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Giallo al Cimitero Maggiore: Una nuova indagine per le "squinzie" Bonetti e Valli
Giallo al Cimitero Maggiore: Una nuova indagine per le "squinzie" Bonetti e Valli
Giallo al Cimitero Maggiore: Una nuova indagine per le "squinzie" Bonetti e Valli
E-book205 pagine2 ore

Giallo al Cimitero Maggiore: Una nuova indagine per le "squinzie" Bonetti e Valli

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Info su questo ebook

Milano, Cimitero Maggiore, all’improvviso tra le tombe iniziano a passeggiare personaggi che dovrebbero risiedere nei loculi. Zombie? Niente affatto, ma ci vuole poco ad Anita Valli per capire che gatta ci cova e scoprire l’ennesima trama gialla. Forse l’agenzia di pompe funebri Legno di Pero ha qualche responsabilità in questa faccenda? Come è possibile che persone morte e sepolte vadano a zonzo per Milano? E chi c’è nella tomba al posto loro? Con l’amica Mirella Bonetti, Anita avvierà una nuova indagine strampalata che porterà le due “squinzie” di via Gallarate ad occuparsi di clochard che spariscono, di sepolture sospette, di baristi gentili e di viaggi in Liguria a bordo del vecchio furgone con cui Anita trasporta mobili restaurati. Il buon amico Marchino, al solito, le aiuterà. Jarod il labrador farà del suo. E si spera che, questa volta, il bel commissario Giorgio Santini non sia costretto a soccorrerle in extremis.

Paola Varalli, originaria della provincia di Varese, quando aveva due anni è approdata a Milano, che considera, dunque, la sua città. Dopo la laurea in Architettura, ha lavorato come grafica e poi come progettista di allestimenti per fiere e mostre, cosa di cui si occupa tuttora. Ama il suo lavoro, adora leggere, e poi... la vela, le passeggiate nei boschi, i cavalli, l’orto, il cioccolato e gli amici sinceri: per fortuna può vantarne una vasta schiera! Quando riesce a rubare tempo alle frenetiche attività a cui si dedica, si rilassa con la “Settimana enigmistica”, di cui apprezza i giochi più stimolanti; ovviamente adora scrivere, lo ha sempre fatto solo per sé, fino a quando, nel 2005, ha deciso di affrontare la stesura di un romanzo e di prendere parte a un concorso letterario, vincendolo. Da allora non la ferma più nessuno. Ha partecipato, vincendo, a concorsi letterari, come “Corpi” lanciato dal mensile “Marea” di Genova e “Milano Noir e Giald” indetto dal Centro Culturale Cox 18. È stata finalista con racconti in diversi concorsi letterari e le sue storie sono pubblicate su molte antologie, tra cui 44 gatti in noir, Tutti i sapori del Noir e I luoghi del noir (Fratelli Frilli Editori) Delitti di lago (Morellini). Quattro volte natale e Odio l’estate (Todaro). Il suo romanzo noir Incroci Obbligati, primo premio al concorso “Delitto d’Autore” 2005 patrocinato da ACSI di Lucca, è stato pubblicato presso la Fratelli Frilli Editori nel novembre del 2017. Con questo noir si è aggiudicata un posto in finale al premio letterario “Garfagnana in giallo 2018” e una menzione a “Giallo Garda” nelle sezioni giallo classico e romanzi editi. Con Oakmond Publishing ha pubblicato Trilogia milanese. Sempre con Fratelli Frilli Editori ha pubblicato nel 2019 L’antiquario del Garegnano (menzione speciale in numerosi concorsi letterari tra cui La quercia del Myr).
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2021
ISBN9788869435737
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    Anteprima del libro

    Giallo al Cimitero Maggiore - Paola Varalli

    Milano. Cimitero Maggiore Martedì 8 Maggio 2007

    "La parola mutandine proprio non la reggo. Non la sopporto, ecco.

    Mi viene l’orticaria quando la sento o la leggo da qualche parte. Si chiamano così perché è opportuno cambiarle?

    Bene, allora si dice mutande!

    Da mu-ta-re!

    Vogliamo dar loro una allure più leggiadra? Sono magari di pizzo sottile? Chiamiamole slip o tanga, ci vogliamo lanciare sul francese? Culotte! Ma mutandine proprio non si può sentire.

    Tanto per dire, facciamo conto di avere un amico di bassa statura che si deve laureare, cos’è? Un laureandino? Ma per piacere! E i soldi ottenuti dagli investimenti azionari? Se sono pochi si chiamano dividendini?

    No, no, i gerundi che diventano sostantivi per me vanno lasciati come sono, ecco. Non li si può ridurre e neanche trasformare in diminutivi. Punto e basta."

    Questi i pensieri che si aggiravano bellicosi nella testa di Anita Valli mentre camminava spedita, col suo consueto incedere da montanara (qualcuno diceva da John Wayne) nel viale principale del cimitero di Musocco. Il cimitero Maggiore di Milano, così si chiama, sta in fondo a viale Certosa, proprio alla fine della strada. Se sei in macchina, viaggi nel vialone centrale, arrivi in fondo e non svolti a destra o a sinistra, ti schianti contro il cancello di ingresso.

    Questo se non freni.

    Anita, dunque, intanto che faceva andare le gambe faceva anche andare il cervello con queste congetture sulle mutande, in bilico tra regole grammaticali e idiosincrasie demenziali. Certe volte le pigliavano queste fisse che nemmeno la sua amica Mirella, che la conosceva bene, era in grado di capire. Bisognava prenderla com’era e basta. A lei alcune cose facevano venire il nervoso. Se si andava oltre queste piccole manie, era una pasta di ragazza.

    Solo… vietato parlare di mutandine!

    Anita Valli e Mirella Bonetti abitavano appartamenti attigui, al piano terra di un vecchio edificio industriale ristrutturato, in via Gallarate. Quando lo avevano reso abitabile, grazie ai progetti di Mirella, che era architetto, avevano deciso di lasciare uno spazio in comune, lo chiamavano la stanza delle feste, era ampio e dava su un cortile in cui Anita coltivava pomodori, erbe aromatiche e verdure varie in grandi vasi. Come diceva Mirella, Anita era un po’ fissata con le piante.

    Nella stanza delle feste avevano messo i loro cd, i libri, la chitarra di Anita e, da poco, una specie di materassino per Jarod, il labrador che avevano adottato dopo che il suo padrone aveva lasciato questa valle di lacrime contro la sua volontà.¹

    Via Gallarate, a Milano, è vicina al cimitero di Musocco. Per alcuni, era naturale andarci a passeggiare, tanto per tenersi un po’ in allenamento, in fondo è una delle poche aree verdi della zona. Meglio camminare sotto agli alberi, allietati dal canto degli uccellini piuttosto che nel traffico di viale Certosa, circondati dallo smog e dal rumore delle auto e dei tram.

    Certo, non bisognava essere persona impressionabile, in fondo là dentro, sebbene fosse un luogo verde, fresco e piacevole, si saltellava tra le tombe! Non tutti trovano i cimiteri un luogo ameno.

    Anita Valli, però, sì.

    Camminava, dunque, con incedere spedito, quando a un tratto rallentò il passo e si fermò davanti a una lapide: era semplice, spoglia, eppure elegante nel suo minimalismo.

    Le piaceva osservare le tombe, le parlavano di chi era sepolto lì, le foto i fiori, la cura o l’abbandono la dicevano lunga sui parenti e su altre cose. Alcune lapidi mostravano foto del defunto in tenuta da sci, o in cima a un monte con la piccozza in mano, tutti avevano una frase amorevole o di circostanza incisa o in rilievo: i tuoi cari che non ti dimenticheranno mai, o ancora sempre nei nostri cuori.

    A volte Anita faceva un gioco, cercava di inventare storie partendo da quello che capiva di loro, dai dettagli più insignificanti ricostruiva amori, passioni, delusioni, insomma… vite!

    Era dunque ferma davanti a questa tomba minimalista e la osservava, arretrò un poco per avere una visione d’insieme.

    Una grossa lastra in pietra grezza e una foto su ceramica, il nome in rilievo: Gianna Picci Schirò.

    Dalla fotografia si sarebbe detto una donna sulla sessantina o poco meno: troppo giovane per quel posto! Una chioma bionda, gli occhi chiari e i capelli a caschetto senza frangia, la riga da un lato. La data di nascita e quella di morte confermavano l’età. Nata a Zoagli, provincia di Genova nel 1945 e morta a Milano, nel 2006. L’anno scorso si disse Anita.

    Mentre osservava con attenzione la fotografia, che chissà per quale motivo aveva attirato la sua attenzione, Anita Valli sentì un rumore alle spalle, un po’ di tombe più in là: come uno strappo, un tonfo e un grido sommesso. Con la coda dell’occhio le parve di percepire un movimento. Si girò di scatto, ma non vide nessuno. A volte la luce del sole filtrando tra cipressi, siepi e abeti, attraversa gli spazi in mezzo alle foglie, gira intorno ai tronchi rugosi, insomma, crea strani effetti e modifica la percezione.

    Si strinse nelle spalle pensando di essere un po’ stordita, forse il caldo, che a maggio già si faceva sentire, giocava brutti scherzi. Poi però la sensazione che qualcosa non andasse si fece più forte e Anita sentì chiaramente un lamento debole. Si mosse alla ricerca della fonte del mugolio, percorse il vialetto con l’aria vigile e raggiunse lo slargo che incrociava un altro sentiero fra le tombe.

    Intorno a lei silenzio cimiteriale e odore di conifere. Dietro ai cassonetti della spazzatura, quelli verdi con le ruote, quelli in cui si gettano i fiori appassiti, vide due gambe avvolte in calze spesse, elastiche. Una donna giaceva a terra lamentandosi con un fil di voce:

    – La borsetta, me l’ha presa… mi ha buttato giù… signorina, lo segua!

    Anita Valli si avvicinò preoccupata.

    – Non ci penso neanche. A parte che non vedo nessuno, lei come sta?

    – Mi fa un po’ male la testa.

    Anita si sfilò il maglione che portava legato in vita (donna di montagna) e lo appoggiò, con delicatezza, sotto il collo della signora. Nel farlo la guardò bene in faccia: capelli a caschetto, occhi chiari…

    L’aggredita pareva riprendersi.

    – Grazie, signorina… ma pensa cosa mi va a succedere, è la prima volta che vengo in questo cimitero, anzi, è la prima volta che vengo a Milano! Sa, ero in città e mi son detta… belandi andiamo a Musocco a trovare lo zio, è sepolto là, vede quella tomba in marmo nero?

    – Vedo, vedo, signora, ma mi pare che si senta meglio. La osservò con attenzione, aveva una strana sensazione, come di déjà vu.

    Si scostò di scatto, mise a fuoco la donna socchiudendo gli occhi e arretrando la testa: capelli a caschetto, occhi chiari… ripeté dentro di sé… Anita sentì tremare le gambe e aggrottò la fronte.

    Minchia, ma questa qua è uguale sputata alla morta di prima!.

    – Scusi signora, ma lei come si chiama?

    – Gianna, mi chiamo Gianna, perché?

    – Gianna e poi?

    – Gianna Picci Schirò – cercò di rassettare la gonna, ma aveva l’aria smarrita, ebbe quasi un mancamento – perché me lo chiede?

    Non attese risposta e si rabbuiò di colpo, portandosi una mano alla fronte, come se avesse detto qualcosa di sconveniente, come se avesse commesso un errore, confusa, si mise in agitazione.

    Anita si grattò la frangia e spalancò gli occhi, poi prese a mordicchiarsi il dito medio, pensierosa: non sapeva cosa dire né cosa fare.

    Di sicuro non le pareva saggio avvisare quella poverina che, tra le altre cose, era già morta e qualche vialetto più in là, c’era la sua tomba.

    Vide in terra un foglio marroncino, lo raccolse e si rese conto che era una carta d’identità. Prima di porgerla alla bionda riuscì giusto a sbirciare il nome, che non le parve affatto quello appena sentito. La donna spalancò gli occhi e glie la strappò di mano:

    – Dia qua!

    – Signora, ascolti… io chiamerei la polizia, oppure qui nel cimitero ci sono le paline del SOS, ne cerco una e chiamo aiuto…

    – No! – urlò la donna con vigore – guardi signorina, lasci perdere – la presunta Gianna Picci Schirò parve riprendersi e divenne brusca – non c’era niente di importante nella borsa, tengo le cose che contano addosso.

    E passò a spiegare che non era il caso di chiamare nessuno, disse che nascondeva i soldi su di sé, mise su un’aria sbrigativa, come infastidita.

    – Ora devo andare, grazie per avermi soccorsa, sto bene e la saluto.

    Gianna Picci Schirò, o come diavolo si chiamava veramente, scomparve veloce fra le tombe, lasciando Anita con la faccia in sospeso e la parola a mezz’aria.

    Un coniglio sbucò da un vialetto, la guardò ed ebbe indietro uno sguardo sbalordito, non si sa se causato dalla scoperta che in una metropoli con un milione e mezzo di abitanti transitavano conigli liberi o dal precedente incontro con quella strana sciura.

    Il coniglio stette fermo un attimo sulle zampe posteriori, muovendo il muso secondo il classico atteggiamento conigliesco, poi si infilò sotto un basso cespuglio di bosso e sparì.

    Studio Bonetti, piazza Zavattari, primo piano di una palazzina anni Sessanta

    L’architetto Mirella Bonetti, amica e coinquilina di Anita, discuteva con un cliente: un signore distinto sulla cinquantina, in giacca e cravatta. Si trovavano nella piccola sala riunioni dello studio di architettura che Mirella gestiva con un socio, Domenico Belotti detto il Mimmo, e uno zio ingegnere strutturista, che però non c’era quasi mai in quanto piuttosto anziano e dedito, sempre più spesso, alle gite fuori porta o a stazionare nella casa al mare. Nell’aria c’era un odore di carta da lucido, inchiostro del plotter e quaderni nuovi.

    Non era un ufficio molto grande, in compenso era ripieno di campioni, cornici di gesso, rubinetti, frammenti di intonaco su pezzi di legno, piastrelle, riviste di architettura, oltre a una serie di cose di cui, ai più, era completamente sconosciuto l’utilizzo. Anita quando si trovava a passare dallo studio dell’amica, si chiedeva come diavolo facessero, lì dentro, a ritrovare sempre tutto, in quel casino. Cosa che accadeva, peraltro, puntualmente.

    Due stanze ricavate nell’appartamento dello zio, con ingresso dedicato, un ufficio-riunioni, un piccolo bagno e un locale più grande con tecnigrafi, computer e librerie che contenevano i faldoni dei progetti, i settimanali di settore e materiale vario: questo era lo studio di architettura Bonetti & Soci.

    In quel preciso momento i soci erano assenti, Mirella sedeva su una poltrona girevole dietro alla scrivania e scuoteva la testa visibilmente alterata. Davanti a lei, posati sul tavolo, schizzi a colori con pretese tridimensionali, piuttosto infantili.

    Li indicò agitando l’indice della mano destra, poi sollevò lo sguardo.

    – Ma si rende conto, una edicola funeraria del genere nel duemila-e-sette? Una roba a dir poco barocca, forse nel milleseicento… ecco.

    Sollevò le spalle e aprì le braccia in segno di resa, utilizzando un atteggiamento opposto a quanto stava per dire, forse per mitigare, con il non verbale, il deciso diniego:

    – Guardi, io non credo di essere in grado di progettarle una cosa del genere, anzi le dirò, dottor Gozzi, potrei anche, ma mi rifiuto categoricamente.

    Ma perché poi vengono dagli architetti se vogliono farsi i disegni da soli, per giunta orripilanti?

    Non lo disse ma espresse con lo sguardo quel pensiero e fu uno sguardo così convincente che il cliente, il dottor Augusto Gozzi, capitolò riprendendosi gli schizzi che aveva sottoposto all’architetto Bonetti, sostò pensieroso un istante poi sembrò cedere su tutta la linea.

    – Va bene, architetto, facciamo come dice lei, mi presenti un bozzetto e io lo mostro ai miei fratelli. Se la cappella di famiglia sarà di loro gradimento, le commissionerò i definitivi. In caso contrario, ci rivolgeremo altrove. Capisco che lei voglia progettarci qualcosa al passo con i tempi, anzi, io sarei anche d’accordo, purtroppo mia sorella Eugenia adora le cose antiche, di moderno non vuole sentir parlare.

    – Ok, vedrà che resterà soddisfatto dei nostri layout. In ogni caso, date le dimensioni del lotto in concessione, direi che non sarà una cappella gentilizia ma una edicola funeraria.

    – Scusi l’ignoranza, ma che differenza c’è?

    – Beh, la cappella di solito

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