioni militari segrete, inventari dettagliati dei saccheggi effettuati, diari privati, carteggi diplomatici, trascrizioni di conversazioni telefoniche, agghiaccianti promemoria burocratici per l’esecuzione degli stermini di massa. Nel 1949 si chiusero le assise di Norimberga, i procuratori americani terminarono la loro opera e i dossier tedeschi che erano stati requisiti vennero inviati via mare in un silurificio sulle rive del Potomac, ad Alexandria (Virginia). Lì, furono catalogati per l’inserimento nei National Archives. Se ne fecero dei microfilm, e col tempo gran parte degli originali tornò in Germania.

    Ma accadde qualcosa di diverso al diario di Rosenberg: esso non arrivò mai a Washington. Non fu mai trascritto, tradotto e studiato nel suo complesso dagli storici del Terzo Reich.

    Quattro anni dopo esser stato rinvenuto nella cripta del palazzo bavarese, il diario scomparve.

    ¹ After Action Report. Third US Army, 1 August 1944-49 May 1945, vol. 1: The Operations, p. 337.

    ² Dreyfus - Gensburger, Nazi Labour Camps, p. 9, 130.

    ³ Marguerite Higgins, Americans Find Nazi Archive in Castle Vault, «New York Herald Tribune», 24 aprile 1945.

    After Action Report. Third US Army, 1 August 1944-9 May 1945, vol. 2: Staff Section Reports, p. 47.

    ⁵ M. Higgins, op. cit.

    ⁶ I diari pervenuti di Himmler si interrompono al 1924. Molte le figure minori del regime nazista che lasciarono dei diari.

    ⁷ Office of the U.S. Chief of Counsel for Prosecution of Axis Criminality, Nazi Conspiracy and Aggression, vol. 5, pp. 554-57.

    ⁸ Vedi Ernst Piper, Vor der Wannsee-Konferenz: Auswertung der Kampfzone, «Der Tagesspiegel», 11 dicembre 2011.

    ⁹ Diario di Rosenberg, 23 agosto 1936.

    ¹⁰ Gilbert, Nuremberg Diary, pp. 267-68.

    ¹¹ Diario di Rosenberg, 23 agosto 1936.

    ¹² Goldensohn, The Nuremberg Interviews, pp. 73-75.

    ¹³ Arringa finale di Robert Jackson, procuratore capo americano, Trial of the Major War Criminals, vol. 19, p. 416.

    OGGETTI SMARRITI

    1949-2013

    1

    IL CROCIATO

    Quattro anni dopo la fine della guerra, nell’aula 600 del palazzo di giustizia di Norimberga un procuratore aspettava che fosse pronunciato il verdetto. Sarebbe stata la parola definitiva contro i criminali nazisti portati alla sbarra dagli americani, e Robert Kempner aveva investito tutto su quest’esito.

    Pugnace, caparbio, instancabile collaboratore dal gusto spiccato per gli intrighi, quest’avvocato quarantanovenne aveva affrontato la vita a muso duro, quasi invitando gli avversari, e ce n’erano tanti, a farsi avanti. Benché fisicamente poco prestante (1,72 centimetri di altezza, corporatura esile e cranio quasi calvo), Kempner ostentava un carattere che sfidava gli altri a dimostrare le loro capacità. A seconda del punto di vista, poteva apparire carismatico o presuntuoso, impegnato o dogmatico, campione delle cause giuste o cialtrone da quattro soldi.

    Egli aveva dedicato quasi vent’anni della sua vita a combattere Hitler e i nazisti, gli ultimi quattro dei quali trascorsi in quella città distrutta dalla megalomania del Führer e dalle bombe alleate. La sua lotta personale era al contempo una vicenda di portata universale: la battaglia che portò avanti per la propria vita, infatti, fu quella di molti uomini di quell’epoca, e pertanto una battaglia globale. All’inizio degli anni Trenta, Kempner era un giovane funzionario di polizia a Berlino e, a suo avviso, occorreva che la Germania arrestasse Hitler e i suoi seguaci per alto tradimento prima che potessero rovesciare la repubblica e instaurare il loro programma di terrore. Pochi giorni dopo l’ascesa al potere dei nazisti, nel 1933, lui che era ebreo, di tendenze politiche liberali e dichiarato oppositore del nuovo regime, perse il suo posto statale. Dopo una breve permanenza in carcere nel 1935, con annesso interrogatorio della Gestapo, fuggì prima in Italia e poi in Francia, approdando infine negli Stati Uniti, dove proseguì la sua campagna. Attingendo a una biblioteca di documenti tedeschi e a una rete di informatori, aiutò il ministero della Giustizia statunitense a incriminare i propagandisti nazisti all’opera negli USA e fornì notizie sul Terzo Reich al ministero della Guerra americano, ai servizi segreti dell’OSS (organo precursore della CIA) e all’FBI di Edgar Hoover.

    Dopodiché, con un colpo di scena degno di un copione hollywoodiano, rimpatriò per contribuire a processare gli stessi uomini che lo avevano destituito da poliziotto, nonché demonizzato per la sua appartenenza alla razza ebraica, privato della cittadinanza tedesca e reso esule per salvarsi.

    Dopo che Göring, Rosenberg e gli altri aguzzini del regime crollato vennero giudicati per i loro reati nel famoso processo internazionale, Kempner rimase a Norimberga per altre dodici cause che gli americani intentarono contro 177 fiancheggiatori del nazismo: medici che avevano eseguito raccapriccianti esperimenti sui reclusi nei campi di concentramento, funzionari delle SS che avevano causato la morte dei prigionieri, dirigenti d’azienda che avevano sfruttato i lavori forzati, comandanti delle unità operative che avevano massacrato i civili in tutta l’Europa orientale durante la guerra.

    Lui stesso istruì il Caso 11, il più lungo e ostico, denominato Processo contro i funzionari dei ministeri perché la maggior parte degli accusati aveva detenuto una carica di primo piano negli uffici governativi di Wilhelmstrasse, a Berlino. Il personaggio di spicco, Ernst von Weizsäcker, segretario di Stato al ministero degli Esteri, aveva preparato l’invasione della Cecoslovacchia e approvato personalmente la deportazione di più di seimila ebrei dalla Francia al campo di Auschwitz. Il criminale più crudele era Gottlob Berger, un alto grado delle SS che assemblò uno squadrone della morte noto per la propria brutalità. «Meglio ammazzare due polacchi in più», scrisse a proposito della sua unità operativa, «che due in meno»¹. Gli imputati più inquietanti erano i banchieri che non si erano limitati a finanziare la costruzione dei campi di sterminio, ma avevano accumulato tonnellate di otturazioni dentali in oro, gioielli e occhiali strappati alle vittime che in quei campi erano state detenute.

    Il processo era in corso dalla fine del 1947, e ora, il 12 aprile 1949, era quasi giunto a conclusione². I tre giudici americani entrarono in aula, salirono sul loro banco e cominciarono a leggere la sentenza ad alta voce. Era lunga ottocento pagine e impiegarono tre giorni per recitarla tutta. Dall’altra parte dell’aula, sorvegliati dai militari immobili sotto i loro elmetti luccicanti, i nazisti ascoltavano negli auricolari la traduzione in tedesco del verdetto che gli interpreti decifravano man mano. Quando tutto fu finito, si capì che diciannove dei ventuno imputati erano stati condannati, cinque dei quali per il reato che a Norimberga era una pietra miliare: crimini contro la pace. A Weizsäcker toccarono sette anni di carcere, a Berger venticinque, per i tre banchieri le pene variarono dai cinque ai dieci anni.

    Una grande vittoria per la pubblica accusa. Dopo aver compulsato tutti i documenti nazisti e interrogato centinaia di testimoni per più di quattro anni, essa era riuscita a far condannare e rinchiudere i criminali peggiori. Si era dimostrato al mondo che le complicità per l’Olocausto si erano radicate e diffuse nella società e nel governo tedesco. Kempner disse che era stato dipinto «l’intero affresco criminale»³ del Terzo Reich, così da ribadire il ruolo di Norimberga nella storia in quanto «fortezza della fiducia nel diritto internazionale»⁴. I pubblici ministeri avevano corroborato la possibilità di agire efficacemente contro i crimini di guerra.

    E quelle sentenze rappresentavano l’apice della lunga campagna di Kempner per combattere il nazismo.

    O perlomeno avrebbero dovuto.

    Nell’arco di pochi anni, la promessa di Norimberga si sarebbe infranta.

    I processi avevano attirato in quest’intervallo di tempo le critiche sia in Germania che in Austria. I detrattori non vi rintracciavano un esempio di giustizia, ma un desiderio di vendetta, e Kempner, col suo carattere irritante e la sua aggressività negli interrogatori, divenne il simbolo di quella presunta ingiustizia. In particolare, si puntò il dito contro il suo accanimento ai danni di Friedrich Gaus, un ex diplomatico nazista, il testimone che Kempner aveva minacciato di consegnare ai sovietici con l’accusa di crimini bellici. Un altro procuratore americano, suo collaboratore nel processo, definì «insensata» la tattica di Kempner, temendo che avrebbe «fatto assurgere al martirio alcuni delinquenti comuni sotto processo»⁵.

    Un altro teste contro-interrogato da Kempner lo definì «molto simile agli uomini della Gestapo»⁶.

    Nel 1948 Kempner fu coinvolto in un aspro dibattito pubblico con Theophil Wurm, un vescovo protestante, sull’onestà delle procedure penali. Il vescovo gli scrisse una lettera aperta di protesta, e lui rispose sostenendo che chiunque mettesse in discussione le assise di Norimberga era nei fatti un «nemico del popolo tedesco». La divergenza di opinioni trovò vasta eco sulla stampa, e il nostro pubblico ministero venne messo alla gogna sui giornali, dove fioccavano le caricature dell’ipocrita ebreo in esilio assetato di vendetta⁷.

    La censura nei suoi confronti venne perfino da Joseph McCarthy, il senatore americano il cui collegio elettorale, nel Wisconsin, includeva un gran numero di americani di origine tedesca. Il senatore era contrario all’azione giudiziaria contro Weizsäcker perché, secondo le sue fonti (mai rivelate), durante il conflitto questi era stato un prezioso agente sotto copertura al servizio degli USA. Disse che Norimberga stava ostacolando la raccolta di informazioni segrete in Germania e, nella primavera del 1949, avvisò la Commissione senatoriale sui servizi armati di voler indagare sulla «totale imbecillità» del processo contro Weizsäcker.

    «Credo che questa Commissione», tuonava McCarthy, «debba rendersi conto di quale specie di idioti, e lo dico a ragion veduta, stia presiedendo la corte militare laggiù»⁸.

    Quando i dibattimenti furono conclusi, i giurati americani per punire i crimini di guerra condannarono più di mille nazisti a varie pene detentive. La maggioranza dei condannati finì per languire a Landsberg, un carcere nei pressi di Monaco. Numerosi tedeschi rifiutavano di riconoscere l’autorità delle corti nominate dagli Alleati e non consideravano questi nazisti ridotti in ceppi dei criminali di guerra, bensì le vittime di un sistema giudiziario illegale. La questione divenne un motivo di contrasto ancora maggiore dopo che la Germania Ovest elesse il suo primo Cancelliere nel 1949, in un periodo in cui gli Stati Uniti, inquieti per i piani dell’URSS in Europa, si adoperavano per risollevare il nemico sconfitto e trasformarlo in un alleato fedele e rimilitarizzato.

    I fatti della Guerra Fredda ci misero poco a disfare le conquiste dei pubblici ministeri che avevano voluto punire i nazisti.

    Nel 1951, in seguito alla revisione di alcune sentenze, l’Alto commissario americano mise in libertà un terzo dei condannati di Norimberga e commutò tutte le condanne a morte, tranne cinque. Alla fine di quell’anno, tutti i criminali che Kempner aveva contribuito a far incarcerare erano di nuovo liberi. Sebbene la riduzione delle pene venisse fatta passare come un atto di clemenza, i tedeschi vi colsero un messaggio diverso: gli USA avevano finalmente riconosciuto che i tribunali erano stati ingiusti. Kempner protestò contro la decisione: «Oggi voglio che si registri la mia presa di posizione, e dico che la precoce apertura dei cancelli di Landsberg sguinzaglia nella società le forze sovversive e totalitarie che metteranno in pericolo il mondo libero»⁹.

    Il suo avvertimento rimase inascoltato. I leader americani cedettero al pragmatismo politico ed entro il 1958 quasi tutti i criminali di guerra erano di nuovo a piede libero¹⁰.

    La battaglia di Robert Kempner era lungi dall’essere finita. Egli aveva trascorso quattro anni a studiare le prove documentali dei reati nazisti e sapeva che, perfino dopo i processi tenutisi sotto i riflettori della stampa internazionale, il mondo non conosceva ancora tutta la storia.

    Irritato dal tentativo revisionista dei sopravvissuti al Terzo Reich di riabilitare la storia della Germania nazista, decise di usare la stampa per reagire. «Con una nostalgia più o meno dichiarata», scrisse sul «New York Herald Tribune», «molti scrittori tedeschi raccontano ai loro connazionali che la Germania se la sarebbe cavata se il Führer non avesse un po’ esagerato»¹¹. Lui non ci stava. Se la prendeva con i ritratti angelici di Hitler sulla stampa destrorsa, con i militari secondo cui i generali avrebbero potuto evitare l’ignominia alla Germania se Hitler non si fosse immischiato nelle strategie belliche, e con gli sforzi dei diplomatici nazisti di insabbiare tutto.

    Kempner esigeva che in Germania fossero pubblicati i fatti che erano emersi a Norimberga. «Questo è l’unico modo per opporsi al sistematico avvelenamento delle menti dei cittadini che sta avvenendo sotto i nostri occhi nella neonata repubblica federale».

    Tuttavia, poco tempo prima di vergare queste frasi, aveva commesso un’azione contraria allo spirito divulgativo. In pratica, aveva sottratto importanti documenti originali dei processi, portandoseli a casa dopo Norimberga; e ormai, anche se esistevano delle copie, nessuno sapeva dove fossero.

    Nella sua funzione di pubblico ministero, Kempner aveva facoltà di pretendere i documenti di cui aveva bisogno per istruire le pratiche. Più volte ci fu chi sollevò obiezioni sulla sua maniera di gestire i faldoni. L’11 settembre 1946, il capo della Divisione incartamenti scrisse in un promemoria che l’ufficio di Kempner aveva preso a prestito cinque documenti senza più restituirli. «Devo aggiungere che questa non è affatto la prima volta in cui la divisione ha dovuto penare parecchio per indurre il dottor Robert Kempner a restituire libri e documenti appartenenti alla biblioteca»¹².

    Nel 1947, Kempner guadagnò una notevole fama tra i procuratori americani per la sua gestione del documento più importante pervenuto sull’Olocausto. Poco dopo esser tornato a Norimberga per la seconda serie di dibattimenti, aveva ordinato ai suoi collaboratori di scandagliare i registri del ministero degli Esteri tedesco che erano stati recuperati dal luogo in cui li si teneva nascosti (sui monti Harz) e portati a Berlino. Un giorno, uno dei suoi aiutanti s’imbatté in un documento di una quindicina di cartelle. «Le seguenti persone», esordiva il documento, «hanno preso parte alla discussione sulla soluzione finale per la questione ebraica, che si è tenuta a Berlino il 20 gennaio 1942 al numero 56/58 di Grossen Wannsee». Era il protocollo di Wannsee, in cui si descriveva la riunione presieduta da Reinhard Heydrich, capo dell’Ufficio centrale di sicurezza del Reich di Himmler, affinché si giungesse all’«evacuazione» di tutti gli ebrei d’Europa¹³.

    Alcuni mesi dopo la scoperta del documento, uno dei colleghi americani, il procuratore Benjamin Ferencz, alzò lo sguardo dalla sua scrivania e vide che Charles LaFollette stava entrando infuriato nel suo ufficio. «Voglio uccidere quel figlio di puttana!», gridava. LaFollette era pubblico ministero in un altro processo di Norimberga, quello contro gli avvocati e i magistrati nazisti, ed era venuto a sapere del protocollo di Wannsee, ma Kempner non aveva nessuna intenzione di consegnarglielo. Era in atto una competizione fra i tanti procuratori incaricati della pubblica accusa e Kempner voleva presumibilmente svelare in anteprima quel documento esplosivo nei dibattiti processuali che stava preparando.

    Ferencz si recò nell’ufficio di Kempner per mediare. Quest’ultimo smentì di voler trattenere alcunché. Ferencz non si fece convincere. Infine, dopo esser stato assillato, Kempner aprì il cassetto inferiore della sua scrivania e chiese con aria innocente: «È questo, per caso?».

    LaFollette s’accorse subito dell’importanza del documento per la sua causa: il ministero della Giustizia del Reich aveva inviato un suo rappresentante a quel cruciale incontro. Allora si affrettò a riferire le circostanze a Telford Taylor, procuratore capo in tutti i processi, chiedendogli di «licenziare quel bastardo». Ferencz andò immediatamente dal procuratore capo per difendere Kempner, sostenendo che il processo contro i funzionari dei ministeri si sarebbe certamente insabbiato se Kempner fosse stato escluso da Norimberga. E poi aveva tenuto per sé il protocollo in modo del tutto involontario…

    «Nessuno ci credette», avrebbe scritto alcuni anni dopo Ferencz a Kempner¹⁴. Comunque, Taylor si mise dalla parte del procuratore che doveva inchiodare i funzionari.

    Kempner non era l’unico a Norimberga ad accantonare incartamenti nazisti originali per usarli poi a scopo personale. Alla fine del conflitto, gli archivi sequestrati erano stati imbarcati verso i vari centri di documentazione militare, spediti in volo a Parigi, Londra e Washington, dove sarebbero stati studiati dai servizi d’informazione, prima di essere inviati di nuovo a Norimberga per i processi in preparazione. Mentre si svolgeva questo traffico in Europa, i cacciatori di cimeli ebbero un mucchio di occasioni per trafugare carte intestate naziste, firmate da qualche personaggio importante sotto la solita formula di commiato: Heil Hitler! I responsabili della salvaguardia di questi documenti si premuravano in particolare per gli addetti della pubblica accusa a Norimberga. Temevano che coloro i quali richiedevano qualche dossier fossero «guidati più da un istinto giornalistico privato che dal desiderio di promuovere la causa della giustizia»¹⁵, come si esprimeva un ufficiale dell’esercito in una nota. Un altro osservatore ne concluse che la Divisione incartamenti di Norimberga non facesse molti sforzi per tener aggiornato il flusso dei dati.

    Un importantissimo documento che andò smarrito fu l’agenda dell’aiutante militare di Hitler, Friedrich Hossbach, dalla quale si deduceva che il Führer stava progettando di conquistare l’Europa fin dal 1937; durante i processi, i procuratori dovettero basarsi solo su una copia autenticata. Uno storico che curava la pubblicazione degli archivi tedeschi posti sotto sequestro dopo la guerra chiese a Kempner che fine avesse fatto l’agenda, e lui replicò che ricordava di averla vista ma che probabilmente «qualche cacciatore di cimeli aveva sottratto l’originale». Nel settembre 1946, gli amministratori di uno dei centri di documentazione militare smisero di dare in prestito gli originali ai team dei procuratori di Norimberga perché temevano di non ricevere più indietro le migliaia di prove cartacee che gli affidavano.

    Per l’intera durata dei processi, il palazzo di giustizia di Norimberga fu sommerso di carte¹⁶. Una rassegna completata nell’aprile 1948 accertava la presenza di 1800 metri cubi di «documenti amministrativi, negativi e comunicati stampa, materiale cinematografico, nastri di registrazioni giudiziarie e di interrogatori, libri e pubblicazioni di vario genere, documenti originali e copie, copie fotostatiche, libri documentari, verbali giudiziari, registri carcerari, verbali degli interrogatori, riassunti dei verbali degli interrogatori e trascrizioni di tutte le analisi delle prove presentate in giudizio».

    C’era tanto di quel materiale da preoccupare i funzionari, dato che qualche documento originale sarebbe potuto finire inavvertitamente nel pattume. Come scrisse in seguito Kempner nelle sue memorie, era «un caos terribile», e lui non si fece scrupoli ad avvantaggiarsene.

    Ufficialmente era perché temeva che non venissero archiviati a dovere documenti potenzialmente esplosivi, quindi s’incaricò di far sì che fossero sfruttati al meglio. Nelle sue memorie, ammise che se un ricercatore «abile e interessato» lo avesse avvicinato durante le assise per chiedergli qualche dossier di rilievo, lo avrebbe lasciato sul divano del suo ufficio, dopodiché sarebbe uscito dalla stanza dicendogli: «Non voglio saperne niente»¹⁷.

    Meglio mettere «un prezioso bene storico» nelle mani di un sodale fidato, il quale ne avrebbe riferito fedelmente il contenuto, pensava, che lasciarlo in mano a burocrati governativi che magari lo avrebbero fatto distruggere.

    Dopo i processi, si supponeva che tutti i documenti originali venissero restituiti ai centri di documentazione militare, ma Kempner voleva usare quelli di cui era venuto in possesso per scrivere libri e articoli sull’era nazista. L’8 aprile 1949, alcuni giorni prima che fossero pronunciati i verdetti contro i funzionari dei ministeri, il procuratore mise al sicuro una breve lettera di Fred Niebergall, direttore della Divisione incartamenti per la pubblica accusa: «Il sottoscritto autorizza Robert M.W. Kempner, vice segretario del Consiglio e capo procuratore della Divisione politica, a ritirare e trattenere materiale non classificato inerente ai processi per crimini di guerra svoltisi a Norimberga, Germania, per scopi di ricerca, studio e consultazione»¹⁸. Una nota interna piuttosto insolita. In seguito, un avvocato che lavorava per il Servizio di informazione militare avanzò seri dubbi sul fatto che un uomo nella posizione di Niebergall avesse potuto firmare una direttiva simile.

    Nella stessa giornata Kempner spedì una missiva alla casa editrice E.P. Dutton di New York con la sinossi per un volume basato sui suoi interrogatori a Norimberga e sui documenti del ministero degli Esteri tedesco, proponendo questo titolo: Hitler and His Diplomats¹⁹. Era da gennaio che lavorava all’impostazione del libro, e un redattore interno alla Dutton si era mostrato interessato, chiedendogli altri dettagli.

    In seguito si sarebbe appreso che questa era solo una delle tante idee editoriali di Kempner nel 1949.

    Qualche decennio dopo, nelle sue memorie avrebbe spiegato lui stesso le ragioni per cui aveva sottratto quei documenti: «Sapevo una cosa. Se avessi mai voluto scrivere qualcosa e avessi dovuto contattare gli archivi, mi avrebbero magari fornito risposte cortesi, dicendomi però che non erano in grado di rintracciare una parte del materiale. In questo modo, invece, io avevo i miei documenti»²⁰.

    Una giustificazione meschina. Ciò che voleva davvero Kempner era l’esclusività, un vantaggio importante su altri scrittori che avessero voluto documentare l’epoca nazista.

    Con l’autorizzazione in mano, il procuratore fece imballare le carte di Norimberga, spedendole insieme al resto del materiale accumulato nel suo periodo come pubblico ministero al di là dell’Atlantico, verso la sua residenza alla periferia di Philadelphia. La consegna arrivò alla stazione ferroviaria di Lansdowne (Pennsylvania) il 4 novembre 1949: si trattava di 29 scatole eccedenti il peso di 360 chilogrammi²¹.

    Hitler and His Diplomats non vide mai la luce. Sembra che Kempner si fosse fatto sviare dal suo proposito. Trovò comunque un altro modo per perseguire i crimini del Terzo Reich: aprì uno studio legale a Francoforte e, fra le altre pratiche, cominciò a curare gli interessi delle vittime del nazismo che chiedevano un risarcimento²². Rappresentò in giudizio Erich Maria Remarque, l’autore di Niente di nuovo sul fronte occidentale, il best seller sulla Prima guerra mondiale, che era stato vietato e bruciato dai nazisti. Fu procuratore di Emil Gumbel, un esimio docente di matematica all’università di Heidelberg che era stato privato della cattedra a causa del suo pacifismo. Sostenne in aula le rivendicazioni di ebrei, cattolici e membri della Resistenza. Per Kempner, un filone assai redditizio.

    Un decennio dopo i processi di Norimberga, ricominciarono le accuse giudiziarie contro i criminali nazisti. Un processo del 1958 nella Germania Ovest riaccese l’attenzione sulle atrocità che si pensava fossero ormai alle spalle. Vennero incriminati dieci nazisti per lo sterminio di 5000 ebrei lituani durante la guerra, e da questo caso presero le mosse i ministri della Giustizia tedeschi, allarmati dal fatto che tanti assassini fossero sfuggiti alla giusta pena, per fondare a Ludwigsburg l’Ufficio centrale per le indagini sui crimini nazisti.

    Nel contempo, i pubblici ministeri di altri Paesi non smisero di portare alla sbarra altri casi che suscitavano enorme scalpore. Nel 1961, Kempner tornò alla ribalta internazionale prendendo l’aereo per Gerusalemme, dove fu uno dei testimoni nel processo contro Adolf Eichmann, l’uomo che aveva gestito la deportazione degli ebrei di tutta Europa. E in una serie di altri processi clamorosi tenutisi in quel decennio, egli rappresentò legalmente i parenti delle vittime. Fu l’avvocato del padre di Anna Frank e della sorella della suora carmelitana Edith Stein in una causa contro tre ufficiali delle SS accusati dello sterminio di migliaia di ebrei olandesi. Rappresentò la vedova di un giornalista pacifista ucciso da una camicia bruna nel 1933. Parlò in nome di 30.000 ebrei berlinesi nel processo contro un comandante della Gestapo, Otto Bovensiepen, colui che aveva architettato la loro deportazione nei campi orientali.

    Kempner capitalizzò la rinnovata attenzione verso i crimini nazisti scrivendo una serie di libri su questi e altri casi che appassionavano il pubblico tedesco²³. Pubblicò inoltre brani estratti dai suoi interrogatori a Norimberga e, nel 1983, le sue memorie autobiografiche, Ankläger einer Epoche (Procuratore di un’epoca). Sebbene avesse ottenuto la naturalizzazione come cittadino americano nel 1945, i suoi libri non venivano editi in inglese, e la sua fama si attestò soprattutto nel suo Paese d’origine.

    Quarant’anni dopo Norimberga, Kempner teneva ancora la guardia alta. Quando la Deutsche Bank acquistò la conglomerata industriale Flick, lui riuscì a far pressioni sull’azienda affinché risarcisse per più di due milioni di dollari i 1300 ebrei che erano stati costretti a lavorare come schiavi nelle fabbriche di polvere da sparo per una consociata della Flick al tempo della guerra.

    La battaglia antinazista finì per essere il suo marchio personale. Il procuratore rifiutava fermamente che il mondo dimenticasse le atrocità commesse dagli aguzzini del Reich. Se gli obiettavano che un certo nazista non sembrava essere una persona tanto malvagia, lui attingeva immediatamente ai suoi archivi per dimostrare il contrario.

    «Ci sono letteralmente migliaia di assassini ancora a piede libero in Germania e nel mondo», disse una volta a un cronista. «Quanti criminali nazisti sono tuttora liberi? Giudicate voi». Nonostante tutti i processi svoltisi nel dopoguerra, solo poche migliaia di tedeschi vennero effettivamente accusati di omicidio davanti a un tribunale. «Sapete dirmi come hanno fatto circa duemila persone a massacrare dai sei agli otto milioni di individui? È matematicamente impossibile»²⁴.

    Trenta, quaranta, cinquant’anni dopo la fine dell’era hitleriana, lui continuava a rifiutare di arrendersi, e proseguì la sua lotta fino alla fine della sua esistenza.

    Pur facendo la spola fra Stati Uniti ed Europa per tenere in vita i suoi affari legali, Kempner riuscì a portare avanti un complicato ménage domestico. Il suo studio legale era a Francoforte, ma siccome lui era diventato cittadino americano, la residenza principale si trovava a Lansdowne, in Pennsylvania, dove si era sistemato al tempo della guerra. Ci viveva con la seconda moglie, Ruth (assistente sociale e anche lei scrittrice), l’anziana suocera Marie-Luise Hahn, la sua segretaria Margot Lipton²⁵ e, negli anni Cinquanta, un figlio, André.

    La famiglia Kempner aveva un segreto: la madre del ragazzo non era Ruth, come raccontavano a tutti, ma Margot. Infatti Kempner e la segretaria avevano avuto una relazione nel 1938.

    André crebbe nella convinzione di essere figlio adottivo dei Kempner. Nei registri scolastici, Ruth figurava come sua madre. Così era più semplice. «Più semplice», rilevò la Lipton, «per il signor Kempner»²⁶. André e il suo fratello maggiore Lucian, avuto da Robert con la prima moglie, avrebbero saputo la verità solo parecchi anni dopo. Non che non avessero dei sospetti. Durante le nozze di André, in Svezia, tutti si stupirono della straordinaria somiglianza fra Margot e lo sposo.

    I figli di Kempner erano troppo rispettosi per porre delle domande. «Mi limitavo ad accettare quel che diceva mio padre», spiegò Lucian. «Del resto, non erano fatti miei»²⁷.

    André, a prescindere da quel che sapesse, crebbe nell’adorazione del padre. Dopo essersi trasferito a ventinove anni in Svezia con la moglie per condurre una fattoria, continuò a tenere una regolare corrispondenza con la famiglia di origine. «Papà, voglio ringraziarti per essere stato un padre meraviglioso per noi tutti», scrisse una volta dopo che Kempner e la Lipton erano andati a visitarlo in Svezia. «Non è mai facile dirtelo quando siamo insieme, ma spero che non sottovaluterai mai l’amore e la comprensione che ho per te e il tuo lavoro»²⁸.

    A partire dagli anni Settanta, Kempner visse a tempo pieno in Europa, dividendosi tra Francoforte sul Meno e Locarno, in Svizzera. Nel 1975, non molto tempo dopo che un gruppetto di neonazisti era andato a protestare sotto il suo studio legale, ebbe un infarto che lo indebolì notevolmente, tanto da non permettergli più di viaggiare. La moglie Ruth e la Lipton, che vivevano ancora in America, si recavano a visitarlo per intere settimane, ma perlopiù l’avvocato poteva contare su un’altra donna devota.

    Jane Lester era un’americana di Brockport (New York), una cittadina circa cento chilometri a est di Niagara Falls. Nel 1937 aveva seguito un compagno di classe in Germania, dove cominciò a insegnare inglese a coloro che speravano di emigrare. Anni dopo ammise la sua ingenuità. Non aveva idea di come Hitler trattasse gli oppositori. Durante la Notte dei cristalli (9-10 novembre 1938), quando i nazisti distrussero le case, i negozi e le sinagoghe degli ebrei in tutta la Germania, lei dormiva sodo, e il giorno dopo non riuscì a capire perché gli studenti della scuola di lingue non si fossero presentati a lezione. Rimpatriò, lavorò in un’agenzia di mediazione a Buffalo, poi divenne dattilografa a Washington («donna di governo», diceva lei) per l’OSS.

    Nel 1945, lesse su un numero del «Washington Post» che si cercavano traduttori per i processi di Norimberga contro i criminali di guerra, per cui si fiondò al Pentagono per presentare domanda. Poco dopo la rispedirono in Germania.

    La Lester conosceva Kempner di fama; lo aveva visto cenare al Grand Hotel della città bavarese, dove quasi tutti quelli che erano coinvolti nei processi si ritiravano ogni sera. Lo incontrò finalmente nel 1947, nel periodo in cui lui stava reclutando altro personale per gli ultimi processi. Jane divenne il suo braccio destro, spesso durante gli interrogatori lo seguiva come un’ombra, il che pareva allarmare gli accusati. «Non riuscivano a inquadrarmi», rivelò la donna. «Circolava voce che fossi una psicologa». Ebbe inoltre l’onore di tradurre in inglese il protocollo di Wannsee per i pubblici ministeri americani.

    Nel dopoguerra, lavorò per lo spionaggio militare americano a Camp King presso Oberursel, poco lontano da Francoforte. Però aveva un secondo lavoro con Kempner, il quale aveva bisogno di aiuto per tradurre la corrispondenza e tenere in ordine le pratiche. La loro collaborazione sarebbe durata per quattro decenni.

    «Negli ultimi vent’anni della sua vita, non mi sono separata mai da Robert, né di giorno né di notte», disse la Lester. «Ero la sua infermiera, la sua autista e la sua segretaria». Non lo confessò, ma ne era stata anche l’amante.

    Kempner e le tre donne della sua vita rimasero intimi fino alla fine.

    Lucian avrebbe detto diversi anni dopo: «Eravamo una grande famiglia felice».

    Ruth, la moglie di Kempner, morì nel 1982. Negli ultimi anni della sua vita, lui abitò in un albergo alla periferia di Francoforte, dove dormiva in una stanza attigua a quella di Jane Lester, con la porta di comunicazione sempre aperta. Così lei sarebbe potuta intervenire se gli fosse accaduto qualcosa nel cuore della notte. Robert e Lucian Kempner si sentivano quasi tutti i giorni, e siccome il padre aveva dei problemi di udito, la Lester ascoltava le conversazioni per riferirgli quello che non capiva.

    Kempner morì il 15 agosto 1993 all’età di novantatré anni; la Lipton aveva raggiunto la Germania la settimana precedente per essere al suo capezzale.

    «È morto tra le mie braccia», disse Jane. «Eravamo sedute al suo fianco, nella stanza in cui è morto». Quando arrivò il medico per constatare il decesso, «eravamo in uno stato orribile, incredule e addolorate»²⁹.

    Le donne chiamarono Lucian, che arrivò in auto con la moglie da Monaco per occuparsi del funerale e degli altri affari.

    Non era assolutamente semplice. In una vita intera di ricerche, scritti e viaggi, Kempner aveva conservato ogni cosa. Dipinti, mobili, migliaia di libri, montagne di carte e documenti stipavano le sue proprietà di Francoforte e Lansdowne, il sobborgo di Philadelphia. Aveva tenuto ogni tipo di documento personale, professionale e legale: vecchi passaporti, indirizzari, agende, diari scolastici, biglietti ferroviari usati, bollette delle utenze, vecchie lettere, fotografie.

    Nella sua stanza d’albergo, la Lester rinvenne il testamento nascosto in una valigia. Si trattava di una pagina manoscritta con un pennarello nero, appena leggibile. A quanto pareva, aveva lasciato tutto ai due figli, André e Lucian.

    Ma c’era una clausola.

    ¹ Maguire, Law and War, p. 128.

    ² Ivi, pp. 151-58.

    ³ Kempner, Ankläger einer Epoche, p. 348.

    ⁴ Ivi, p. 369.

    ⁵ Charles LaFollette a Lucius Clay, 8 giugno 1948, in Frei, Adenauers’ Germany and the Nazi Past, pp. 108-10.

    ⁶ Eivind Berggrav, vescovo luterano di Oslo, citato in Wyneken, Driving Out the Demons, p. 368.

    ⁷ Uno dei quotidiani era «Die Zeit», diretto da Richard Tüngel, un giornalista di tendenze destrorse. Vedi Pöppmann, The Trials of Robert Kempner, p. 42, e Pöppmann, Robert Kempner und Ernst von Weizsäcker im Wilhelmstrasseprozess, pp. 183-89.

    ⁸ Maguire, op. cit., pp. 160-61.

    ⁹ Jack Raymond, Krupp to Get Back Only Part of Plant, «New York Times», 2 febbraio 1951.

    ¹⁰ Dei sette maggiori criminali che vennero relegati in prigione dal Tribunale militare internazionale nel 1946, tre furono liberati anticipatamente per motivi di salute. L’ammiraglio Karl Dönitz (10 anni), Albert Speer (20 anni) e Baldur von Schirach (20 anni) rimasero imprigionati fino al termine della

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