Chi muore giace: L'ispettrice Frambelli indaga tra Lodi e Crema
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Marina Bertamoni è nata a Milano il 10 Settembre 1961. Laureata in Scienze Geologiche, lavora in una Multinazionale dell’energia. Vive con la sua famiglia a Vizzolo Predabissi, in provincia di Milano. Da sempre appassionata di letteratura gialla e thriller, da una decina di anni scrive romanzi e racconti del genere, intrigata dalla sfida di comporre trame nelle quali ogni tassello trovi la propria esatta collocazione, all’interno di un mosaico perfetto e sorprendente. Con il romanzo “La Dea della Luna” (Edigiò) ha vinto nel 2008 il “Premio Nazionale Nero Wolf” e nel 2011 ha ricevuto la Menzione d’Onore del “Premio Letterario Internazionale Santa Margherita Ligure-Franco Delpino”. È stata inoltre finalista al “Premio Letterario Mario Casacci - Orme Gialle” e al “Premio Letterario Garfagnana in Giallo”, nonché segnalata al premio “Giallo sui laghi”. Nel 2014 ha pubblicato il romanzo “Camping Soleil” (I Sognatori), vincitore della III Edizione del “Concorso Letterario Internazionale Il Picchio - Città di San Giuliano Milanese”. Nel 2016 “Chi Muore Giace” si è classificato secondo al “Premio Letterario Giallo Garda” (Sezione Inediti).
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Anteprima del libro
Chi muore giace - Marina Bertamoni
1.
È arrivata in città all’imbrunire, dopo un viaggio lungo e faticoso che le ha indolenzito la schiena e fiaccato la volontà. Fuori dalla stazione ferroviaria di Lodi, sotto il cono giallo di un lampione, ha studiato la cartina sgualcita e seguendo le istruzioni alla lettera in una ventina di minuti ha raggiunto la sua destinazione, un bilocale al piano terra di uno stabile malandato. L’appartamento è quanto di più squallido si possa immaginare, freddo e arredato con mobili di seconda mano, che neppure da nuovi si potevano definire oggetti di design.
Si sarebbe aspettata qualcosa di meglio, data la quantità di denaro in gioco.
Getta in un angolo il piccolo bagaglio, nel quale c’è solo il minimo indispensabile. Non prevede una lunga permanenza, una volta ottenuto ciò che le spetta se ne andrà subito, finalmente libera. Respira l’aria ammuffita e cerca di ingoiare l’ansia, spingendola in fondo alla gola come se fosse un boccone troppo difficile da masticare.
Porta la mano al petto, sotto la camicia leggera che indossa, cercando il contatto rassicurante con l’oggetto che ha sulla pelle. Se desse retta al timore irrazionale che la consuma, farebbe dietro front e metterebbe un buon numero di chilometri tra sé e un passato che forse è meglio non rivangare. Il dubbio di aver fatto una pazzia la tormenta ma nella vita ha rinunciato troppe volte e non ha intenzione di rinunciare ancora. Ci vuole tutto il coraggio che riesce a mettere insieme per ignorare la tensione che preme per spingerla alla resa. Teme quello che dovrà affrontare, il confronto sarà aspro e non è certa di riuscire a sostenere la lotta. Ha affilato le sue armi ed è pronta a tutto ma l’avversario è di quelli che mettono paura.
Le hanno sempre rinfacciato la sua debolezza, il suo cambiare opinione mille volte per poi fare la scelta sbagliata, collezionando errori a catena. Sarà per questo che alla sua età si ritrova allo sbando, senza prospettive e senza un soldo in tasca. È qui per trovare una ciambella di salvataggio, fiduciosa nonostante sappia che chi può trarla in salvo ha tutti i motivi per lasciarla affondare.
Ha trascorso le ore stesa su di un materasso bitorzoluto, a riflettere guardando il soffitto macchiato dall’umidità, divorata dall’inquietudine. I sensi di colpa hanno fatto a pugni con il desiderio di rivalsa e con la consapevolezza che questa, per lei, è davvero l’ultima occasione.
Non è riuscita a preparare un discorso, spera che le parole vengano da sole, al momento giusto, come quando era bambina ed era naturale rivelare i propri pensieri, senza paura di essere fraintesa o male interpretata. Ci ha pensato la vita ad insegnarle che la sincerità, la compassione e la lealtà sono difetti dei quali è meglio liberarsi in fretta, se si vuole sopravvivere in un mondo di lupi.
Fuggire o restare?
L’oggetto che custodisce tra pelle e camicia la costringe a rimanere. Si ripete che se il passato è tinto di nero, il futuro può essere un arcobaleno di opportunità, sarà sufficiente fare appello a ciò che quell’oggetto rappresenta per lei e per la persona che sta aspettando.
Fuori il buio avvolge la città sconosciuta, un luogo di passaggio buono come un altro per cambiare colore alla sua vita.
L’alba filtra incerta attraverso la finestra e illumina i fogli e le foto sparsi disordinatamente sulla scrivania.
L’ispettrice Luce Frambelli non si decide a spegnere la lampada da tavolo e ad andarsene a casa. È stanca, ha fatto il turno di notte, però resta incatenata alla sedia, con gli occhi gonfi di sonno e la testa che ronza, a rileggere il rapporto che il suo capo esigerà non appena metterà piede in Questura.
Ha scritto troppo o troppo poco? La sua tendenza alla dovizia di particolari porta spesso il vicequestore Binaschi a sbottare imbufalito.
«Frambelli, lei mi fa perdere un sacco di tempo! Venga al sodo, cazzo…»
Stavolta il sodo
è una donna, trovata cadavere in un appartamento di via Santa Maria del Sole.
Luce si è sforzata di scrivere un resoconto professionale, cercando un punto di vista il più possibile distaccato e scevro da ogni emozione.
C’è riuscita fino a che non ha ricordato il volto della vittima, con la bocca carnosa spalancata in un urlo muto, la lingua tumefatta, i bulbi oculari spinti in fuori dalla violenza dello strangolamento.
È nella Polizia di Stato da sette anni, eppure cose del genere le fanno ancora effetto. È anche vero che a Lodi episodi così raccapriccianti capitano di rado.
La donna non aveva documenti, quindi per il momento non è stata identificata. Luce ha passato la notte con i colleghi, ispezionando centimetro per centimetro l’appartamento in cui è stato rinvenuto il cadavere, senza trovare l’ombra di un indizio.
Qualche indicazione potrà venire dall’autopsia: quando e cosa aveva mangiato la donna, se aveva assunto droghe, se era ubriaca, se aveva avuto un rapporto sessuale, insomma tutto quello che potrebbe aiutare a chiudere il caso nelle fatidiche 48 ore.
L’ispettore capo Pasquale Campiglio compare sulla soglia dell’ufficio, mettendo dentro solo la testa.
«Oh Frambè, ancora qua stai? Vattene a casa, ché hai una faccia che ricorda il crollo di una diga.»
Luce ha poca simpatia per il collega, quando se ne esce con le sue citazioni a sproposito arriva a detestarlo.
«Ora vado, sto aspettando il capo» risponde con voce atona. «Gli voglio consegnare il rapporto di persona.»
E poi non c’è nessuna fretta. Ultimamente Luce sta volentieri fuori di casa, le cose con Davide vanno sempre peggio e meno si vedono, meglio è. Ormai i litigi sono all’ordine del giorno e non serve fermarsi a pensare, domandarsi cosa è cambiato, chi dei due è cambiato. Semplicemente, nulla è più come prima e verrà il momento in cui entrambi dovranno affrontare la situazione.
Campiglio entra con tutta la sua possente figura nell’ufficio dell’ispettrice. La stanza è piccola e deve fare lo slalom tra la scrivania e lo schedario per raggiungere l’unica sedia libera. Si siede pesantemente e si appoggia coi gomiti sul tavolo, per fissare meglio lo sguardo negli occhi di Frambelli.
«Una brutta faccenda eh, Frambè?» dice. Prende una fotografia del cadavere e la studia per qualche istante. «Ci mancava lo strangolatore per completare l’opera, stiamo già facendo straordinari a go-go, ora con questa rottura di palle Binaschi non ci farà più tornare a casa.»
Frambelli sente la rabbia salirle dallo stomaco alle corde vocali. Pasquale Campiglio non perde occasione per far pesare la sua maggiore esperienza ai colleghi più giovani, anche se non è certo un esempio di dedizione al dovere: Luce ha notato che è sempre l’ultimo ad arrivare in Questura e il primo ad andarsene, almeno quando il lavoro lo consente. Molte volte Luce ha sperato che Binaschi gli desse una bella lavata di capo, che alzasse la voce come fa spesso con lei, ma non è mai successo.
Forse è troppo chiedere al vicequestore di tirar fuori le palle, dovrebbe scuotersi dalla sua apatia, ormai patologica, e non ne è in grado. Luce sta per mandare cordialmente a quel paese Campiglio, che di fronte ad una donna ammazzata riesce solo a pensare agli straordinari. Poi si blocca, pensando che in fondo gli invidia quella sua capacità di guardare le cose con distacco, senza farsi coinvolgere emotivamente. È lavoro, solo lavoro, questa è la filosofia che permette a Campiglio di tornarsene a casa dopo una notte passata a guardare un cadavere da tutti i lati e di andarsene a dormire beato come un angioletto.
Frambelli teme che non riuscirà mai a fare lo stesso, neppure quando arriverà all’anzianità di servizio del collega. Forse è una questione ormonale, l’universo maschile e quello femminile sono paralleli, destinati a non incontrarsi mai sul piano dell’emozione. È un dato oggettivo, bisogna prenderne atto.
L’associazione d’idee fa correre il pensiero a Davide; è facile attribuire allo stesso motivo il loro allontanamento. Due modi di pensare ormai totalmente divergenti, come due barche che, partite dallo stesso porto, hanno virato su rotte diverse, destinate a non incrociarsi più.
Il passo pesante del vicequestore Binaschi rimbomba nel corridoio e Luce torna di botto con i piedi per terra. Si alza di scatto e si precipita alla porta per intercettare il capo prima che si chiuda nel suo ufficio.
«Dottore, le ho preparato il rapporto sull’omicidio di via Santa Maria del Sole.»
Binaschi si gira verso Luce e la guarda come se la vedesse per la prima volta. Anche lui ha gli occhi stanchi e due rughe profonde gli solcano il volto, dai lati del naso fino alla bocca. Quasi strappa dalle mani di Luce la cartelletta con il rapporto che lei gli porge.
«Grazie Frambelli, lo guardo appena possibile. Vada a casa, per ora non possiamo fare altro.»
«Come è andata col magistrato?» chiede l’ispettrice. Binaschi apre il fascicolo e scorre distrattamente pagine e fotografie.
«Come al solito» dice mentre osserva il volto della vittima, ripreso in primo piano dal fotografo della scientifica. «La procedura è quella di sempre, raccogliamo tutti gli indizi e aspettiamo l’autopsia, poi relazioniamo e attendiamo istruzioni.»
Attendiamo istruzioni. Luce non sopporta i tempi morti che le indagini a volte impongono. Fatica ad accettare l’inattività, non può starsene tranquilla a compilare scartoffie come se la morte violenta di una donna fosse un avvenimento normale. Non dice nulla, però, e sposta il peso da una gamba all’altra, sospirando. Binaschi la conosce bene e ha imparato a capire il linguaggio di quel corpo snello e nervoso.
«Calma, Frambelli» dice. «C’è parecchio lavoro da fare. Bisognerà scandagliare gli archivi in cerca di una corrispondenza per l’identificazione, magari la vittima è schedata. Una volta tanto non sarebbe male avere un po’ di fottutissima fortuna.»
La fortuna ha poco a che fare con gli omicidi, pensa Frambelli, ma si limita a fare un cenno affermativo.
«Adesso lei fa come dico io e se ne va a casa. Non ci serve a niente uno zombi che si aggira in Questura senza riuscire a connettere, si faccia una dormita e poi ne riparliamo.»
Binaschi mette la cartelletta sotto il braccio e prosegue fino a raggiungere la porta del suo ufficio.
La coda avanza lentamente, nonostante i movimenti frenetici della cassiera. Angelo dà ancora un’occhiata al contenuto del suo cestino; ha dimenticato qualcosa, ne è quasi sicuro. Non compra mai tante cose, chi vive solo non ha bisogno di molto.
La coppia di anziani davanti a lui discute animatamente di minestrine in brodo e salsicce coi fagioli.
Angelo si augura di non fare mai quella fine e ritrovarsi, dopo una vita di sopportazione, legato a filo doppio ad una moglie impicciona che pensa di sapere ciò che è meglio per te, senza nemmeno aver più la libertà di andare a fare la spesa per conto proprio, mettendo nel carrello quello che ti pare.
Una bionda con un bimbo piccolo seduto nel seggiolino del carrello lo fissa spudoratamente dalla fila di fianco, cercando di attirare il suo sguardo.
Angelo c’è abituato. Ha trentasei anni, un fisico atletico, carnagione ambrata, capelli e occhi nerissimi e lucidi. Ha un sorriso accattivante che può diventare abbagliante quando è felice, cosa che purtroppo gli capita di rado. Il suo viso non rientra nei canoni classici della bellezza, ma è proprio l’irregolarità dei suoi tratti a renderlo particolare. Di recente si è fatto crescere un accenno di barba, che tiene incolta accentuando l’aspetto vissuto.
Quando arriva il suo turno, mette veloce tutta la merce sul nastro scorrevole della cassa. La cassiera lo guarda per un attimo affascinata, prima di iniziare a passare gli articoli sotto il lettore ottico.
«Sono trentaquattro e ventotto, signore» dice con una voce troppo languida. Angelo estrae il portafogli dalla tasca posteriore dei calzoni sformati. Veste in maniera trasandata e non per caso. Gli sguardi attirati dalla sua figura slanciata gli danno già abbastanza fastidio, senza che ci sia bisogno di fomentarli con un abbigliamento da sfilata di moda. Tira fuori due banconote gualcite da venti euro, le porge alla cassiera e attende il resto. Non paga mai con carta di credito o bancomat, quegli aggeggi infernali portano stampato nome e cognome e lui non vuole che queste informazioni, che ritiene strettamente personali, vadano in giro più del minimo indispensabile.
A dire il vero, ha una carta di credito del tipo platinum
che giace dimenticata in fondo ad un cassetto. Non controlla spesso il saldo del suo conto corrente ma l’ultima volta che l’ha fatto c’era una cifra con sei zeri. La cosa non gli provoca nessun brivido. I soldi servono, è chiaro, lui però ha imparato a vivere tenendo un profilo basso, accontentandosi di poco più dell’indispensabile. Un modo come un altro per non dare nell’occhio. L’acquisto più importante che ha fatto da quando se lo può permettere è la cascina isolata nelle campagne tra Lodi e Crema, nella quale si è trasferito dopo un’accurata ristrutturazione. Una casa forse troppo grande per una persona sola, perfetta per lui che non sopporta più la folla e gli spazi angusti.
La cassiera gli passa il resto e gli sfiora le dita, prolungando il contatto per un secondo di troppo.
Angelo, perfido, lascia fare e dopo aver controllato le monete alza lo sguardo, la fulmina con un sorriso assassino ed esce dal supermercato dondolando con noncuranza il sacchetto della spesa.
Luce gira la chiave nella toppa con delicatezza, Davide starà ancora dormendo e lei non vuole svegliarlo.
Non ha voglia di parlare, con nessuno e con Davide meno che mai. Apre piano la porta e si muove al buio nella piccola anticamera. Abbandona il cappotto sulla sedia con un gesto stanco e appoggia le chiavi sul tavolino, evitando di farle tintinnare. Toglie le scarpe scalzandole dai talloni con i piedi, si china a raccoglierle e finalmente entra in salotto. Dalla cucina arriva una luce fioca, segno che la tapparella è alzata e che Davide è già in piedi. Luce sospira e si prepara psicologicamente.
Davide compare sulla porta della cucina in pigiama, con i capelli arruffati e una tazza di caffè in mano. Il suo pc è ancora acceso sul tavolo da pranzo, anche se il salvaschermo impedisce di vedere a cosa stesse lavorando. Da un po’ Luce si domanda se davvero trascorra la notte lì davanti per lavorare o se piuttosto non passi il tempo a navigare su siti porno. In fondo, non ha molta importanza.
Davide segue lo sguardo di Luce e capisce.
«Anch’io ho lavorato tutta la notte. Un progetto