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L'uomo delle 16.30
L'uomo delle 16.30
L'uomo delle 16.30
E-book315 pagine4 ore

L'uomo delle 16.30

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Info su questo ebook

Igor Sestri è uno scrittore trentacinquenne che, dopo il successo del suo primo romanzo, ha visto lentamente esaurirsi la vena creativa. Assopito dal lento trascorrere delle sue giornate a Varazze, braccato dalla famiglia che lo vorrebbe veder sistemato e da un conto in banca ormai prossimo allo zero, Igor accetta di scrivere a pagamento la storia d’amore di un misterioso personaggio, Kabir Dunnet. Ma il romanzo, che nelle prime settimane sembrava un lavoro facile e ben retribuito, diviene ben presto un thriller violento e inquietante. Igor dovrà lottare con la propria coscienza per portare a termine l’incarico, trasformandosi in detective, allo scopo d’impedire un folle progetto omicida
LinguaItaliano
Data di uscita6 gen 2014
ISBN9788875639518
L'uomo delle 16.30

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    Anteprima del libro

    L'uomo delle 16.30 - Fabio Garzero

    Igor Sestri... scrittore

    Ricordo quel giorno meraviglioso come se gli ultimi due anni non fossero passati.

    Avevo scelto i miei jeans migliori, una camicia bianca e la giacca del vestito con il quale avrei dovuto sposarmi qualche anno prima. Barba fatta, ma capelli arruffati ad arte, scarpe da ginnastica e orologio delle grandi occasioni, un Omega tanto bello da sembrare vero. Avevo cercato, riuscendoci a mio avviso, di trasmettere un’immagine di me piuttosto contraddittoria, intrigante e al tempo stesso non troppo lontana dalla realtà.

    Ripensandoci, riesco ancora a percorrere il breve tratto che mi separava dal palco. Sento ancora il mio nome e il titolo del mio primo libro pronunciato con una certa enfasi dal sindaco di Genova. Salgo i quattro scalini di legno, le vecchie tavole del palco, le strette di mano, il premio nelle mie mani… l’applauso.

    Ricordo che le luci m’impedivano di vedere la sala. Tenevo gli occhi bassi e lasciavo che lo sguardo scivolasse furtivo a sinistra, dove nella penombra, scorgevo un bel paio di gambe e due splendidi tacchi a spillo.

    Ho detto poche parole quella sera, tentando invano di ripetere il discorso che avevo provato e riprovato in autostrada mentre arrivavo a Genova.

    Sorridevo con fatica, mentre gli occhi si adattavano lentamente alle luci del palco e un vecchio poeta locale decantava le mie lodi.

    Una telecamera di Rai Tre arrivò al nostro fianco. Indugiai a lungo sul prezioso riconoscimento, mentre il cameraman, a mia insaputa, stringeva sul volto in un intenso primo piano.

    Strinsi ancora molte mani e mi prestai, piuttosto impacciato, alle foto di rito.

    Prima di tornare in sala con l’investitura di giovane talento e scrittore dal futuro radioso, indicai con il trofeo gli amici che mi avevano seguito in quella breve avventura e sorridente buttai un’ultima occhiata a quelle due gambe meravigliose che si accavallavano come per magia al mio passaggio.

    Immaginai in quei brevi istanti, come da quella sera il mio rapporto con le donne sarebbe inevitabilmente cambiato. Il fascino dello scrittore, il desiderio prettamente femminile d’ispirarne le opere, e i miei 35 anni, età che si abbinava meravigliosamente a qualsiasi creatura femminile, avrebbero fatto di me un animale braccato, il desiderio fatto uomo, un’esperienza sessuale alla quale sarebbe stato doloroso e ingiusto rinunciare.

    Prima di uscire dal teatro, rilasciai una breve intervista a Rai Tre.

    La rividi poi molte volte in videocassetta trovandola quasi perfetta, dovetti rammaricarmi soltanto della rasatura impeccabile; un filo di barba incolta avrebbe contribuito ancor di più all’immagine che volevo trasmettere di me.

    Nei giorni successivi partecipai a diverse presentazioni del mio libro in librerie e sale consiliari. Feci centinaia di dediche, tanti autografi, molti chilometri e qualche soldo.

    Durante una di queste serate, ricordo che un ragazzo occhialuto e allampanato mi avvicinò con un registratore. Lavorava per una piccola radio privata, di quelle dal nome forzatamente anglosassone; non l’avevo mai sentita nominare e mai mi capitò successivamente d’imbattermi nelle sue frequenze. Mi chiese qualcosa sul libro e poi mi sparò quella profetica serie di domande che ancor oggi echeggia sinistra nelle mie orecchie come un presagio di sventura.

    Non pensi che sarà difficile rimettersi al computer con tutte le aspettative che ha creato questa tua prima opera?... Ci puoi già anticipare qualcosa sul tuo prossimo libro?... Non temi ‘il blocco dello scrittore’?.

    Allora tergiversai e sorrisi. Rimanendo sul vago, dissi che volevo godermi quel bel momento prima di rimettermi a scrivere e sorvolai ad arte sulle altre domande. Una frase fatta, molto calcistica, ideale per un’intervista di Totti.

    Adesso, a due anni di distanza, penso che avrei dovuto stendere quel cretino con una testata, strappargli una ciocca di capelli e cuocerla insieme al cuore di un gallo e qualche coda di serpe; preziosa pozione in grado di allontanare il malocchio che quel reporter da due soldi mi aveva appoggiato alla spalla.

    Dal giorno di quell’intervista, come detto, sono passati due anni… due lunghi anni.

    Quando accarezzo la copertina del libro, mi sembra impossibile che quel nome sopra il titolo sia proprio il mio.

    Igor Sestri, indiscutibilmente un nome da scrittore! aveva detto il mio editore il giorno in cui ci siamo conosciuti. Oggi è il nome di uno qualunque, più adatto ad una ditta di pulizie che alla copertina di un libro. Un perdigiorno come tanti, uno che come tanti sarà costretto a lottare come una bestia per arrivare a fine mese... molte volte senza riuscirci. Sono lontani i giorni di gloria, altro che giovane scrittore di talento dal futuro radioso.

    In questo limpido settembre, passo gran parte del tempo a fissare come un pesce rosso il monitor del computer, sperando di veder comparire come per magia l’inizio del mio nuovo lavoro.

    Venti minuti di nulla e sono davanti alla tv. L’intento è di fondere il telecomando, l’illusione, che una frase della Laurito, una battuta di Alvaro Vitali o un’ovvietà di Costanzo, mi accendano la lampadina.

    La consapevolezza di non aver più nulla da raccontare e quindi da scrivere, mi si è parata davanti con tutto il suo carico di sciagure in un giorno d’agosto.

    Era passato quasi un anno dalla pubblicazione di Con gli occhi di un bambino e il mio editore aveva cominciato una sorta di pressing asfissiante degno di un centrocampista inglese. Gli dissi, mentendo spudoratamente, che avevo iniziato a scrivere da un paio di mesi e che presto gli avrei inviato le bozze dei primi due capitoli.

    Era giunto dunque il momento di mettersi al lavoro.

    Un paio d’ore dopo, scavavo nella mente alla ricerca di un’idea, mentre trasportato dalle mie gambe incerte, vagavo come uno zombie sulla spiaggia di Varazze. Raccoglievo ceppi di legno che il mare aveva spinto sull’arenile, tenevo il più bello e lo portavo a casa come ricordavo era solito fare un personaggio creato dalla meravigliosa penna di Hemingway in Isole nella corrente.

    Quindi in preda a una sorta di raptus, correvo a saccheggiare i forniti scaffali della biblioteca comunale. Avevo bisogno di uno spunto, una luce, una spinta, qualsiasi cosa mi potesse mettere nella giusta direzione.

    I chilometri sulla battigia divennero decine, i ceppi finirono nel caminetto della vicina e la caccia letteraria durò oltre un mese e risultò infruttuosa...maledettamente infruttuosa.

    Lentamente, presi coscienza delle mie difficoltà e a Natale di quell’anno, quattro mesi dopo la stupida promessa fatta al mio editore, mi ritrovai davanti a un muro insormontabile e alla consapevolezza del mio fallimento.

    Come se non bastasse, a tutto ciò si aggiunse l’annoso problema del ‘pensiero natalizio’.

    Avevo astutamente deciso di regalare le ultime copie del mio libro ad alcuni parenti alla lontana, ma dinanzi ad ognuno di loro, fui costretto ad arrampicate vergognose su specchi e quant’altro pur di sviarli dal mio blocco dello scrittore.

    Creai con ognuno di loro una sorta di suspance immaginaria, giustificando il mio silenzio con una trama ricca di colpi di scena, personaggi sorprendenti e persino qualche spunto di vita reale e famigliare. Li lasciavo ansiosi e soddisfatti, mentre io precipitavo in uno stato di profonda amarezza e stress da prestazione.

    Ero di fronte al nulla, al vuoto, all’abisso. La mia mente era la parte superiore di una clessidra, il tennis italiano dopo Panatta, lo sci azzurro dopo Tomba… Non era niente!

    Fu in quei giorni che decisi di trasferirmi.

    Lasciai la casa dei miei genitori, con vista sulla scuola elementare e sul negozio di frutta e verdura dei miei zii, etichettandolo come inadatto e poco stimolante per il mio talento artistico, e chiesi sfacciatamente il nostro vecchio appartamento di famiglia.

    Isolato, nell’entroterra di Varazze, senza comfort, una striminzita vista mare, e soprattutto, senza riscaldamento.

    Era stata nella notte dei tempi la casa dei miei nonni, per poi divenire il nostro unico possedimento, ma cosa ancor più importante, si trattava del nostro rifugio famigliare, l’isola felice quando in estate i turisti assalivano il paese, o nei fine settimana, quando i miei decidevano improvvisamente di meritarsi qualche ora di svago e una passeggiata nei boschi alla ricerca di pigne e folletti.

    Adoravo quella piccola casetta, adoravo il suo profumo, lo scoppiettio della legna nel caminetto, il lavandino in marmo della cucina, il lettone morbido che dividevo con i miei genitori e quella rompiballe di mia sorella.

    Speravo di trovare fra quelle mura l’ispirazione perduta, la fantasia che da bambino mi portava a galoppare fra gli alberi, mi faceva domare le rapide del torrente in piena e mi permetteva di salvare la figlia dei nostri vicini da una banda di contrabbandieri senza scrupoli.

    Adesso, la casetta nel bosco è la mia prigione, la finestra dalla quale sognavo ad occhi aperti non è altro che la luce della mia cella, la figlia dei miei vicini una racchia spaventosa che metterei io stesso nelle mani dei contrabbandieri.

    Sono allo sbando, alla deriva… sono faccia a faccia con il mio fallimento.

    Non ho un lavoro, quello di consulente assicurativo era più che altro una copertura per vivere gli ultimi anni di serenità, prima d’un vero impiego.

    Non ho una fidanzata, anche se le donne, numericamente, non sono mai state un problema.

    Ma soprattutto, ad un passo dal mio trentacinquesimo anno d’età, non ho un futuro... in particolare, non ho un futuro da romanziere.

    Ed eccomi dunque, Igor Sestri, balzato prepotentemente alle cronache locali come futuro scrittore e altrettanto velocemente sbalzato nella polvere, alle prese con vecchi sogni, incubi quanto mai attuali, ed un’altra, pesantissima e inutile giornata tipo.

    Monitor, televisione, video musicali, bloc-notes, videocassetta con un western di Sergio Leone, una passeggiata, ancora il monitor, qualche vecchio cd, un piatto di pasta, quattro passi, un buon libro, un altro misero tentativo su carta, un giro in bici, poi ancora la tv, ancora il monitor, ancora la musica, poi un porno, poi altra pastasciutta… con il porno, altri tentativi e poi a letto, quasi sempre da solo, spesso alle prese con sogni inquietanti popolati da mostri a tre teste, sciagure ferroviarie e personaggi dei miei filmacci preferiti che mi inseguono e mi deridono.

    Così si trascinava la mia vita fino a quel martedì mattina, quando inconsapevole d’imboccare una via degna d’un romanzo di Ken Follett, presi la macchina e scesi a Varazze per le abituali scommesse sul calcio internazionale, un doveroso passaggio dai miei e un vitale prelievo al bancomat.

    Nonostante sia un tranquillo martedì di metà settembre, trovare parcheggio a Varazze senza prestarsi al furto legalizzato dei parcheggi a pagamento, è praticamente impossibile. Le auto sembrano in grado di coprire l’intera rete stradale, dando la sensazione di occupare ogni angolo, incrocio, rotatoria.

    È una sorta di equilibrio naturale perfetto. In quel momento, se solo una di loro fosse uscita da un parcheggio, quel meraviglioso intersecarsi di lamiere e smog, si sarebbe probabilmente inceppato fino a tarda notte.

    Con questi strani pensieri in testa, partecipo in stato di trance al mortale balletto intorno alle solite zone, dove i parcheggi si tramandano di padre in figlio e la gente è pronta ad uccidere per uno di questi. Quindi scivolo verso le vie interne, in zona ‘grattacielo’, un palazzone di una quindicina di piani che in un paese come il mio ha potuto fregiarsi di un simile soprannome per molti anni. Dopo una decina di minuti di vana ricerca e versato un paio di litri di sangue e sudore, decido di abbandonare l’auto in diagonale, ad un palmo dai bidoni della spazzatura, in flagrante divieto di sosta e possibile rimozione forzata.

    Stanco e sfigurato dal caldo, mi concedo un succo di frutta con ghiaccio al bar Invidia, prima di concentrarmi sui vari campionati europei di calcio e regalare alla Snai i soliti 20 euro.

    Sorseggio il mio succo e sfoglio distrattamente la Gazzetta, quando una voce gentile mi riporta alla realtà.

    Mi concede un’intervista in esclusiva signor best-seller?.

    Sulla mia infanzia? rispondo abbozzando un sorriso.

    Giuditta invece ride di gusto, la sua radio locale è stata una delle prime a intervistarmi nei giorni di gloria e probabilmente la più costante nel proporre il mio lavoro. Gran parte del merito delle centinaia di copie vendute in provincia di Savona nei primi giorni di pubblicazione è della sua radio; mostrarmi distaccato dinanzi al suo interesse mi fa sentire una merda.

    Ma quale infanzia… passato, presente e futuro, ecco cosa mi serve! La gente di questo paese sonnolento muore dalla voglia di stringere fra le mani il tuo nuovo libro… dammi un’anticipazione, concedimi lo scoop!.

    Rassegnato, vengo trasportato di peso negli studi radiofonici di radio Skylab, ingegnosamente collocati all’interno dell’Invidia. Tra un tavolino e un divanetto, ripasso le solite frasi idiote sulla trama ad alta tensione, i personaggi misteriosi e l’assoluto riserbo nel quale ho promesso di lasciare il mio lavoro fino all’ultima riga.

    Mi rendo perfettamente conto, sedendomi davanti alla consolle, di avere un’espressione spenta e rassegnata, ma probabilmente, Giuditta la imputa ad una multa per divieto di sosta o alla visione inattesa di un personaggio del panorama politico destrorso.

    Mi travolge con una raffica di possibili domande, io allargo le braccia impotente e rimango inerme in attesa del fuoco incrociato.

    Vedo il mio volto riflesso sul lucido ripiano al fianco dei vecchi trentatré giri. La rassegnazione ha spento la luce che i miei occhi sapevano emanare fino ad un paio d’anni fa, sembro più vecchio, stanco e malconcio. La verità? Non ho più voglia di mentire, di fingere, di recitare la parte del romanziere scontroso ed enigmatico.

    L’idea di ripetere la recita a memoria mi fa venir la nausea.

    La trasmissione ha inizio con leggero ritardo e Giuditta se ne scusa con i radioascoltatori, promettendogli una gradita sorpresa.

    Mi presenta con un’enfasi eccessiva, parla del mio primo libro definendolo un successo a livello nazionale, ricorda le nostre precedenti interviste e la presentazione del libro trasmessa in diretta e poi…

    Parlaci di quei giorni, di quando vedevi nascere il tuo successo pagina dopo pagina... e quanto è cambiato oggi il tuo modo di lavorare rispetto ad allora?.

    Resto in silenzio per una manciata di secondi, sento su di me gli occhi di Giuditta e immagino l’attesa per le mie parole di centinaia di amici, parenti, conoscenti e quant’altro. Decido di buttarmi, di lasciarmi finalmente andare. Rispondo a cuore aperto, per la prima volta dopo tanto tempo e ascolto insieme ai radioascoltatori di Skylab, chi è davvero, oggi come oggi, Igor Sestri.

    Parlo piano, fissando il vuoto. Lascio che sia il cuore a raccontare quei giorni meravigliosi e questi di assoluta malinconia.

    Mi piaceva scrivere seduto sugli scogli, guardando il mare e Genova in lontananza. Mi piaceva chiudere gli occhi, entrare nel personaggio, riaprirli e vedere scorrere le immagini del mio racconto sulla linea dell’orizzonte. Cercavo di catturare quei fotogrammi immaginari e farli miei, cercavo di marchiarli a fuoco nella mente e poi di metterli su carta. Qualche volta mi svegliavo di notte con una frase o un nuovo personaggio da descrivere. Altre volte, parlando con un amico, venivo colpito da una sua espressione o un modo di dire, prendevo nota e inserivo il tutto nel racconto, nottetempo, in modo quasi furtivo. In quei giorni dovevo leggere e rileggere tutto da capo, non ero mai soddisfatto, modificavo, tagliavo aggiungevo… il cantiere era sempre aperto!.

    Mentre ne parlo, ripenso a quelle sensazioni e mi rendo conto per la prima volta, di quanto sono stato fortunato. Vivevo una vita parallela a quella reale, riuscivo ad immedesimarmi a tal punto nei miei personaggi, da non trovare più soddisfazione nella mia vita d’ogni giorno; era meraviglioso e straziante al tempo stesso. Pensavo a quando avrei scritto la parola ‘fine’, e quindi al loro addio, all’abbandono delle loro esistenze. Mi pareva impossibile che il bambino, ‘cucciolo’ come lo chiamava il maresciallo, non avrebbe mai più fatto parte della mia vita ed io della sua. Scrivendo la parola ‘fine’ ho perso degli amici, dei compagni di viaggio e d’avventura... da quando ho scritto quella maledetta parola, la mia vita non è più stata la stessa.

    Giuditta rimane un attimo in silenzio, mi guarda con attenzione cercando di mettere a fuoco quel che ha sentito. Le domande che aveva previsto sono già dimenticate. È sveglia, cavalca subito l’onda.

    I personaggi del tuo nuovo libro non sono riusciti a colmare questo vuoto?.

    Non ho un attimo d’esitazione, imbocco la nuova via, ignaro di dove questa mi condurrà. Forse parlarne mi aiuterà ad esorcizzare la paura.

    Non ci sono personaggi in grado di colmare questo vuoto, perché non c’è nessun nuovo libro... e quindi nessun nuovo personaggio.

    Lascio la mia dichiarazione shock volteggiare sospesa nello studio. Proseguo a braccio, senza sapere dove le mie parole mi porteranno.

    In questi due anni ho perso la capacità di sognare, di viaggiare con la mente e con la fantasia. Mi sento vuoto, arido, sterile. Non so più sorridere, né tanto meno ridere di una battuta, ho smarrito il gusto per l’avventura e temo d’aver smarrito anche la voglia di vivere. E questo mi ha messo addosso una paura fottuta.

    Faccio una pausa, respiro lentamente guardando per terra. Giuditta non interviene ed io continuo a guardarmi dentro, forse per la prima volta in tutta la mia vita.

    Non riesco a prendere una penna in mano da mesi, ma questo è il minore dei mali. Non riesco più a vedere attraverso le cose, a cogliere i segnali meravigliosi della natura, delle persone. Parlare non mi piace più, ascoltare ancora meno. In questi ultimi mesi non ho imparato nulla. Assorbo passivamente immagini televisive che definire spazzatura è un complimento; leggo molto, ma per quanto mi sforzi di scegliere solo grandi scrittori, non riesco a trarre dalla loro bravura nessuno stimolo per tornare a scrivere. Le mie giornate scivolano via una dopo l’altra, insignificanti, tristi... inutili. Il tempo che passa è scandito dalle rate della macchina da pagare, dalle bollette di quei parassiti del gas e della luce e dalle giornate del campionato di calcio. Questo è Igor Sestri oggi come oggi... nient’altro.

    Rifletto su quanto ho affermato e sorrido pensando a me stesso e come concludere il discorso. L’uomo che sono diventato non mi piace, anzi, mi fa schifo... ma in particolare, quest’uomo non ha nulla da dire, da raccontare... e non è più in grado di scrivere un libro, questo è certo!.

    Non sento cosa dice Giuditta ai radioascoltatori, torno in me con le prime note di una canzone di Eminem.

    Ti avevo chiesto uno scoop, non una bomba di questo genere… mi dice guardandomi con gli occhi spalancati ma ti rendi conto?… Potevi accennarmi qualcosa, potevamo metterci d’accordo, arrivarci diversamente, potevamo….

    Sono in piedi, basta parlare. Ho bisogno di un po’ d’aria, di quattro passi e di tornarmene nella mia cella.

    Mi prende per un braccio mentre sto per uscire: Non puoi lasciarmi così... facciamo ancora un passaggio.

    No Giuditta, non saprei più cosa dire... credo d’aver detto anche troppo... tu cosa ne pensi?.

    Accidenti!… Promettimi almeno che tornerai domani. Gli ascoltatori avranno un sacco di domande da farti… promettimelo.

    D’accordo. Domani alla stessa ora.

    Lascio lo studio sulle ultime note di Eminem, con il cuore sollevato dal peso d’un macigno, ma sfinito. È come se mi fossi smontato e rimontato, vivisezionato e analizzato. Ancora non riesco a credere d’aver detto a tutti quelle cose.

    Mentre passeggio per le vie del paese, ho l’impressione che le persone mi guardino e commentino alle mie spalle quanto hanno appena ascoltato. Se conosco bene Varazze, le voci sulle mie difficoltà marceranno spedite, prendendo pieghe e toni diversi a seconda delle necessità. Ma arrivo persino a comprendere i miei concittadini; la crisi in cui versa questo paese è talmente profonda, che parlare l’uno dell’altro è una delle poche cose che resta da fare ai suoi abitanti.

    Sono così fiacco, che nemmeno la scontata multa per divieto di sosta e intralcio alla circolazione riesce a scuotermi. L’appallottolo e la butto nei vicini bidoni, tra qualche mese, quando mi arriverà generosamente maggiorata, forse riuscirà a farmi incazzare.

    Con dieci minuti di pilota automatico sono a casa. Cinque minuti dopo, inizia il balletto di telefonate tipico della mia famiglia.

    Mia mamma è la più lesta a prendere la linea.

    Come mai non sei passato?.

    Scusa non ho fatto in tempo ad avvisarti… vengo domani.

    Ci tenevo così tanto, ho fatto l’arrosto con le patate.

    Lo mangerò domani.

    Ma sei magro... cosa fai lassù solo come un eremita, tra un paio di mesi farà un freddo cane, non hai il riscaldamento... e poi sei troppo magro....

    Ne parliamo domani.

    Come vuoi, ma promettimi che mangerai qualcosa.

    Mangerò qualcosa. Non sarà facile, ma questo lo tengo per me.

    A domani allora.

    A domani!.

    Sento che dovrei staccare tutto, riponendo con cura il telefono in un armadio… ma non mi danno il tempo per farlo.

    Tocca a mio padre.

    Tua sorella mi ha detto che hai rilasciato un’intervista in televisione, è vero che hai dichiarato che non vuoi più scrivere e che ti fai schifo?.

    Ero alla radio, e non ho detto che non voglio, ma che non ci riesco... è molto diverso.

    E che ti fai schifo?… Lo hai detto?.

    Credo di sì... non ne sono sicuro.

    Non sai nemmeno cos’hai detto?.

    Ricordo il discorso in generale, ma non i particolari.

    La mamma si preoccuperà a morte.

    La mamma l’ho appena sentita e non mi è sembrata preoccupata.

    Lo sarà quando tua sorella la metterà al corrente delle novità.

    Benissimo, resto in attesa degli eventi… a domani.

    Riesco a togliermi le scarpe e ho di nuovo in mano la cornetta.

    Ancora mia madre.

    Igor, gioia mia, ho saputo dell’intervista.

    Mia sorella immagino.

    È molto preoccupata, e lo sono anch’io... ha detto che ti sei dato del fallito... alla radio, lo avranno sentito tutti, anche gli zii.

    E chi se ne frega… Ne parliamo domani e cerca di fermare mia sorella, vorrei starmene tranquillo per qualche ora… Grazie!.

    Stacco il telefono e sprofondo nella tranquillità tanto agognata... Non ho idea di quel che mi aspetterà l’indomani.

    Come promesso torno alle undici di mattina a radio Skylab.

    Prima di andare in onda, Giuditta mi mostra le e-mail arrivate nelle ultime ore. I testi si assomigliano tutti: solidarietà per il periodo nero, disponibilità per la realizzazione a quattro mani di una storia di sicuro successo, auguri di pronta guarigione e complimenti a Giuditta per la trasmissione.

    Accetto controvoglia di rispondere in diretta a qualche radioascoltatore.

    Il primo è un ragazzo che conosco di vista, la domanda è la stessa alla quale ho risposto in passato più di tremila volte.

    Ho un racconto nel cassetto da un paio d’anni… cosa mi consigli di fare?.

    Rispondo molto educatamente perché ricordo perfettamente d’aver avuto in testa la stessa domanda non molti anni prima. Cito un paio di siti internet dove cercare le case editrici che pubblicano autori esordienti, lo metto in guardia dai contratti vergognosi che alcune di loro propongono e gli consiglio di cercare chi l’editore lo fa per

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